"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

lunedì 20 gennaio 2014

René Guénon, Il Demiurgo

René Guénon
Il Demiurgo[1]

Di tutti i problemi che costantemente hanno preoccupato gli uomini, ve ne è uno, quello dell’origine del male, che pare esser sempre stato il più difficile da risolvere, tanto da rivelarsi un ostacolo insormontabile per la maggior parte dei filosofi e soprattutto dei teologi: Si Deus est, unde Malum? Si non est, unde Bonum?
Il dilemma è effettivamente insolubile per coloro che considerano la Creazione come l’opera diretta di Dio e che, di conseguenza, sono obbligati a ritenerlo responsabile sia del Bene che del Male. Si dirà senza dubbio che questa responsabilità è in una certa misura attenuata dalla libertà delle creature; ma se le creature possono scegliere tra il Bene ed il Male, è segno che entrambi esistono già, almeno in principio, e se esse talvolta sono piuttosto propense a decidersi per il Male invece di essere sempre portate al Bene, ciò è dovuto al fatto che sono imperfette; ma come ha potuto Dio, se è perfetto, creare esseri imperfetti?
È evidente che il perfetto non può generare l’imperfetto, perché, se così fosse, il perfetto dovrebbe contenere in se stesso l’imperfetto allo stato principiale ed allora non sarebbe più il perfetto. L’imperfetto non può dunque procedere dal perfetto per via di emanazione; potrebbe solo risultare dalla creazione ex nihilo; ma com’è possibile ammettere che qualcosa possa venire dal nulla, o, in altri termini, che possa esistere qualcosa che non abbia un principio? D’altronde, l’ammettere la creazione ex nihilo equivarrebbe ad ammettere l’annientamento finale degli esseri creati, poiché ciò che ha avuto un inizio deve anche avere una fine, e non vi sarebbe nulla di più illogico del parlare in tal caso di immortalità; del resto la creazione così intesa non è che un’assurdità, perché essa contraddice quel principio di causalità che nessun uomo ragionevole può in buona fede negare, per cui possiamo dire con Lucrezio «Ex nihilo nihil, ad nihilum nil posse reverti».
Niente può esistete che non abbia un principio; ma qual è questo principio? e non vi è in realtà un principio unico di tutte le cose? Se si considera l’Universo totale, è evidente che esso comprende tutte le cose, perché tutte le parti sono contenute nel Tutto; d’altra parte, il Tutto è propriamente illimitato, perché, se avesse un limite, ciò che è al di là di questo limite non sarebbe compreso nel Tutto, supposizione, questa, assurda. Ciò che non ha limiti può essere chiamato 1’Infinito, e, comprendendo esso tutto, questo Infinito è il principio di tutte le cose. D’altronde, l’Infinito è necessariamente unico, perché due infiniti che non fossero identici si escluderebbero a vicenda; ne consegue dunque che non vi è che un Principio unico di tutte le cose, e questo Principio è la Perfezione, poiché l’Infinito può esser tale solamente se esso è perfetto.
Così la Perfezione è il Principio supremo, la Causa prima; essa contiene tutte le cose in potenza, ed essa ha prodotto ogni cosa; ma allora, poiché non v’è che un Principio unico, che ne è di tutte le opposizioni che si colgono abitualmente nell’Universo: l’Essere ed il Non-Essere, lo Spirito e la Materia, il Bene ed il Male? Ci ritroviamo così di fronte alla domanda formulata all’inizio e che ora possiamo porre in un modo più generale: come ha potuto l’Unità produrre la Dualità?
