La Metafisica orientale*
Ho scelto come argomento di questa esposizione la metafisica orientale; forse sarebbe stato meglio dire semplicemente la metafisica senza qualificativi perché, in verità, la metafisica pura, per sua essenza al di fuori e al di là di tutte le forme e di tutte le contingenze, non è né orientale né occidentale: è universale.
Sono soltanto le forme esteriori di cui essa è rivestita per necessità di esposizione, per esprimerne ciò che è esprimibile, sono tali forme che possono essere o orientali o occidentali; ma, sotto la loro diversità, è un fondo identico che si ritrova dappertutto e sempre, dovunque, per lo meno, ci sia metafisica vera, e questo per la semplice ragione che la verità è una.
Se le cose stanno così, perché parlare più particolarmente di metafisica orientale? Il fatto è che nelle condizioni in cui si trova attualmente il mondo occidentale, la metafisica, in esso, è cosa dimenticata, in generale ignorata, perduta quasi interamente, mentre in Oriente essa è sempre oggetto di una conoscenza effettiva. Se si vuol sapere che cos’è la metafisica è perciò all’Oriente che ci si deve rivolgere; e anche quando si voglia ritrovare qualcosa delle antiche tradizioni metafisiche che hanno potuto esistere in Occidente, in un Occidente che, sotto molti aspetti, era allora singolarmente più vicino all’Oriente di quanto non sia oggi, è soprattutto con l’aiuto delle dottrine orientali e per confronto con queste ultime che si potrà riuscire a farlo, giacché tali dottrine sono le sole che, nel campo della metafisica, possano ancora essere studiate in modo diretto. Sennonché, a questo fine, è chiaramente evidente che occorre studiarle come fanno gli Orientali stessi, e non abbandonandosi a interpretazioni più o meno ipotetiche e talvolta del tutto fantasiose; troppo spesso si dimentica che le civiltà orientali esistono sempre e hanno ancora dei rappresentanti qualificati, dai quali sarebbe sufficiente informarsi per sapere veramente di cosa si tratti.
Ho detto metafisica orientale, e non unicamente metafisica indù, perché le dottrine di questo tipo, con tutto quel che implicano, non si incontrano soltanto in India, contrariamente a ciò che qualcuno sembra credere, qualcuno che del resto non si rende ben conto della loro vera natura. Il caso dell’India non è affatto eccezionale, sotto questo riguardo; esso è esattamente quello di tutte le civiltà che possiedano quella che potrebbe esser detta una base tradizionale. A essere eccezionali e anormali sono al contrarlo le civiltà che di tale base siano sprovviste; e, a dire il vero, di simili civiltà noi non ne conosciamo che una, la civiltà occidentale moderna. Per tenere soltanto conto delle principali civiltà dell’Oriente, l’equivalente della metafisica indù si trova, in Cina, nel taoismo; esso si trova anche, d’altro canto, in certe scuole esoteriche dell’Islâm (occorre però capire chiaramente che tale esoterismo islamico non ha nulla in comune con la filosofia esteriore degli arabi, la cui ispirazione è greca per la sua maggior parte). La sola differenza è che, dappertutto all’infuori dell’India, queste dottrine sono riservate a un’élite più ristretta e più chiusa; è quel che avvenne anche in Occidente, nel medioevo, di un esoterismo piuttosto simile a quello dell’Islâm sotto più di un aspetto, esoterismo che era anch’esso altrettanto puramente metafisico quanto quest’ultimo, ma del quale i moderni, nella loro maggioranza, non sospettano neppure più l’esistenza. In India non si può parlare di esoterismo nel senso proprio della parola, perché in essa non si trova una dottrina a due volti, uno exoterico e uno esoterico; in India si può solo parlare di un esoterismo naturale, nel senso che ognuno approfondirà la dottrina di più o di meno, e andrà più o meno lontano secondo la misura delle sue proprie possibilità intellettuali, giacché per certe individualità umane esistono limitazioni che sono inerenti alla loro stessa natura e che è loro impossibile superare.
Naturalmente le forme cambiano da una civiltà all’altra, poiché esse devono adattarsi a condizioni differenti; sennonché, pur essendo maggiormente abituato alle forme indù, non provo nessun scrupolo a servirmi di altre quando ciò sia necessario, se si verifica cioè che esse possano essere d’aiuto alla comprensione di certi punti; in un fatto come questo non vediamo inconvenienti, giacché in fondo non si tratta che di espressioni diverse della stessa cosa. Una volta ancora, la verità è una ed essa è la stessa per tutti coloro che, per un qualunque cammino, siano pervenuti alla sua conoscenza.
Detto questo, è opportuno che ci si intenda sul significato da dare qui alla parola «metafisica», e ciò avrà tanto maggiore importanza in quanto ho spesso avuto occasione di constatare che non tutti la comprendono nello stesso modo. Io penso che la miglior cosa da fare, di fronte a parole che possono dar luogo a qualche equivoco, sia di restituir loro, per quanto possibile, il loro significato originario ed etimologico. Ora, stando alla sua composizione, la parola «metafisica» significa letteralmente «di là dalla fisica», intendendo «fisica» nell’accezione che tale termine aveva sempre avuto per gli antichi, accezione che è quella di «scienza della natura» in tutta la sua generalità. La fisica è lo studio di tutto quel che appartiene all’ambito della natura; ciò che riguarda la metafisica è quel che è di là dalla natura. Come si spiega, perciò, che alcuni possano sostenere che la conoscenza metafisica è una conoscenza naturale, sia per quel che riguarda il suo oggetto, sia per quel che concerne le facoltà per mezzo delle quali essa è ottenuta? È questo un vero e proprio controsenso, una contraddizione in termini; e tuttavia ‑ cosa più stupefacente ancora ‑ capita che simile confusione sia perpetrata da coloro stessi che dovrebbero aver conservato qualche idea della vera metafisica e dovrebbero saperla distinguere più chiaramente dalla pseudo-metafisica dei filosofi moderni.
