Il Demiurgo[1]
Di tutti i problemi che costantemente hanno preoccupato gli uomini, ve ne è uno, quello dell’origine del male, che pare esser sempre stato il più difficile da risolvere, tanto da rivelarsi un ostacolo insormontabile per la maggior parte dei filosofi e soprattutto dei teologi: Si Deus est, unde Malum? Si non est, unde Bonum?
Il dilemma è effettivamente insolubile per coloro che considerano la Creazione come l’opera diretta di Dio e che, di conseguenza, sono obbligati a ritenerlo responsabile sia del Bene che del Male. Si dirà senza dubbio che questa responsabilità è in una certa misura attenuata dalla libertà delle creature; ma se le creature possono scegliere tra il Bene ed il Male, è segno che entrambi esistono già, almeno in principio, e se esse talvolta sono piuttosto propense a decidersi per il Male invece di essere sempre portate al Bene, ciò è dovuto al fatto che sono imperfette; ma come ha potuto Dio, se è perfetto, creare esseri imperfetti?
È evidente che il perfetto non può generare l’imperfetto,
perché, se così fosse, il perfetto dovrebbe contenere in se stesso l’imperfetto
allo stato principiale ed allora non sarebbe più il perfetto. L’imperfetto non
può dunque procedere dal perfetto per via di emanazione; potrebbe solo
risultare dalla creazione ex nihilo;
ma com’è possibile ammettere che qualcosa possa venire dal nulla, o, in altri
termini, che possa esistere qualcosa che non abbia un principio? D’altronde,
l’ammettere la creazione ex nihilo
equivarrebbe ad ammettere l’annientamento finale degli esseri creati, poiché
ciò che ha avuto un inizio deve anche avere una fine, e non vi sarebbe nulla di
più illogico del parlare in tal caso di immortalità; del resto la creazione
così intesa non è che un’assurdità, perché essa contraddice quel principio di
causalità che nessun uomo ragionevole può in buona fede negare, per cui
possiamo dire con Lucrezio «Ex nihilo
nihil, ad nihilum nil posse reverti».
Niente può esistete che non abbia un principio; ma qual è
questo principio? e non vi è in realtà un principio unico di tutte le cose? Se
si considera l’Universo totale, è evidente che esso comprende tutte le cose,
perché tutte le parti sono contenute nel Tutto; d’altra parte, il Tutto è
propriamente illimitato, perché, se avesse un limite, ciò che è al di là di
questo limite non sarebbe compreso nel Tutto, supposizione, questa, assurda.
Ciò che non ha limiti può essere chiamato 1’Infinito, e, comprendendo esso
tutto, questo Infinito è il principio di tutte le cose. D’altronde, l’Infinito
è necessariamente unico, perché due infiniti che non fossero identici si
escluderebbero a vicenda; ne consegue dunque che non vi è che un Principio
unico di tutte le cose, e questo Principio è la Perfezione, poiché l’Infinito
può esser tale solamente se esso è perfetto.
Così la Perfezione è il Principio supremo, la Causa prima;
essa contiene tutte le cose in potenza, ed essa ha prodotto ogni cosa; ma
allora, poiché non v’è che un Principio unico, che ne è di tutte le opposizioni
che si colgono abitualmente nell’Universo: l’Essere ed il Non-Essere, lo
Spirito e la Materia, il Bene ed il Male? Ci ritroviamo così di fronte alla
domanda formulata all’inizio e che ora possiamo porre in un modo più generale:
come ha potuto l’Unità produrre la Dualità?
Certuni hanno creduto di dover ammettere l’esistenza di due
principi distinti, opposti l’uno all’altro; ma questa ipotesi è da scartarsi
per quanto abbiamo precedentemente detto. Infatti questi due principi non
possono essere entrambi infiniti, perché allora si escluderebbero a vicenda o
si confonderebbero; se solo uno fosse infinito, esso sarebbe il principio
dell’altro; e, se entrambi fossero finiti, non sarebbero veri principi, poiché
dire che il finito può esistere di per se stesso equivarrebbe a sostenere che
qualcosa possa venire dal nulla: infatti tutto ciò che è finito ha un inizio,
logico anche se non cronologico. In tal caso, essendo entrambi finiti, essi devono
procedere da un principio comune, quest’ultimo infinito, e così siamo
ricondotti a considerare un Principio unico. Del resto, molte dottrine,
abitualmente ritenute «dualistiche», non lo sono che apparentemente; nel
Manicheismo, così come nella religione di Zoroastro, il dualismo era una
dottrina puramente exoterica che celava la vera dottrina esoterica dell’Unità:
Ormuzd e Ahriman sono entrambi generati da Zervané-Akerene e dovranno fondersi
in lui alla fine dei tempi.