Certuni hanno creduto di dover ammettere l’esistenza di due principi distinti, opposti l’uno all’altro; ma questa ipotesi è da scartarsi per quanto abbiamo precedentemente detto. Infatti questi due principi non possono essere entrambi infiniti, perché allora si escluderebbero a vicenda o si confonderebbero; se solo uno fosse infinito, esso sarebbe il principio dell’altro; e, se entrambi fossero finiti, non sarebbero veri principi, poiché dire che il finito può esistere di per se stesso equivarrebbe a sostenere che qualcosa possa venire dal nulla: infatti tutto ciò che è finito ha un inizio, logico anche se non cronologico. In tal caso, essendo entrambi finiti, essi devono procedere da un principio comune, quest’ultimo infinito, e così siamo ricondotti a considerare un Principio unico. Del resto, molte dottrine, abitualmente ritenute «dualistiche», non lo sono che apparentemente; nel Manicheismo, così come nella religione di Zoroastro, il dualismo era una dottrina puramente exoterica che celava la vera dottrina esoterica dell’Unità: Ormuzd e Ahriman sono entrambi generati da Zervané-Akerene e dovranno fondersi in lui alla fine dei tempi.
La Dualità, nell’impossibilità di esistere di per stessa, è dunque necessariamente prodotta dall’Unità; ma in che modo può prodursi? Per comprenderlo dobbiamo anzitutto considerare la Dualità nel suo aspetto meno particolaristico, quello dell’opposizione tra l’Essere ed il Non-Essere; ma poiché l’uno e l’altro sono necessariamente contenuti nella Perfezione totale, appare subito evidente che tale opposizione non può essere che apparente. Sarebbe dunque più giusto parlare solo di distinzione; ma in cosa consiste tale distinzione? esiste in realtà indipendentemente da noi, od è semplicemente una conseguenza del nostro modo di vedere le cose?
Se per Non-Essere si intende il nulla, è inutile parlarne: infatti cosa si può dire del nulla? Non così se si considera il Non-Essere come possibilità d’Essere; l’Essere è allora la manifestazione del Non-Essere inteso in questo modo, ed è contenuto allo stato potenziale in tale Non-Essere. Il rapporto tra il Non-Essere e l’Essere è dunque il rapporto tra il non-manifestato ed il manifestato, e si può affermare che il non-manifestato è superiore al manifestato, di cui è il principio, poiché contiene in potenza tutto il manifestato ed anche ciò che non è, che non fu, né sarà mai manifestato. Nello stesso tempo, è evidente che non si può parlare qui di una distinzione reale, poiché il manifestato è contenuto in principio nel non-manifestato; tuttavia, noi non possiamo concepire direttamente il non-manifestato se non attraverso il manifestato; questa distinzione dunque esiste, ma unicamente per noi.
Se ciò vale per la Dualità colta nel suo aspetto di distinzione tra l’Essere ed il Non-Essere, a maggior ragione varrà per tutti gli altri aspetti della Dualità. A questo punto ci si accorge quanto illusoria sia la distinzione tra Spirito e Materia, sulla quale nondimeno, soprattutto nei tempi moderni, è stato costruito un così gran numero di sistemi filosofici aventi appunto tale distinzione a fondamento delle loro teorie, va da sé che se tale distinzione venisse meno, nulla più rimarrebbe di tutti questi sistemi. Inoltre possiamo notare che la Dualità non può esistere senza il Ternario: se il Principio supremo, differenziandosi, dà luogo a due elementi, i quali del resto sono distinti solo in quanto li reputiamo tali, questi due elementi ed il loro Principio comune formano un Ternario, sicché in realtà è il Ternario e non il Binario ad essere immediatamente prodotto dalla prima differenziazione dell’Unità primordiale.