Ma, si dirà forse, se la parola «metafisica» si presta a confusioni del genere, non sarebbe meglio rinunciare a servirsene, sostituendola con un’altra che abbia meno inconvenienti? In verità ciò sarebbe inopportuno, poiché, a motivo della sua formazione, tale parola si adatta perfettamente a ciò a cui si applica; ed è inoltre pressoché impossibile, inteso che le lingue occidentali non possiedono nessun altro termine che si presti così bene a quest’uso. Di servirsi semplicemente della parola «conoscenza», come si fa in India, trattandosi in effetti della conoscenza per eccellenza, la sola che sia assolutamente degna di tal nome, non c’è neppure da pensarci, giacché la cosa sarebbe ancora meno chiara per degli Occidentali, abituati, in quanto a conoscenza, a non tener conto di nulla che non rientri nell’ambito scientifico e razionale. E inoltre, è forse necessario preoccuparsi tanto dell’abuso che di una parola è stato fatto? Se si dovessero scartare tutte quelle che si trovano in questo stesso caso, quante ne rimarrebbero ancora a nostra disposizione? Non basta forse che si prendano le precauzioni necessarie per evitare errori e malintesi? Non è che noi teniamo alla parola «metafisica» più di quanto non teniamo a qualsiasi altra parola; sennonché, fino a che non ci venga proposto un termine migliore per sostituirla, continueremo a servircene come abbiamo fatto finora.
Sfortunatamente c’è gente che ha la pretesa di «giudicare» quel che non conosce, e poiché costoro assegnano il nome di «metafisica» a una conoscenza puramente umana e razionale (il che per noi è soltanto scienza o filosofia), immaginano che la metafisica orientale non sia niente di più né d’altro se non questo, dal che traggono logicamente la conclusione che la metafisica non può portare a questi o a quegli altri risultati. E tuttavia essa a simili risultati effettivamente conduce, ma proprio perché è cosa del tutto diversa da quel che presumono loro; tutto quel che essi prendono in considerazione non ha veramente nulla di metafisico dal momento che si tratta soltanto di una conoscenza d’ordine naturale, di un sapere profano ed esteriore; non è affatto di questo che noi intendiamo parlare. Vorremmo dunque intendere «metafisica» come un sinonimo di «soprannaturale»? Accetteremmo molto volentieri un accostamento simile, giacché, finché non si oltrepassi la natura, ossia il mondo manifestato in tutta la sua estensione (e non il solo mondo sensibile che di esso è soltanto un elemento infinitesimale), si è ancora nell’ambito della fisica; quel che è metafisico è ‑ come già abbiamo detto ‑ quel che è al di là e al di sopra della natura, ed è perciò propriamente ciò che è «soprannaturale».
Ma qui si avanzerà indubbiamente un’obiezione: è quindi possibile andare in tal modo al di là della natura? Non esiteremo a rispondere in modo nettissimo: non solo ciò è possibile, ma ciò è. Questa non è però che un’affermazione, si dirà ancora; quali sono le prove che se ne possono dare? È veramente strano che si chieda di provare la possibilità di una conoscenza invece di cercare di rendersene conto da se stessi facendo il lavoro necessario per acquisirla. Per chi possieda simile conoscenza, quale interesse e quale valore possono avere tutte queste discussioni? Il fatto di sostituire la conoscenza in sé e per sé con la «teoria della conoscenza» è forse la più bella ammissione di impotenza della filosofia moderna.
Del resto c’è in ogni certezza qualcosa di incomunicabile; nessuno può arrivare realmente a una qualsiasi conoscenza se non mediante uno sforzo strettamente personale, e tutto quel che un altro può fare è fornire l’occasione e indicare i mezzi per giungervi. È questa la ragione per cui sarebbe vano pretendere, in campo puramente intellettuale, di imporre una convinzione qualsivoglia; l’argomentazione migliore non potrebbe, a tal riguardo, sostituirsi alla conoscenza diretta ed effettiva.
Ora, la metafisica quale noi l’intendiamo può essere definita? No, perché definire significa sempre limitare, e ciò di cui è questione è, in sé, veramente e assolutamente illimitato e per questa ragione non può lasciarsi rinchiudere in nessuna formula o in nessun sistema. In certo qual modo la metafisica può essere caratterizzata, ad esempio dicendo che essa è la conoscenza dei principi universali; ma non si tratta allora di una vera e propria definizione, e del resto tale caratterizzazione può darne solo un’idea abbastanza vaga. Vi aggiungeremo qualcosa se diciamo che l’ambito dei principi è molto più vasto di quanto non abbiano pensato certi Occidentali che hanno a ogni buon conto fatto della metafisica, ma in un modo parziale e incompleto. Così, quando Aristotele vedeva la metafisica come la conoscenza dell’essere in quanto essere, egli la faceva simile all’ontologia, assumeva, cioè, la parte per il tutto. Per la metafisica orientale l’essere puro non è né il primo né il più universale dei principi, poiché è già una determinazione; occorre perciò andare di là dall’essere e, anzi, è questo quel che più importa. Questa è la ragione per cui, in ogni concezione veramente metafisica, occorre sempre tener presente il posto che ha l’inesprimibile; anzi, tutto quel che si può esprimere non è letteralmente nulla nei confronti di ciò che oltrepassa qualsiasi espressione, così come il finito, qualunque sia la sua grandezza, è nullo nei riguardi dell’Infinito. Molto più che esprimere si può suggerire, e di tal tipo è il ruolo che in questo campo adempiono le forme esteriori; tutte queste forme, si tratti di parole o si tratti di simboli di qualunque genere, costituiscono soltanto un supporto, un punto d’appoggio per elevarsi a possibilità di concezione che le sopravanzano senza paragone; torneremo più avanti sull’argomento.