La Dualità, nell’impossibilità di esistere di per stessa, è
dunque necessariamente prodotta dall’Unità; ma in che modo può prodursi? Per
comprenderlo dobbiamo anzitutto considerare la Dualità nel suo aspetto meno
particolaristico, quello dell’opposizione tra l’Essere ed il Non-Essere; ma poiché
l’uno e l’altro sono necessariamente contenuti nella Perfezione totale, appare
subito evidente che tale opposizione non può essere che apparente. Sarebbe
dunque più giusto parlare solo di distinzione; ma in cosa consiste tale
distinzione? esiste in realtà indipendentemente da noi, od è semplicemente una
conseguenza del nostro modo di vedere le cose?
Se per Non-Essere si intende il nulla, è inutile parlarne:
infatti cosa si può dire del nulla? Non così se si considera il Non-Essere come
possibilità d’Essere; l’Essere è allora la manifestazione del Non-Essere inteso
in questo modo, ed è contenuto allo stato potenziale in tale Non-Essere. Il
rapporto tra il Non-Essere e l’Essere è dunque il rapporto tra il
non-manifestato ed il manifestato, e si può affermare che il non-manifestato è
superiore al manifestato, di cui è il principio, poiché contiene in potenza
tutto il manifestato ed anche ciò che non è, che non fu, né sarà mai
manifestato. Nello stesso tempo, è evidente che non si può parlare qui di una
distinzione reale, poiché il manifestato è contenuto in principio nel
non-manifestato; tuttavia, noi non possiamo concepire direttamente il
non-manifestato se non attraverso il manifestato; questa distinzione dunque
esiste, ma unicamente per noi.
Se ciò vale per la Dualità colta nel suo aspetto di
distinzione tra l’Essere ed il Non-Essere, a maggior ragione varrà per tutti
gli altri aspetti della Dualità. A questo punto ci si accorge quanto illusoria
sia la distinzione tra Spirito e Materia, sulla quale nondimeno, soprattutto
nei tempi moderni, è stato costruito un così gran numero di sistemi filosofici
aventi appunto tale distinzione a fondamento delle loro teorie, va da sé che se
tale distinzione venisse meno, nulla più rimarrebbe di tutti questi sistemi.
Inoltre possiamo notare che la Dualità non può esistere senza il Ternario: se
il Principio supremo, differenziandosi, dà luogo a due elementi, i quali del
resto sono distinti solo in quanto li reputiamo tali, questi due elementi ed il
loro Principio comune formano un Ternario, sicché in realtà è il Ternario e non
il Binario ad essere immediatamente prodotto dalla prima differenziazione
dell’Unità primordiale.
Ritorniamo ora alla distinzione tra il Bene ed il Male, la
quale è appunto un aspetto particolare della Dualità. Quando si oppone il Bene
al Male, generalmente si fa consistere il Bene nella Perfezione. o quantomeno
in una tendenza alla Perfezione, ed allora il Male non è nient’altro che
l’imperfezione: ma come può l’imperfetto opporsi alla Perfezione, Abbiamo visto
che la Perfezione è il principio di tutte le cose e che, d’altra parte, non può
produrre l’imperfetto, donde risulta che in realtà l’imperfetto non esiste, o
almeno non può esistere che come elemento costitutivo della Perfezione totale;
ma allora esso non può essere realmente imperfetto, e quel che noi chiamiamo
imperfezione non è che relatività. Per cui un «errore» non è che una verità
relativa: tutti gli errori, infatti, devono essere contenuti nella Verità
totale, poiché, diversamente, questa trovandosi limitata da qualcosa di
esteriore a se stessa non sarebbe perfetta, cioè non sarebbe la Verità. Gli
errori, o piuttosto le verità relative, non sono che frammenti della Verità
totale; è dunque la frammentazione a produrre la relatività, per cui la si
potrebbe ritenere la causa del Male, sempre che «relatività» fosse realmente
sinonimo di «imperfezione»; sennonché il Male non è tale se non quando lo si
distingue dal Bene.