Ritorniamo ora alla distinzione tra il Bene ed il Male, la quale è appunto un aspetto particolare della Dualità. Quando si oppone il Bene al Male, generalmente si fa consistere il Bene nella Perfezione. o quantomeno in una tendenza alla Perfezione, ed allora il Male non è nient’altro che l’imperfezione: ma come può l’imperfetto opporsi alla Perfezione, Abbiamo visto che la Perfezione è il principio di tutte le cose e che, d’altra parte, non può produrre l’imperfetto, donde risulta che in realtà l’imperfetto non esiste, o almeno non può esistere che come elemento costitutivo della Perfezione totale; ma allora esso non può essere realmente imperfetto, e quel che noi chiamiamo imperfezione non è che relatività. Per cui un «errore» non è che una verità relativa: tutti gli errori, infatti, devono essere contenuti nella Verità totale, poiché, diversamente, questa trovandosi limitata da qualcosa di esteriore a se stessa non sarebbe perfetta, cioè non sarebbe la Verità. Gli errori, o piuttosto le verità relative, non sono che frammenti della Verità totale; è dunque la frammentazione a produrre la relatività, per cui la si potrebbe ritenere la causa del Male, sempre che «relatività» fosse realmente sinonimo di «imperfezione»; sennonché il Male non è tale se non quando lo si distingue dal Bene.
D’altra parte, se si chiama Bene il Perfetto, il relativo non ne è realmente distinto, poiché v’è contenuto in principio; dunque, dal punto di vista universale, il Male non esiste. Esso esiste solo, se si considerano le cose sotto un aspetto frammentario ed analitico, separandole dal loro Principio comune invece di vederle sinteticamente contenute in questo Principio, che è la Perfezione. Così si crea l’imperfetto; e distinguendo il Male dal Bene, li si crea entrambi proprio con questa distinzione, poiché il Bene ed il Male sono tali solamente se messi in opposizione l’uno all’altro; inoltre, se il Male non esiste, non si può neppure parlare di Bene nel senso ordinariamente attributo a questa parola, ma solamente di Perfezione. È dunque la fatale illusione del Dualismo ad attuare il Bene ed il Male, ossia, considerando le cose da un punto di vista particolare, a sostituire la Molteplicità all’Unità, imprigionando così gli esseri su cui esercita il suo potere nel dominio della confusone e della divisione: tale dominio è l’Impero del Demiurgo.

II
Quanto abbiamo detto sulla distinzione tra il Bene ed il Male permette di comprendere il simbolismo della Caduta originale, almeno nella misura in cui queste cose possono venir espresse. La frammentazione della Verità totale, o del Verbo, che è in fondo la stessa cosa, frammentazione che produce la relatività, è identica alla segmentazione dell’Adam Kadmon, le cui separate particelle costituiscono l’Adam Protoplastes, cioè il primo formatore; la causa di tale segmentazione è Nahash, l’Egoismo o il desiderio dell’esistenza individuale. Nahash non è affatto una causa esteriore all’uomo, ma è in lui, inizialmente allo stato potenziale, diventandogli esteriore nella misura in cui l’uomo stesso l’esteriorizza; questo istinto di separatività, per la sua natura di provocatore di divisione, spinge l’uomo a gustare del frutto dell’Albero della Scienza del Bene e del Male. Allora gli occhi dell’uomo si aprono, perché ciò che era interiore è diventato esteriore in conseguenza della separazione che si è prodotta tra gli esseri; questi appaiono allora rivestiti di forme, le quali limitano e definiscono le loro esistenze individuali; e l’uomo pure è rivestito di una forma, o, secondo l’espressione biblica, di una «tunica di pelle»; egli si trova così racchiuso nel dominio del Bene e del Male, nell’Impero del Demiurgo.
Da questa breve esposizione per sommi capi e molto incompleta, risulta che il Demiurgo non è affatto una potenza esteriore all’uomo: non è che la stessa volontà dell’uomo allorquando realizza la distinzione tra il Bene ed il Male. Ma in seguito, limitato in quanto essere individuale da quella volontà che in realtà è la sua, l’uomo la ritiene come qualcosa di esteriore, e così essa diventa distinta da lui, non solo, ma opponendosi essa agli sforzi che l’uomo compie per uscire dal dominio in cui s’è egli stesso racchiuso, egli la considera come una potenza ostile, e la chiama Shaitan, l’Avversario. Facciamo notare, del resto, che questo Avversario, che noi stessi abbiamo creato e che creiamo ad ogni istante (infatti non si deve pensare che la cosa si svolga in un tempo o in un luogo determinato) non è affatto cattivo in se stesso, ma è solamente l’insieme di tutto ciò che ci è contrario.