Stiamo parlando di concezioni metafisiche non disponendo, per farci capire, di un termine diverso; ma non si creda, a causa di ciò, che si tratti di qualcosa di simile a quelle che sono le concezioni scientifiche o filosofiche; quello di cui si tratta non è di effettuare «astrazioni» di qualsivoglia genere, bensì di prender diretta conoscenza della verità com’essa è. La scienza è la conoscenza razionale, discorsiva, sempre indiretta, una conoscenza di riflesso; la metafisica è la conoscenza sovrarazionale, intuitiva e immediata. Tale intuizione intellettuale pura, senza la quale non c’è vera metafisica, non deve però essere confusa con l’intuizione sensibile; l’una è di là dalla ragione, ma l’altra ne è al di qua; quest’ultima può soltanto abbracciare il mondo del cambiamento e del divenire, vale a dire la natura, o meglio un’infima parte della natura. Il campo dell’intuizione intellettuale, al contrario, è l’ambito dei principi eterni e immutabili, è il dominio metafisico.
L’intelletto trascendente, per afferrare direttamente i principi metafisici, dev’essere esso stesso di ordine universale; non è più una facoltà individuale, e considerarlo tale sarebbe contraddittorio, poiché non può rientrare nelle possibilità dell’individuo il superare i propri limiti, l’uscire dalle condizioni che lo definiscono in quanto individuo. La ragione è una facoltà propriamente e specificamente umana; ma quel che è al di là della ragione è veramente «non-umano»; è questo che rende possibile la conoscenza metafisica, e quest’ultima ‑ occorre dirlo ancora una volta ‑ non è una conoscenza umana. In altri termini, non è in quanto uomo che l’uomo può giungere a essa; ma è in quanto quest’essere, che è umano in uno dei suoi stati, è nello stesso tempo qualcos’altro e qualcosa di più di un essere umano; ed è la presa di coscienza effettiva degli stati sovraindividuali che è l’oggetto reale della metafisica, o, ancor meglio, che è la conoscenza metafisica vera e propria. Arriviamo perciò qui a uno dei punti più essenziali, ed è necessario insistervi: se l’individuo fosse un essere completo, se costituisse un sistema chiuso al modo della monade di Leibniz, la conoscenza metafisica non sarebbe possibile; irrimediabilmente rinchiuso in se stesso, un tale essere non avrebbe alcun mezzo per conoscere ciò che non è contenuto nell’ordine di esistenza al quale esso appartiene. Sennonché le cose non stanno così: l’individuo in realtà non rappresenta se non una manifestazione transitoria e contingente dell’essere vero; esso non è che uno stato particolare fra una moltitudine indefinita di altri stati dello stesso essere; e tale essere è, in sé, assolutamente indipendente da tutte le sue manifestazioni, allo stesso modo in cui, per servirsi di un paragone che a ogni momento ritorna nei testi indù, il sole è assolutamente indipendente dalle immagini molteplici nelle quali si riflette. È questa la distinzione fondamentale tra il «Sé» e l’«io», tra la personalità e l’individualità; e come le immagini sono ricollegate dai raggi luminosi alla fonte solare senza la quale non avrebbero nessuna esistenza e nessuna realtà, così l’individualità, si tratti del resto dell’individualità umana o di qualsiasi altro stato analogo di manifestazione, è ricollegata alla personalità, nel centro principiale dell’essere, mediante quell’intelletto trascendente del quale abbiamo appena parlato. Non è possibile, entro i limiti di questa esposizione, sviluppare in modo più completo queste considerazioni, né dare un’idea più precisa della teoria degli stati molteplici dell’essere; ma io credo tuttavia di averne detto abbastanza da farne per lo meno presentire l’importanza capitale in ogni dottrina veramente metafisica.
Ho detto teoria, ma non è solo di teoria che si tratta, e questo è un altro punto che richiede una spiegazione. La conoscenza teorica, la quale ancora non è se non indiretta e in qualche modo simbolica, è soltanto una preparazione ‑ però indispensabile ‑ della vera conoscenza. Essa è del resto la sola che sia in certo qual modo comunicabile e, ancora, essa non lo è completamente; è questa la ragione per la quale qualsiasi esposizione non è se non un mezzo per accostare la conoscenza, e tale conoscenza, che inizialmente è soltanto virtuale, deve in seguito essere realizzata effettivamente.