D’altra parte, se si chiama Bene il Perfetto, il relativo
non ne è realmente distinto, poiché v’è contenuto in principio; dunque, dal
punto di vista universale, il Male non esiste. Esso esiste solo, se si
considerano le cose sotto un aspetto frammentario ed analitico, separandole dal
loro Principio comune invece di vederle sinteticamente contenute in questo
Principio, che è la Perfezione. Così si crea l’imperfetto; e distinguendo il
Male dal Bene, li si crea entrambi proprio con questa distinzione, poiché il
Bene ed il Male sono tali solamente se messi in opposizione l’uno all’altro;
inoltre, se il Male non esiste, non si può neppure parlare di Bene nel senso
ordinariamente attributo a questa parola, ma solamente di Perfezione. È dunque
la fatale illusione del Dualismo ad attuare il Bene ed il Male, ossia,
considerando le cose da un punto di vista particolare, a sostituire la
Molteplicità all’Unità, imprigionando così gli esseri su cui esercita il suo
potere nel dominio della confusone e della divisione: tale dominio è l’Impero
del Demiurgo.
II
Quanto abbiamo detto sulla distinzione tra il Bene ed il
Male permette di comprendere il simbolismo della Caduta originale, almeno nella
misura in cui queste cose possono venir espresse. La frammentazione della
Verità totale, o del Verbo, che è in fondo la stessa cosa, frammentazione che
produce la relatività, è identica alla segmentazione dell’Adam Kadmon, le cui separate particelle costituiscono l’Adam Protoplastes, cioè il primo
formatore; la causa di tale segmentazione è Nahash,
l’Egoismo o il desiderio dell’esistenza individuale. Nahash non è affatto una causa esteriore all’uomo, ma è in lui,
inizialmente allo stato potenziale, diventandogli esteriore nella misura in cui
l’uomo stesso l’esteriorizza; questo istinto di separatività, per la sua natura
di provocatore di divisione, spinge l’uomo a gustare del frutto dell’Albero
della Scienza del Bene e del Male. Allora gli occhi dell’uomo si aprono, perché
ciò che era interiore è diventato esteriore in conseguenza della separazione
che si è prodotta tra gli esseri; questi appaiono allora rivestiti di forme, le
quali limitano e definiscono le loro esistenze individuali; e l’uomo pure è
rivestito di una forma, o, secondo l’espressione biblica, di una «tunica di
pelle»; egli si trova così racchiuso nel dominio del Bene e del Male,
nell’Impero del Demiurgo.
Da questa breve esposizione per sommi capi e molto
incompleta, risulta che il Demiurgo non è affatto una potenza esteriore
all’uomo: non è che la stessa volontà dell’uomo allorquando realizza la
distinzione tra il Bene ed il Male. Ma in seguito, limitato in quanto essere
individuale da quella volontà che in realtà è la sua, l’uomo la ritiene come
qualcosa di esteriore, e così essa diventa distinta da lui, non solo, ma
opponendosi essa agli sforzi che l’uomo compie per uscire dal dominio in cui
s’è egli stesso racchiuso, egli la considera come una potenza ostile, e la
chiama Shaitan, l’Avversario.
Facciamo notare, del resto, che questo Avversario, che noi stessi abbiamo
creato e che creiamo ad ogni istante (infatti non si deve pensare che la cosa
si svolga in un tempo o in un luogo determinato) non è affatto cattivo in se
stesso, ma è solamente l’insieme di tutto ciò che ci è contrario.
Da un punto di vista più generale, il Demiurgo, quale
potenza distinta ed in quanto tale, è appunto il «Principe di questo Mondo» di
cui si parla nel Vangelo di S. Giovanni; anche qui, egli non è propriamente
parlando né buono né cattivo, o piuttosto egli è l’uno e l’altro, poiché
contiene in se stesso il Bene ed il Male. Il suo dominio è il Mondo inferiore,
che si oppone al Mondo superiore o all’Universo principiale da cui è stato
separato, ma occorre rilevare che questa separazione non è mai stata reale in
senso assoluto; essa è reale solo nella misura in cui la realizziamo, perché
questo Mondo inferiore è contenuto allo stato potenziale nell’Universo
principiale, essendo evidente che una parte non può realmente uscire dal Tutto.