Da un punto di vista più generale, il Demiurgo, quale potenza distinta ed in quanto tale, è appunto il «Principe di questo Mondo» di cui si parla nel Vangelo di S. Giovanni; anche qui, egli non è propriamente parlando né buono né cattivo, o piuttosto egli è l’uno e l’altro, poiché contiene in se stesso il Bene ed il Male. Il suo dominio è il Mondo inferiore, che si oppone al Mondo superiore o all’Universo principiale da cui è stato separato, ma occorre rilevare che questa separazione non è mai stata reale in senso assoluto; essa è reale solo nella misura in cui la realizziamo, perché questo Mondo inferiore è contenuto allo stato potenziale nell’Universo principiale, essendo evidente che una parte non può realmente uscire dal Tutto. È questo, d’altronde, che impedisce alla Caduta di continuare indefinitamente: questa è un’espressione del tutto simbolica, e la profondità della Caduta è semplicemente la misura del grado di separazione. Con questa restrizione, il Demiurgo si oppone all’Adam Kadmon o all’Umanità principiale, manifestazione del Verbo, solamente come una sorta di riflesso, poiché non ne è affatto un’emanazione e non esiste di per se stesso; ciò è rappresentato dalla figura dei due Vegliardi dello Zohar e anche dai due triangoli del Sigillo di Salomone.
Ciò ci induce a considerare il Demiurgo come un riflesso tenebroso ed invertito dell’Essere, poiché altro non può essere in realtà. Esso non è dunque un essere, ma, secondo quanto abbiamo precedentemente detto, può venire inteso come la collettività degli esseri nella misura in cui essi sono distinti o, se si preferisce, in quanto essi hanno un’esistenza individuale. Noi siamo esseri distinti perché creiamo noi stessi la distinzione, la quale non esiste se non nella misura in cui la creiamo; creando questa distinzione, siamo gli elementi del Demiurgo, e, fintantoché siamo esseri distinti, apparteniamo al dominio di questo stesso Demiurgo, il quale è appunto la «Creazione».
Tutti gli elementi della Creazione, cioè le creature, sono dunque contenuti nel Demiurgo, stesso, il quale non può trarli che da se stesso, perché la creazione ex nihilo è impossibile. Considerato come Creatore, il Demiurgo produce per prima cosa la divisione, dalla quale non è realmente distinto, poiché egli non esiste che nella misura in cui la divisione stessa esiste; inoltre, siccome la divisione è la fonte dell’esistenza individuale, ed essendo questa definita dalla forma, il Demiurgo deve essere considerato come formatore, ed allora egli è identico all’Adam Protoplastes, così come già abbiamo visto. Si può ancora dire che il Demiurgo crea la Materia ‑ intendendo con questa parola il caos primordiale, crogiuolo di tutte le forme – per poi organizzare questa Materia caotica e tenebrosa, ove regna la confusione, e farne scaturire le molteplici forme il cui insieme costituisce la Creazione.
Si deve ora dire che questa Creazione sia imperfetta? Certamente non la si può considerare perfetta; ma se ci si pone dal punto di vista universale, essa è uno degli elementi costitutivi della Perfezione totale. La Creazione è imperfetta solo se la si considera analiticamente e separata dal suo Principio, e lo è d’altronde nella misura stessa in cui essa è il dominio del Demiurgo; ma, se l’imperfetto non è che un elemento del Perfetto, esso non sarà veramente imperfetto, per cui in realtà il Demiurgo ed il suo dominio non esistono, dal punto di vista universale, così come non esiste la distinzione tra il Bene e il Male. Ne consegue pure, sempre dallo stesso punto di vista, che la Materia non esiste: l’apparenza materiale non è che un’illusione, anche se non bisogna concludere che gli esseri che hanno questa apparenza non esistano, perché altrimenti si cadrebbe in un’altra illusione, quella di un idealismo esagerato e mal compreso.