Troviamo qui un’altra delle differenze che ci sono con quella metafisica parziale a cui abbiamo accennato in precedenza, quella di Aristotele ad esempio, già teoricamente incompleta in quanto si limita all’essere, e nella quale, inoltre, la teoria sembra di fatto venir presentata come sufficiente a se stessa, invece di essere concepita espressamente in vista di una realizzazione corrispondente, com’essa è sempre in tutte le dottrine orientali. E tuttavia, anche in questa metafisica imperfetta, saremmo tentati di dire in questa semi-metafisica, si incontrano talvolta affermazioni che, se fossero state capite bene, avrebbero dovuto portare a conseguenze ben diverse: non dice infatti Aristotele ‑ chiaramente ‑ che un essere è tutto quel che conosce? Tale affermazione di un’identificazione attraverso la conoscenza è il principio stesso della realizzazione metafisica; sennonché, qui tale principio rimane isolato, ha il solo valore di una dichiarazione meramente teorica, da esso non si trae nessuna conclusione, e sembra che, dopo averlo posto, non ci si pensi neanche più; come si spiega che lo stesso Aristotele, e i suoi continuatori, non abbiano percepito meglio tutto ciò che era in esso implicato? Vero è che la stessa cosa accade in molti altri casi, e che essi sembrano dimenticare talvolta cose tanto essenziali quali la distinzione tra l’intelletto puro e la ragione, dopo averle tuttavia formulate non meno esplicitamente; si tratta di strane lacune. Forse che bisogna vedere in esse l’effetto di certe limitazioni che sarebbero connaturate allo spirito occidentale, fatte salve eccezioni più o meno rare, ma sempre possibili? Ciò può essere vero in una certa misura, tuttavia non bisogna credere che l’intellettualità occidentale sia stata, in generale, così ristrettamente limitata, un tempo, quanto essa lo è nell’epoca moderna. Soltanto che, dottrine come quelle di cui abbiamo appena parlato, dopo tutto non sono se non dottrine esteriori, ben superiori a molte altre, dal momento che contengono nonostante tutto una parte di metafisica vera, ma sempre commista a considerazioni di un altro ordine, le quali non hanno ‑ esse ‑ nulla di metafisico... Per quanto ci riguarda, noi abbiamo la certezza che in Occidente ci furono altre cose, oltre a quelle, nell’antichità e nel medioevo; che ci furono, a uso di un’élite, dottrine puramente metafisiche e che possiamo dire complete, compresa quella realizzazione che, per la maggior parte dei moderni, è senza dubbio cosa appena concepibile; se l’Occidente ne ha così totalmente perduto il ricordo, è a causa del fatto che esso ha rotto con le proprie tradizioni, ed è questa la ragione per cui la civiltà moderna è una civiltà anormale e deviata.
Se la conoscenza puramente teorica fosse fine a se stessa, se la metafisica dovesse fermarsi qui, si tratterebbe già di qualcosa, sicuramente, ma di qualcosa di affatto insufficiente. Nonostante la certezza vera, ancora più forte di una certezza matematica, che è già connessa con una simile conoscenza, si tratterebbe in fondo, in un ambito incomparabilmente superiore, soltanto di quel che è nel suo campo inferiore, terrestre e umano, la speculazione scientifica e filosofica. Non questo deve essere la metafisica; che altri si interessino a un «gioco mentale» o a quel che può sembrar tale, sono affari loro; per noi, le cose di questo genere sono piuttosto indifferenti, e noi pensiamo che le curiosità dello psicologo debbano essere totalmente estranee al metafisico. Per quest’ultimo ciò che conta è il conoscere quel che è, e conoscerlo in modo tale da essere, realmente ed effettivamente, tutto quel che si conosce.
Quanto al mezzi della realizzazione metafisica, sappiamo perfettamente qual è l’obiezione che possono opporre, per quanto li riguarda, coloro che credono di dover contestare la possibilità di simile realizzazione. Tali mezzi, in effetti, devono essere alla portata dell’uomo; essi devono, almeno per i primi stadi, adattarsi alle condizioni dello stato umano, giacché è in questo stato che si trova attualmente l’essere che, partendo da esso, dovrà prendere possesso degli stati superiori. È perciò in forme che appartengano al mondo in cui si situa la sua presente manifestazione che l’essere assumerà un punto d’appoggio per elevarsi al di sopra di questo stesso mondo; parole, segni simbolici, riti o procedimenti preparatori di qualsivoglia genere, non hanno altra ragion d’essere né altra funzione: come già abbiamo detto, sono supporti e nulla più. Ma ‑ dirà qualcuno ‑ come può avvenire che simili mezzi puramente contingenti producano un effetto che li oltrepassa immensamente, che è di un tipo del tutto diverso da quello a cui essi stessi appartengono? Faremo subito notare che in realtà si tratta solo di mezzi accidentali, e che il risultato che essi aiutano a ottenere non è affatto un effetto loro; essi mettono l’essere nelle disposizioni necessarie per raggiungerlo più facilmente, ed è tutto. Se l’obiezione che stiamo esaminando fosse in questo caso valevole, essa sarebbe pure valevole nel caso dei riti religiosi, nel caso dei sacramenti, ad esempio, nei quali la sproporzione tra il mezzo e il fine non è minore; alcuni di coloro che avanzano un’obiezione di questo genere, forse a questo non hanno pensato. Per quel che ci riguarda, noi non confondiamo un semplice mezzo con una causa nel senso vero della parola, e non riteniamo la realizzazione metafisica un effetto di checchessia, perché essa non è la produzione di qualcosa che non esista ancora, ma la presa di coscienza di ciò che è, in modo permanente e immutabile, al di fuori di ogni successione di tempo o d’altro genere, giacché tutti gli stati dell’essere, considerati nel loro principio, sono in perfetta simultaneità nell’eterno presente.