È questo, d’altronde, che impedisce alla Caduta di continuare indefinitamente:
questa è un’espressione del tutto simbolica, e la profondità della Caduta è
semplicemente la misura del grado di separazione. Con questa restrizione, il
Demiurgo si oppone all’Adam Kadmon o
all’Umanità principiale, manifestazione del Verbo, solamente come una sorta di
riflesso, poiché non ne è affatto un’emanazione e non esiste di per se stesso;
ciò è rappresentato dalla figura dei due Vegliardi dello Zohar e anche dai due
triangoli del Sigillo di Salomone.
Ciò ci induce a considerare il Demiurgo come un riflesso
tenebroso ed invertito dell’Essere, poiché altro non può essere in realtà. Esso
non è dunque un essere, ma, secondo quanto abbiamo precedentemente detto, può
venire inteso come la collettività degli esseri nella misura in cui essi sono
distinti o, se si preferisce, in quanto essi hanno un’esistenza individuale. Noi
siamo esseri distinti perché creiamo noi stessi la distinzione, la quale non
esiste se non nella misura in cui la creiamo; creando questa distinzione, siamo
gli elementi del Demiurgo, e, fintantoché siamo esseri distinti, apparteniamo
al dominio di questo stesso Demiurgo, il quale è appunto la «Creazione».
Tutti gli elementi della Creazione, cioè le creature, sono
dunque contenuti nel Demiurgo, stesso, il quale non può trarli che da se
stesso, perché la creazione ex nihilo
è impossibile. Considerato come Creatore, il Demiurgo produce per prima cosa la
divisione, dalla quale non è realmente distinto, poiché egli non esiste che
nella misura in cui la divisione stessa esiste; inoltre, siccome la divisione è
la fonte dell’esistenza individuale, ed essendo questa definita dalla forma, il
Demiurgo deve essere considerato come formatore, ed allora egli è identico all’Adam Protoplastes, così come già abbiamo
visto. Si può ancora dire che il Demiurgo crea la Materia ‑ intendendo con
questa parola il caos primordiale, crogiuolo di tutte le forme – per poi
organizzare questa Materia caotica e tenebrosa, ove regna la confusione, e
farne scaturire le molteplici forme il cui insieme costituisce la Creazione.
Si deve ora dire che questa Creazione sia imperfetta?
Certamente non la si può considerare perfetta; ma se ci si pone dal punto di
vista universale, essa è uno degli elementi costitutivi della Perfezione
totale. La Creazione è imperfetta solo se la si considera analiticamente e
separata dal suo Principio, e lo è d’altronde nella misura stessa in cui essa è
il dominio del Demiurgo; ma, se l’imperfetto non è che un elemento del
Perfetto, esso non sarà veramente imperfetto, per cui in realtà il Demiurgo ed
il suo dominio non esistono, dal punto di vista universale, così come non
esiste la distinzione tra il Bene e il Male. Ne consegue pure, sempre dallo
stesso punto di vista, che la Materia non esiste: l’apparenza materiale non è
che un’illusione, anche se non bisogna concludere che gli esseri che hanno
questa apparenza non esistano, perché altrimenti si cadrebbe in un’altra
illusione, quella di un idealismo esagerato e mal compreso.
Se la Materia non esiste, per ciò stesso sparisce la
distinzione tra Spirito e Materia. Tutto è Spirito in realtà, ma questo termine
deve essere inteso in un senso del tutto diverso da quello attribuitogli dalla
maggioranza dei filosofi moderni. Costoro, infatti, pur opponendo lo Spirito
alla Materia, non lo considerano affatto indipendente dalla forma, per cui si
può domandare in che cosa esso si differenzi dalla Materia; e se si afferma che
esso è inesteso, a differenza della Materia che è estesa, come si può sostenere
che l’inesteso possa esser rivestito di una forma? Del resto, perché questo
volere definire lo Spirito? Che ciò avvenga con il pensiero o altrimenti, è
sempre con una forma che si cerca di definirlo, ed allora non si tratterà più
dello Spirito. In realtà, lo Spirito universale è l’Essere, e non questo o
quell’altro essere particolare; è il Principio di tutti gli esseri, e tutti li contiene:
perciò tutto è Spirito.