Se la Materia non esiste, per ciò stesso sparisce la distinzione tra Spirito e Materia. Tutto è Spirito in realtà, ma questo termine deve essere inteso in un senso del tutto diverso da quello attribuitogli dalla maggioranza dei filosofi moderni. Costoro, infatti, pur opponendo lo Spirito alla Materia, non lo considerano affatto indipendente dalla forma, per cui si può domandare in che cosa esso si differenzi dalla Materia; e se si afferma che esso è inesteso, a differenza della Materia che è estesa, come si può sostenere che l’inesteso possa esser rivestito di una forma? Del resto, perché questo volere definire lo Spirito? Che ciò avvenga con il pensiero o altrimenti, è sempre con una forma che si cerca di definirlo, ed allora non si tratterà più dello Spirito. In realtà, lo Spirito universale è l’Essere, e non questo o quell’altro essere particolare; è il Principio di tutti gli esseri, e tutti li contiene: perciò tutto è Spirito.
Quando l’uomo perviene alla conoscenza reale di questa verità, identifica se stesso ed ogni cosa allo Spirito Universale, ed allora ogni distinzione per lui scompare, ed egli contempla tutte le cose come in se stesso e non più come esteriori, perché l’illusione svanisce di fronte alla Verità, come l’ombra davanti al sole. Così, da questa stessa conoscenza l’uomo si trova liberato dai legami della Materia e dell’esistenza individuale, non è più soggetto alla dominazione del «Principe di questo Mondo», egli non appartiene più all’Impero del Demiurgo.

III
Da quanto detto in precedenza risulta che l’uomo, nella sua esistenza terrestre, può liberarsi dal dominio del Demiurgo o del Mondo ilico e che questa liberazione si opera mediante la Gnosi, cioè mediante la Conoscenza integrale. Tale Conoscenza non ha niente in comune con la scienza analitica e non la presuppone per nulla. È un’illusione troppo diffusa ai giorni nostri credere che si possa arrivare alla sintesi totale attraverso l’analisi; al contrario, la scienza è del tutto relativa e, limitata com’è al solo Mondo ilico, non esiste più di quanto esista quest’ultimo, dal punto di vista universale. D’altra parte dobbiamo anche notare che i differenti Mondi, o secondo l’espressione generalmente ammessa, i diversi piani dell’Universo, non sono affatto luoghi o regioni, ma modalità dell’esistenza o stati dell’essere. Il che permette di comprendere come un uomo vivente sulla terra possa, in realtà, appartenere non soltanto al Mondo ilico, ma al Mondo psichico o anche al Mondo pneumatico. Ed è questo che costituisce la «seconda nascita»; tuttavia, essa corrisponde propriamente parlando solo alla nascita al Mondo psichico, mediante la quale l’uomo diventa cosciente in entrambi questi due piani, ma senza accedere ancora al Mondo pneumatico, cioè senza identificarsi allo Spirito universale. Quest’ultimo viene raggiunto unicamente da chi possiede integralmente la triplice Conoscenza, mediante la quale è per sempre Liberato dalle nascite mortali: è ciò che si intende con l’espressione «solo i Pneumatici sono salvati». Lo stato degli Psichici non è insomma che uno stato transitorio: è lo stato dell’esser già preparato a ricevere la Luce, pur non percependola ancora, che non ha ancora preso coscienza della Verità una ed immutabile.