Non abbiamo perciò nessuna difficoltà a riconoscere che non c’è comune misura tra la realizzazione metafisica e i mezzi che portano a essa o, se si preferisce, che la preparano. È questa del resto la ragione per cui nessuno di questi mezzi è rigorosamente necessario, d’una necessità assoluta; o per lo meno, non c’è che una sola preparazione che sia veramente indispensabile, ed è la conoscenza teorica. Quest’ultima, d’altra parte, non potrebbe spingersi molto lontano senza un mezzo che di conseguenza dobbiamo ritenere come quello che avrà la funzione più importante e più costante: tale mezzo è la concentrazione; e si tratta di qualcosa di assolutamente estraneo, perfino contrario, alle abitudini mentali dell’Occidente moderno, nel quale tutto tende solo alla dispersione e al cambiamento incessante. Nei confronti di questo mezzo, tutti gli altri sono soltanto secondari: essi servono soprattutto a favorire la concentrazione, e inoltre ad armonizzare tra di loro i diversi elementi dell’individualità umana, allo scopo di preparare la comunicazione effettiva tra tale individualità e gli stati superiori dell’essere.
Questi mezzi potranno del resto, al punto di partenza, variare quasi indefinitamente, giacché, per ciascun individuo, dovranno essere appropriati alla sua speciale natura, conformi alle sue attitudini e alle sue disposizioni particolari. In seguito le differenze andranno diminuendo, giacché si tratta di vie molteplici che tendono tutte verso un medesimo scopo; e a partire da un determinato stadio sarà scomparsa ogni molteplicità; ma allora i mezzi contingenti e individuali avranno terminato di avere la loro funzione. Questa funzione, per far vedere che non è affatto necessaria, certi testi indù la paragonano a quella di un cavallo, con l’aiuto del quale un uomo arriverà più velocemente e più facilmente al termine del suo viaggio, ma senza il quale potrebbe lo stesso pervenirvi. I riti, le procedure diverse indicate in vista della realizzazione metafisica, si potrebbero trascurare e tuttavia, mediante la sola fissazione costante dello spirito e di tutte le potenze dell’essere sullo scopo di tale realizzazione, si potrebbe raggiungere alla fine tale scopo supremo; sennonché, se ci sono mezzi che rendano lo sforzo meno penoso, perché trascurarli volontariamente? Forse che significa confondere il contingente con l’assoluto il tener conto delle condizioni dello stato umano, giacché è da questo stato, esso stesso contingente, che siamo attualmente obbligati a partire per la conquista degli stati superiori, e poi dello stato supremo e incondizionato?
Indichiamo adesso, secondo gli insegnamenti che sono comuni a tutte le dottrine tradizionali dell’Oriente, le tappe principali della realizzazione metafisica. La prima, che in certo qual modo è soltanto preliminare, si ottiene nell’ambito umano e non si estende ancora al di là dei limiti dell’individualità. Essa consiste in un’estensione indefinita di tale individualità, di cui la modalità corporea, la sola a essere sviluppata nell’uomo comune, non rappresenta se non una minima porzione; è da questa modalità corporea che occorre partire di fatto, da cui l’impiego ‑ per incominciare ‑ di mezzi presi nell’ordine sensibile, i quali però dovranno avere una ripercussione nelle altre modalità dell’essere umano. La fase di cui parliamo è in fondo la realizzazione o lo sviluppo di tutte le possibilità che sono virtualmente contenute nell’individualità umana, le quali di quest’ultima costituiscono quasi altrettanti prolungamenti molteplici che si estendono in diversi sensi al di là del dominio corporeo e sensibile; ed è attraverso tali prolungamenti che si potrà in seguito stabilire la comunicazione con gli altri stati.
Questa realizzazione dell’individualità integrale è indicata da tutte le tradizioni come la restaurazione di quello che esse chiamano lo «stato primordiale», stato che è considerato lo stato dell’uomo vero, e che già sfugge a certe limitazioni caratteristiche dello stato ordinario, in particolare alla limitazione dovuta alla condizione temporale. L’essere che abbia raggiunto tale «stato primordiale» è ancora soltanto un individuo umano, non è ancora in effettivo possesso di nessuno stato sovraindividuale; e tuttavia è da allora affrancato dal tempo, la successione apparente delle cose si è per lui trasmutata in simultaneità; egli possiede coscientemente una facoltà che è sconosciuta all’uomo comune e che può essere denominata il «senso dell’eternità». Ciò riveste un’importanza estrema, perché colui che non può uscire dal punto di vista della successione temporale e vedere ogni cosa in modo simultaneo, è incapace della minima concezione di ordine metafisico. La prima cosa da fare per chi voglia pervenire veramente alla conoscenza metafisica, è di porsi fuori del tempo, diremmo volentieri nel «non tempo», se una simile espressione non dovesse sembrare troppo strana e inusitata. Tale coscienza dell’intemporale può del resto essere raggiunta in certo qual modo, indubbiamente molto incompleto, ma tuttavia già reale, ben prima che sia ottenuto nella sua pienezza quello «stato primordiale» del quale abbiamo appena parlato.