Quando l’uomo perviene alla conoscenza reale di questa
verità, identifica se stesso ed ogni cosa allo Spirito Universale, ed allora
ogni distinzione per lui scompare, ed egli contempla tutte le cose come in se
stesso e non più come esteriori, perché l’illusione svanisce di fronte alla
Verità, come l’ombra davanti al sole. Così, da questa stessa conoscenza l’uomo
si trova liberato dai legami della Materia e dell’esistenza individuale, non è
più soggetto alla dominazione del «Principe di questo Mondo», egli non
appartiene più all’Impero del Demiurgo.
III
Da quanto detto in precedenza risulta che l’uomo, nella sua
esistenza terrestre, può liberarsi dal dominio del Demiurgo o del Mondo ilico e
che questa liberazione si opera mediante la Gnosi, cioè mediante la Conoscenza
integrale. Tale Conoscenza non ha niente in comune con la scienza analitica e
non la presuppone per nulla. È un’illusione troppo diffusa ai giorni nostri
credere che si possa arrivare alla sintesi totale attraverso l’analisi; al
contrario, la scienza è del tutto relativa e, limitata com’è al solo Mondo
ilico, non esiste più di quanto esista quest’ultimo, dal punto di vista
universale. D’altra parte dobbiamo anche notare che i differenti Mondi, o
secondo l’espressione generalmente ammessa, i diversi piani dell’Universo, non
sono affatto luoghi o regioni, ma modalità dell’esistenza o stati dell’essere.
Il che permette di comprendere come un uomo vivente sulla terra possa, in
realtà, appartenere non soltanto al Mondo ilico, ma al Mondo psichico o anche
al Mondo pneumatico. Ed è questo che costituisce la «seconda nascita»;
tuttavia, essa corrisponde propriamente parlando solo alla nascita al Mondo
psichico, mediante la quale l’uomo diventa cosciente in entrambi questi due
piani, ma senza accedere ancora al Mondo pneumatico, cioè senza identificarsi
allo Spirito universale. Quest’ultimo viene raggiunto unicamente da chi
possiede integralmente la triplice Conoscenza, mediante la quale è per sempre
Liberato dalle nascite mortali: è ciò che si intende con l’espressione «solo i
Pneumatici sono salvati». Lo stato degli Psichici non è insomma che uno stato
transitorio: è lo stato dell’esser già preparato a ricevere la Luce, pur non
percependola ancora, che non ha ancora preso coscienza della Verità una ed
immutabile.
Parlando di nascite mortali, intendiamo le modificazioni
dell’essere, il suo passaggio attraverso forme molteplici e variabili; in ciò
non vi è nulla che rassomigli alla dottrina della reincarnazione quale la
concepiscono gli spiritisti ed i teosofisti, dottrina della quale un giorno
avremo l’occasione di dare maggiori spiegazioni. Il Pneumatico è liberato dalle
nascite mortali, è cioè liberato dalla forma, dunque dal mondo demiurgico; egli
non è più soggetto al cambiamento e, di conseguenza, egli è non agente; su
questo punto ritorneremo più avanti. Lo Psichico, invece, non va oltre il Mondo
della Formazione, quello che è designato simbolicamente come il Primo Cielo o
la sfera della Luna, donde egli ritorna al mondo terrestre; ciò, in realtà, non
significa che assumerà un corpo sulla Terra, ma semplicemente ch’egli dovrà
rivestire nuove forme prima di ottenere la Liberazione.
Quanto abbiamo sin qui esposto dimostra l’accordo, anzi,
l’identità reale, nonostante certe differenze nell’espressione, tra la dottrina
gnostica e le dottrine orientali, e più particolarmente con il Vêdânta; il più
ortodosso di tutti i sistemi metafisici fondati sul Brahmanesimo. Possiamo
quindi completare le nostre considerazioni riguardanti i diversi stati
dell’essere con alcune citazioni tratte dal Trattato
della Conoscenza dello Spirito di Shankarâchârya.
«Non vi è altro mezzo se non la Conoscenza per ottenere la
liberazione completa e finale; essa è il solo strumento che scioglie i legami
delle passioni; senza la Conoscenza, la Beatitudine non può esser ottenuta.
«L’azione, non opponendosi all’ignoranza, non può
rimuoverla; ma la Conoscenza dissolve l’ignoranza così come la Luce dissipa le
tenebre».
L’ignoranza è qui lo stato dell’essere avvolto nelle tenebre
del Mondo ilico, legato all’apparenza illusoria della Materia e alle
distinzioni individuali; come abbiamo già visto, tutte queste illusioni
scompaiono per mezzo della Conoscenza, la quale non appartiene affatto al
dominio dell’azione e le è superiore.