Ci si chiederà forse: perché chiamare in questo modo lo «stato primordiale»? La ragione di ciò consiste nel fatto che tutte le tradizioni, compresa quella dell’Occidente (giacché la stessa Bibbia altro non dice), si accordano nell’insegnare che tale stato è quello che era normale alle origini dell’umanità, mentre lo stato presente non è che il risultato di una decadenza, l’effetto di una sorta di materializzazione progressiva prodottasi nel corso delle età, per la durata di un certo ciclo. Noi non crediamo nell’«evoluzione», nel senso che i moderni danno a questa parola; le ipotesi cosiddette scientifiche immaginate da questi ultimi non corrispondono affatto alla realtà. Qui non è però possibile fare più di una semplice allusione alla teoria dei cicli cosmici, teoria che è sviluppata in modo particolare nelle dottrine indù; ciò equivarrebbe a esorbitare dal nostro argomento, poiché la cosmologia non è la metafisica, quantunque ne dipenda piuttosto intimamente; essa ne è soltanto un’applicazione all’ordine fisico, e le vere leggi naturali non sono che conseguenze, in un ambito relativo e contingente, dei principi universali e necessari.
Ma ritorniamo alla realizzazione metafisica: la sua seconda fase si riferisce agli stati sovraindividuali, ma ancora condizionati, anche se le loro condizioni sono del tutto differenti da quelle dello stato umano. Qui il mondo dell’uomo, nel quale eravamo ancora nello stadio precedente, è completamente e definitivamente superato. Occorre dire di più: quello che è superato è il mondo delle forme nella sua accezione più generale, mondo che comprende tutti gli stati individuali, quali essi siano, poiché la forma è la condizione comune a tutti questi stati, la condizione per cui è definita l’individualità in quanto tale. L’essere, che non può più venir detto umano, è ormai uscito dalla «corrente delle forme», secondo l’espressione estremo-orientale. Ci sarebbero però ancora altre distinzioni da fare, poiché questa fase può essere suddivisa: essa comporta in realtà diverse tappe, che vanno dall’ottenimento di stati che ‑ seppure informali ‑ appartengono ancora all’esistenza manifestata, fino al grado di universalità che è dell’essere puro.
E tuttavia, per quanto elevati siano tali stati in rapporto allo stato umano, per quanto lontani essi siano da quest’ultimo, sono ancora soltanto relativi, e ciò è vero anche del più alto fra di loro, quello che corrisponde al principio di ogni manifestazione. Il loro possesso non è perciò se non un risultato transitorio, risultato che non deve venir confuso con il fine ultimo della realizzazione metafisica; questo fine è situato di là dall’essere, e in rapporto a esso tutto il resto costituisce soltanto un avvio e una preparazione. Questo fine supremo è lo stato assolutamente incondizionato, affrancato da qualsiasi limitazione; proprio per questo motivo esso è totalmente inesprimibile, e tutto quel che se ne può dire si traduce soltanto in termini di forma negativa: negazione dei limiti che determinano e definiscono ogni esistenza nella sua relatività. L’ottenimento di questo stato corrisponde a quella che la dottrina indù denomina la «Liberazione», quando la consideri in rapporto agli stati condizionati, oppure l’«Unione», quando la veda in rapporto al Principio supremo.
In questo stato incondizionato tutti gli altri stati dell’essere si ritrovano del resto in modo principiale, ma trasformati, svincolati dalle condizioni specifiche che li determinavano in quanto stati particolari. Ciò che permane è quel che ha una realtà positiva, giacché è qui che tutto ha il suo principio; l’essere «liberato» è veramente in possesso della pienezza delle sue possibilità. Quelle che sono scomparse sono soltanto le condizioni limitative, la cui realtà è esclusivamente negativa, dal momento che esse non rappresentano se non una «privazione» nel senso in cui Aristotele intendeva la parola. Per cui, ben lungi dall’essere una sorta di annichilimento come qualche occidentale immagina, questo stato finale è al contrario la pienezza assoluta, la realtà suprema nei cui confronti tutto il resto è soltanto illusione.
Aggiungiamo inoltre che qualsiasi risultato, anche parziale, che l’essere ottenga nel corso della realizzazione metafisica, è ottenuto in modo definitivo. Simile risultato costituisce per tale essere un’acquisizione permanente, che nulla gli potrà mai far perdere; il lavoro compiuto in questo dominio, quand’anche venga a interrompersi prima del suo termine finale, è fatto una volta per tutte, per la buona ragione che è fuori del tempo. Ciò è vero persino della semplice conoscenza teorica, poiché ogni conoscenza porta i suoi frutti in se stessa, in questo ben diversa dall’azione, la quale è soltanto una modificazione momentanea dell’essere ed è sempre separata dai suoi effetti. Questi ultimi, d’altronde, appartengono allo stesso ambito e sono dello stesso ordine di esistenza di quel che li ha prodotti; l’azione non può avere come effetto di liberare dall’azione, e le sue conseguenze non si estendono di là dai confini dell’individualità, intesa del resto nell’integralità dell’estensione di cui è capace. L’azione, qualunque essa sia, non essendo opposta all’ignoranza, che è la radice di ogni limitazione, non ha la virtù di farla svanire: solo la conoscenza dissipa l’ignoranza, come la luce del sole dissipa le tenebre, e allora il «Sé», l’immutabile ed eterno principio di tutti gli stati manifestati e non manifestati appare nella sua suprema realtà.
Dopo questo abbozzo molto imperfetto, il quale non dà sicuramente se non un’idea assai approssimativa di cosa può essere la realizzazione metafisica, occorre fare un’osservazione del tutto essenziale al fine di evitare gravi errori di interpretazione: ed è che tutto ciò di cui abbiamo parlato qui non ha nessun rapporto con cose che siano fenomeni, più o meno straordinari. Tutto ciò che è fenomeno è di ordine fisico; la metafisica è di là da questi fenomeni; e noi intendiamo tale parola nella sua generalità più ampia. Da ciò discende, fra altre conseguenze, che gli stati dei quali abbiamo trattato non hanno assolutamente nulla di «psicologico»; questo bisogna dirlo decisamente, perché a tal proposito si sono generate strane confusioni. La psicologia, per sua stessa definizione, non può aver presa che su stati umani, e per di più, così come la si intende oggi, essa non tocca se non una zona molto ristretta fra le possibilità dell’individuo, possibilità che vanno molto più lontano di quanto gli specialisti di questa scienza non possano supporre. L’individuo umano, in effetti, è allo stesso tempo molto di più e molto di meno di quanto non si pensi in genere in Occidente: esso è molto di più, a motivo delle sue possibilità di estensione indefinita al di là della modalità corporea, alla quale si riferisce in fin dei conti tutto quel che se ne studia comunemente; ma è anche molto di meno. in quanto, ben lungi dal costituire un essere completo e sufficiente a se stesso, esso è soltanto una manifestazione esteriore, un’apparenza fuggevole rivestita dall’essere vero, e dalla quale l’essenza di quest’ultimo non è assolutamente influenzata nella sua immutabilità.
Su questo punto, cioè sul fatto che l’ambito metafisico è totalmente al di fuori del mondo fenomenico, occorre insistere, perché i moderni abitualmente conoscono e ricercano soltanto i fenomeni; essi si interessano quasi esclusivamente a questi ultimi, cosa di cui testimonia del resto lo sviluppo da essi dato alle scienze sperimentali; e la loro inettitudine metafisica discende dalla stessa tendenza. Senza dubbio può accadere che certi fenomeni speciali si producano nel corso del lavoro di realizzazione metafisica, ma in modo del tutto accidentale: si tratta allora di un risultato abbastanza increscioso, giacché le cose di questo genere possono soltanto essere un ostacolo per chi fosse tentato di attribuirvi una qualche importanza. Colui che si lascia fermare e distogliere dalla sua via a causa dei fenomeni, colui, soprattutto, che si lascia andare nella ricerca di «poteri» eccezionali, ha ben poche probabilità di spingere la realizzazione più lontano del grado al quale è già arrivato quando tale deviazione sopraggiunge.
Questa osservazione ci porta naturalmente a rettificare alcune interpretazioni errate che si sono diffuse per quanto riguarda il termine «Yoga»; non si è forse talvolta preteso, in effetti, che ciò che gli indù denominano con tale parola è lo sviluppo di certi poteri latenti dell’essere umano? Quanto abbiamo detto è sufficiente a far vedere che tale definizione deve essere respinta. In realtà la parola «Yoga» è quella che noi abbiamo tradotto il più letteralmente possibile con «Unione»; quello che essa indica in modo proprio è perciò lo scopo supremo della realizzazione metafisica; e lo «Yogi», a volerlo intendere nel suo significato più rigoroso, è unicamente colui che ha raggiunto questo scopo. È a ogni buon conto vero che, per estensione, questi stessi termini sono ‑ in certi casi ‑ applicati anche a stadi preparatori all’«Unione», o anche a semplici mezzi preliminari, e all’essere che è arrivato a tali stadi o che si serve di simili mezzi per pervenirci. Ma come si fa a sostenere che una parola il cui significato originario è «Unione» possa indicare propriamente e prima d’ogni altra cosa degli esercizi di respirazione o qualche altra cosa di questo genere? Simili esercizi e altri, fondati generalmente su quella che possiamo chiamare la scienza del ritmo, figurano effettivamente fra i mezzi più usitati in vista della realizzazione metafisica; ma non si vada a prendere per il fine ciò che è soltanto un mezzo contingente e accidentale, e non si prenda – analogamente – per il significato originario di una parola quella che di essa non è se non un’accezione secondaria e più o meno deviata.
Parlando di ciò che originariamente è lo «Yoga», e dicendo che tale parola ha sempre voluto indicare essenzialmente la stessa cosa, si può pensare di sollevare una questione della quale non abbiamo finora detto nulla: qual è l’origine delle dottrine metafisiche tradizionali dalle quali assumiamo tutti i dati che stiamo esponendo? La risposta è semplicissima, anche se rischia di suscitare le proteste di coloro che vorrebbero tutto vedere da un punto di vista storico: ed è che origine non c’è; intendiamo dire con ciò che non esiste origine umana, tale da essere determinata nel tempo. In altri termini, l’origine della tradizione, se pure la parola origine in un caso simile ha ancora una ragione di essere, è «non-umana» come la metafisica stessa. Le dottrine di quest’ordine non sono apparse in un momento qualsivoglia della storia dell’umanità: l’allusione da noi fatta allo «stato primordiale», e inoltre ‑ d’altro canto ‑ quel che abbiamo detto del carattere intemporale di tutto ciò che è metafisico, dovrebbero permettere di capirlo senza troppa difficoltà, a condizione che ci si rassegni ad ammettere, contrariamente a certi pregiudizi, che ci sono cose alle quali il punto di vista storico non è assolutamente applicabile. La verità metafisica è eterna; di conseguenza ci sono sempre stati esseri che hanno potuto conoscerla realmente e totalmente. Quel che può cambiare non sono che forme esteriori, mezzi contingenti; e questo stesso cambiamento non ha nulla di quel che i moderni chiamano «evoluzione»; esso è un semplice adattamento a queste o quelle condizioni particolari, alle condizioni specifiche di una razza o di un’epoca determinata. Da ciò discende la molteplicità delle forme; ma il fondo della dottrina non ne risulta minimamente modificato o influenzato, così come l’unità e l’identità essenziali dell’essere non sono alterate dalla molteplicità dei suoi stati di manifestazione.