«Quando l’ignoranza che nasce dagli attaccamenti terrestri
viene allontanata, lo Spirito brilla di splendore suo proprio in uno stato
indiviso, così come il sole risplende nel cielo allorquando le nubi si sono
disperse».
Ma, prima di pervenire a questo grado, l’essere passa
attraverso uno stato intermedio, quello corrispondente al Mondo psichico, ove
egli non crede più di essere il corpo materiale bensì l’anima individuale;
nondimeno la distinzione continua per lui a sussistere, poiché non è ancora
uscito dal dominio del Demiurgo.
«Immaginando d’essere l’anima individuale, l’uomo è colto
dalla paura, come chi per errore scambia un pezzo di corda per un serpente;
tuttavia il suo timore viene allontanato dalla percezione che egli non è
l’anima, ma lo Spirito universale».
Colui che ha preso coscienza dei due Mondi manifestati, cioè
del Mondo ilico, ossia l’insieme delle manifestazioni grossolane a materiali, e
del Mondo psichico, ossia l’insieme delle manifestazioni sottili, è un «nato
due volte», Dwija; ma colui che è
cosciente dell’Universo non-manifestato o del Mondo senza forma, cioè del Mondo
pneumatico, e che è arrivato alla identificazione di se stesso con lo Spirito
universale, Âtmâ: quegli solo può
esser chiamato Yogi, cioè «unito»
allo Spirito universale.
«Lo Yogi, il cui intelletto è perfetto, contempla tutte le
cose in quanto facenti parte di se stesso, e così, con l’occhio della
Conoscenza, percepisce che ogni cosa è Spirito».
Notiamo per inciso che il Mondo ilico viene paragonato allo
stato di veglia, il Mondo psichico allo stato di sogno, ed il Mondo pneumatico
allo stato di sonno profondo. Al di sopra dell’Universo pneumatico, secondo la
dottrina gnostica, vi è il Pleroma, il quale può esser inteso come costituito
dall’insieme degli attributi della Divinità. Esso non è un quarto Mondo, ma lo
Spirito universale stesso, Principio supremo dei Tre Mondi, né manifestato, né
non-manifestato, indefinibile, inconcepibile e incomprensibile.
Lo Yogi, o il Pneumatico, che sono in fondo la stessa cosa,
si percepisce, non più come una forma grossolana, né come una forma sottile, ma
come un essere senza forma; egli si identifica allora allo Spirito universale,
stato che è così descritto da Shankarâchârya:
«Egli è Brahma, dopo il cui possesso non vi è più nulla da
possedere; dopo il godimento della cui felicità non v’è altra felicità che
possa esser desiderata; e dopo l’ottenimento della cui conoscenza non v’è altra
conoscenza che possa esser ottenuta.
«Egli è Brahma, la cui vista elimina quella di ogni altro
oggetto, l’identificazione con il quale impedisce ogni ulteriore nascita, dopo
la cui percezione, non v’è più nulla da percepire.
«Egli è Brahma, che è dovunque: nello spazio mediano, in ciò
che gli è superiore ed in ciò che gli è inferiore. Egli è il Vero, il Vivente,
il Beato, senza dualità, indivisibile, eterno ed unico.
«Egli è Brahma, senza dimensioni, increato, incorruttibile,
senza forma, senza qualità o caratteristiche.
«Egli è Brahma, dal quale tutte le cose sono illuminate, la
cui luce fa brillare il sole e gli altri corpi luminosi, ma che non è punto
reso manifesto dalla loro luce.
«Egli stesso penetra la sua propria essenza eterna e
contempla il Mondo intero apparendo come Brahma.
«Brahma non rassomiglia affatto al Mondo, e al di fuori di Brahma
non vi è nulla; tutto ciò che sembra esistere al di fuori di Lui è
un’illusione.
«Di tutto quanto viene visto, di tutto quanto viene udito,
nulla esiste che non sia Brahma, e, mediante la conoscenza del Principio,
Brahma viene contemplato come l’Essere vero, vivente, beato, senza dualità.
«L’occhio della Conoscenza contempla l’Essere vero, vivente,
beato, che tutto penetra; ma l’occhio dell’ignoranza non può scoprirlo, né
percepirlo, come il cieco non può vedere la luce.