La conoscenza metafisica, e la realizzazione che essa implica per essere veramente tutto ciò che dev’essere, sono perciò possibili dappertutto e sempre, perlomeno in linea di principio, e se tale possibilità venga considerata in certo qual modo in maniera assoluta; ma di fatto, praticamente ‑ se cosi si può dire ‑, e in un senso relativo, sono esse ugualmente possibili in qualsiasi ambiente e senza tenere il minimo conto delle contingenze? Su questo punto saremo molto meno affermativi, perlomeno per quanto riguarda la realizzazione; e ciò ha la sua spiegazione nel fatto che quest’ultima, al suo inizio, deve assumere il suo punto di appoggio nell’ordine delle contingenze. Possono esistere condizioni particolarmente sfavorevoli, come quelle che presenta il mondo occidentale moderno, talmente sfavorevoli che un lavoro simile vi risulta pressoché impossibile, e potrebbe addirittura essere pericoloso intraprenderlo, in assenza di qualsiasi appoggio fornito dall’ambiente, e in una situazione circostante che può solamente contrastare e addirittura annullare gli sforzi di chi vi si dedicasse. All’opposto, le civiltà che noi chiamiamo tradizionali sono organizzate in tal modo che vi si può trovare un aiuto efficace, aiuto che senza dubbio non è rigorosamente indispensabile, non diversamente da tutto quel che è esteriore, ma senza il quale è tuttavia assai difficile ottenere risultati effettivi. Si tratta di qualcosa che va al di là delle forze di un individuo umano isolato, quand’anche tale individuo possieda le qualificazioni richieste; per cui non vorremmo incoraggiare nessuno, nelle presenti condizioni, a impegnarsi sconsideratamente in una simile impresa; e questo ci porterà direttamente alla nostra conclusione.
Secondo noi, la grande differenza tra l’Oriente e l’Occidente (e qui si tratta esclusivamente dell’Occidente moderno), la sola differenza, anzi, che sia veramente essenziale, giacché tutte le altre derivano da essa, è la seguente: dal lato dell’Oriente, conservazione della tradizione con tutto ciò che essa implica; dal lato dell’Occidente, oblio e perdita di questa tradizione; dalla parte del primo, conservazione della conoscenza metafisica; dalla parte del secondo, completa ignoranza di tutto quel che si riferisce a questo campo. Tra civiltà che aprono alla loro élite le possibilità che abbiamo cercato di far intravedere, che le danno i mezzi più appropriati per realizzare effettivamente tali possibilità, e che, per lo meno a qualcuno, permettono in tal modo di realizzarle nella loro pienezza, tra queste civiltà tradizionali e una civiltà che si è sviluppata in un senso puramente materiale, come si potrebbe trovare una comune misura? E chi dunque – a meno che non sia accecato da non so qual partito preso ‑ oserà sostenere che la superiorità materiale compensa l’inferiorità intellettuale?
Diciamo intellettuale, ma intendendo con tale parola l’intellettualità vera, quella che non si limita all’ambito umano né all’ordine naturale; quella che rende possibile la conoscenza metafisica pura nella sua assoluta trascendenza. Mi sembra che basti riflettere un istante su queste domande per non aver dubbi o esitazioni sulla risposta che è il caso di darvi.
Diciamo intellettuale, ma intendendo con tale parola l’intellettualità vera, quella che non si limita all’ambito umano né all’ordine naturale; quella che rende possibile la conoscenza metafisica pura nella sua assoluta trascendenza. Mi sembra che basti riflettere un istante su queste domande per non aver dubbi o esitazioni sulla risposta che è il caso di darvi.
La superiorità materiale dell’Occidente moderno non è contestabile; né qualcuno la contesta, ma nessuno neppure gliela invidia. Sennonché occorre dire di più: di questo sviluppo materiale eccessivo, presto o tardi l’Occidente rischia di perire se non si riprende in tempo, e se non risolve di prendere seriamente in considerazione il «ritorno alle origini», secondo un’espressione in uso in certe scuole di esoterismo islamico. Da diverse parti si parla molto, oggi, di «difesa dell’Occidente»; ma sfortunatamente si sembra non capire che è soprattutto contro se stesso che l’Occidente ha bisogno di essere difeso, che è dalle sue proprie tendenze attuali che provengono i principali e i più temibili di tutti i pericoli che lo minacciano realmente. Varrebbe la pena di meditare un po’ profondamente su queste ultime considerazioni, e non sarà mai troppo insistente l’invito a così fare che sia rivolto a tutti coloro che di riflettere sono ancora capaci. È quindi su questo che terminerò la mia esposizione, felice se sarò stato capace, se non di far comprendere pienamente, almeno di aver fatto presentire qualcosa di quell’intellettualità orientale di cui l’equivalente in Occidente non si trova più, e di aver offerto una visione d’insieme ‑ per quanto imperfetta ‑ di quella che è la metafisica vera, la conoscenza per eccellenza, la quale è, come dicono i testi sacri dell’India, la sola che sia totalmente vera, assoluta, infinita e suprema.
* Conferenza tenuta il 17 dicembre 1925 a La Sorbonne di Parigi.
* Conferenza tenuta il 17 dicembre 1925 a La Sorbonne di Parigi.