«Quando il Sole della Conoscenza spirituale sorge nel cielo
del cuore, esso scaccia le tenebre e tutto penetra abbracciando ed illuminando
ogni cosa».
Facciamo notare che il Brahma di cui si parla qui è il
Brahma superiore, da non confondere con il Brahma inferiore, il quale non è altro
che il Demiurgo, considerato come riflesso dell’Essere. Per lo Yogi, non vi è
che il Brahma superiore, che contiene tutte le cose e al di fuori del quale non
v’è nulla: per lui, il Demiurgo e la sua opera di divisone non esistono più.
«Colui che ha compiuto il pellegrinaggio del suo proprio
spirito, un pellegrinaggio che nulla ha a che vedere con lo spazio e con il
tempo, un pellegrinaggio che si svolge dappertutto, nel quale non si prova né
il freddo, né il caldo, che procura una felicità perpetua e una liberazione da
ogni pena: quegli è senza azione, conosce tutte le cose, ed ottiene l’eterna
Beatitudine».
IV
Dopo aver esposto le caratteristiche dei tre Mondi e degli
stati dell’Essere che vi corrispondono, ed aver indicato, per quanto possibile,
che cosa sia l’essere liberato dalla dominazione demiurgica, dobbiamo
nuovamente ritornare sulla questione della distinzione tra il Bene ed il Male,
onde vedere quali conseguenze possano trarsi da queste ultime considerazioni.
Di primo acchito si potrebbe esser tentati di pensare così:
se la distinzione tra il Bene ed il Male è illusoria, se essa in realtà non
esiste, lo stesso può dirsi della morale, poiché la morale si fonda proprio su
tale distinzione. Ma sarebbe andar troppo lontano. La morale esiste, ma nella
stessa misura in cui esiste la distinzione tra il Bene ed il Male, cioè
relativamente al dominio del Demiurgo, mentre dal punto di vista universale,
essa non ha alcuna ragione d’essere. Infatti la morale può trovare applicazione
solo nell’azione; l’azione presuppone il cambiamento, il quale non è possibile
che nel formale o nel manifestato; per contro, il Mondo senza forma è
immutabile, superiore al cambiamento, e quindi anche all’azione, perciò
l’essere che non appartiene più all’Impero del Demiurgo è senza azione.
Ciò dimostra che occorre fare molta attenzione a non
confondere i diversi piani dell’Universo, perché quel che si afferma a
proposito di un piano può non esser vero per un altro. Ad esempio, la morale
esiste necessariamente nel piano sociale, che è essenzialmente il dominio
dell’azione, mentre non se ne può più parlare quando si passa a considerare il
piano metafisico o universale, poiché allora non v’è più alcun genere di
azione.
Chiarito questo punto, dobbiamo far rilevare che l’essere
che è superiore all’azione possiede tuttavia la pienezza dell’attività; ma si
tratta di un’attività potenziale, quindi di un’attività che non si esplica in
azioni. Questo essere non è affatto immobile, come a torto si potrebbe dire, ma
immutabile, cioè superiore al cambiamento. In effetti, egli si identifica con
l’Essere, il quale è sempre identico a se stesso conformemente all’espressione
biblica: «L’Essere è l’Essere». Il che ci induce ad un accostamento con la
dottrina taoista, secondo la quale l’attività del Cielo è non-agente: il
Saggio, in cui si riflette l’Attività del Cielo, si attiene al non-agire.
Tuttavia questo Saggio, che in precedenza abbiamo chiamato Pneumatico o Yogi,
può presentare le apparenze dell’azione, così come la Luna può assumere le
apparenze del movimento allorquando le nubi le passano davanti, ma il vento che
sospinge le nubi non ha influenza alcuna sulla Luna. Similmente, l’agitazione
del Mondo demiurgico non influisce sul Pneumatico, e, a questo proposito,
possiamo ancora citare alcuni passi di Shankarâchârya:
«Lo Yogi, avendo attraversato il mare delle passioni, si
unisce alla Tranquillità e si allieta nello Spirito.
«Avendo rinunciato ai piaceri offerti dagli oggetti perituri
e godendo delle delizie spirituali, egli è calmo e sereno come la fiamma di una
lampada, e si delizia nella sua propria essenza.
«Durante la sua permanenza nel corpo, non è modificato dalle
proprietà di questo, così come il firmamento non è turbato dal movimento che si
svolge nel suo seno; conoscendo tutte le cose, le contingenze non lo toccano».
Possiamo così comprendere il vero significato della parola Nirvâna, di cui sono state date tante e
così false interpretazioni. Essa significa letteralmente «cessazione del soffio
e dell’agitazione», dunque lo stato di un essere che non è più soggetto
all’agitazione, che è definitivamente libero dalla forma. Un errore molto
diffuso, almeno in Occidente, è quello di ritenere che non vi sia più nulla
quando si sia in assenza di una forma, mentre, in realtà, la forma è nulla e l’informale
è tutto; per cui il Nirvâna, lungi
dall’essere l’annientamento, come hanno preteso certi filosofi, è. al contrario
la pienezza dell’essere.
Da tutto quanto abbiamo sinora esposto si potrebbe
concludere che non occorra affatto agire; ma ciò è ancora inesatto, se non in
principio, almeno nell’applicazione che se ne vorrebbe fare. Infatti l’azione è
propriamente la condizione degli esseri individuali appartenenti all’Impero del
Demiurgo. Il Pneumatico, o il Saggio, è in realtà senza azione, ma, risiedendo
in un corpo, è del tutto simile agli altri uomini; tuttavia sa che si tratta
solo di un’apparenza illusoria, e ciò è sufficiente affinché egli sia realmente
affrancato dall’azione, poiché è mediante la Conoscenza che si ottiene la
Liberazione. Essendo affrancato dall’azione, non è più soggetto alla
sofferenza; questa non è che un risultato dello sforzo, ed è in ciò che
consiste la cosiddetta imperfezione, anche se in realtà non vi è nulla di
imperfetto.
È evidente che l’azione non può esistere per colui che
contempla tutte le cose in se stesso, come esistenti nello Spirito universale,
senza che vi si distinguano oggetti individuali, così come è espresso dalle
seguenti parole dei Vêda: «Gli
oggetti differiscono solamente per i loro nomi, accidenti e designazioni, così
come le suppellettili ricevono nomi differenti, sebbene siano in realtà
solamente diverse forme di terra». La terra, principio di tutte queste forme, è
di per se stessa senza forma, ma tutte le contiene in potenza: tale è anche lo
Spirito universale.
L’azione implica il cambiamento, cioè la distruzione
incessante di forme che scompaiono per essere sostituite da altre: tali sono le
modificazioni che noi chiamiamo nascita e morte, cioè i molteplici cambiamenti
di stato che devono essere attraversati dall’essere che non ha ancora raggiunto
la liberazione o la «trasformazione» finale, parola, questa, da intendersi nel
suo significato etimologico, che è quello di passaggio al di là della forma.
L’attaccamento alle cose individuali, o alle forme transitorie e periture è
proprio dell’ignoranza; le forme non sono niente per l’essere che è liberato
dalla forma, ed è per questo motivo che egli, anche durante la permanenza nel
corpo, non è modificato dalle proprietà di quest’ultimo.
«Così egli si muove, libero come il vento, poiché i suoi
movimenti non sono ostacolati dalle passioni.
«Quando le forme sono distrutte, lo Yogi entra, con tutti
gli esseri, nell’Essenza che tutto penetra. Egli è senza qualità e senza
azione; imperituro, senza volizione; felice, immutabile, eternamente libero e
puro.
«Egli è come l’etere che è diffuso dappertutto, e che
penetra nel contempo l’esterno e l’interno delle cose; egli è incorruttibile,
imperituro; egli è sempre lo stesso in tutte le cose, puro, impassibile, senza
forma, immutabile,
«Egli è il supremo Brahma, che è eterno, puro, libero, solo,
incessantemente colmo di beatitudine, senza dualità, Principio di ogni
esistenza, e senza fine».
Questo è lo stato al quale perviene l’essere mediante la Conoscenza
spirituale, liberato per sempre dalle condizioni dell’esistenza individuale,
liberato cioè dall’Impero del Demiurgo.
[1] È
questo, crediamo, il primo scritto di René Guénon; esso fu pubblicato nel 1909
nel n. 1 di La Gnose. L’Autore,
allora ventiduenne, firmava con lo pseudonimo di Palingenius. (R.S.T., n. 33). (Ora nella raccolta Il demiurgo e altri saggi, Adelphi, Milano, n.d.r.)