Parlando di nascite mortali, intendiamo le modificazioni dell’essere, il suo passaggio attraverso forme molteplici e variabili; in ciò non vi è nulla che rassomigli alla dottrina della reincarnazione quale la concepiscono gli spiritisti ed i teosofisti, dottrina della quale un giorno avremo l’occasione di dare maggiori spiegazioni. Il Pneumatico è liberato dalle nascite mortali, è cioè liberato dalla forma, dunque dal mondo demiurgico; egli non è più soggetto al cambiamento e, di conseguenza, egli è non agente; su questo punto ritorneremo più avanti. Lo Psichico, invece, non va oltre il Mondo della Formazione, quello che è designato simbolicamente come il Primo Cielo o la sfera della Luna, donde egli ritorna al mondo terrestre; ciò, in realtà, non significa che assumerà un corpo sulla Terra, ma semplicemente ch’egli dovrà rivestire nuove forme prima di ottenere la Liberazione.
Quanto abbiamo sin qui esposto dimostra l’accordo, anzi, l’identità reale, nonostante certe differenze nell’espressione, tra la dottrina gnostica e le dottrine orientali, e più particolarmente con il Vêdânta; il più ortodosso di tutti i sistemi metafisici fondati sul Brahmanesimo. Possiamo quindi completare le nostre considerazioni riguardanti i diversi stati dell’essere con alcune citazioni tratte dal Trattato della Conoscenza dello Spirito di Shankarâchârya.
«Non vi è altro mezzo se non la Conoscenza per ottenere la liberazione completa e finale; essa è il solo strumento che scioglie i legami delle passioni; senza la Conoscenza, la Beatitudine non può esser ottenuta.
«L’azione, non opponendosi all’ignoranza, non può rimuoverla; ma la Conoscenza dissolve l’ignoranza così come la Luce dissipa le tenebre».
L’ignoranza è qui lo stato dell’essere avvolto nelle tenebre del Mondo ilico, legato all’apparenza illusoria della Materia e alle distinzioni individuali; come abbiamo già visto, tutte queste illusioni scompaiono per mezzo della Conoscenza, la quale non appartiene affatto al dominio dell’azione e le è superiore.
«Quando l’ignoranza che nasce dagli attaccamenti terrestri viene allontanata, lo Spirito brilla di splendore suo proprio in uno stato indiviso, così come il sole risplende nel cielo allorquando le nubi si sono disperse».
Ma, prima di pervenire a questo grado, l’essere passa attraverso uno stato intermedio, quello corrispondente al Mondo psichico, ove egli non crede più di essere il corpo materiale bensì l’anima individuale; nondimeno la distinzione continua per lui a sussistere, poiché non è ancora uscito dal dominio del Demiurgo.
«Immaginando d’essere l’anima individuale, l’uomo è colto dalla paura, come chi per errore scambia un pezzo di corda per un serpente; tuttavia il suo timore viene allontanato dalla percezione che egli non è l’anima, ma lo Spirito universale».
Colui che ha preso coscienza dei due Mondi manifestati, cioè del Mondo ilico, ossia l’insieme delle manifestazioni grossolane a materiali, e del Mondo psichico, ossia l’insieme delle manifestazioni sottili, è un «nato due volte», Dwija; ma colui che è cosciente dell’Universo non-manifestato o del Mondo senza forma, cioè del Mondo pneumatico, e che è arrivato alla identificazione di se stesso con lo Spirito universale, Âtmâ: quegli solo può esser chiamato Yogi, cioè «unito» allo Spirito universale.
«Lo Yogi, il cui intelletto è perfetto, contempla tutte le cose in quanto facenti parte di se stesso, e così, con l’occhio della Conoscenza, percepisce che ogni cosa è Spirito».
Notiamo per inciso che il Mondo ilico viene paragonato allo stato di veglia, il Mondo psichico allo stato di sogno, ed il Mondo pneumatico allo stato di sonno profondo. Al di sopra dell’Universo pneumatico, secondo la dottrina gnostica, vi è il Pleroma, il quale può esser inteso come costituito dall’insieme degli attributi della Divinità. Esso non è un quarto Mondo, ma lo Spirito universale stesso, Principio supremo dei Tre Mondi, né manifestato, né non-manifestato, indefinibile, inconcepibile e incomprensibile.
Lo Yogi, o il Pneumatico, che sono in fondo la stessa cosa, si percepisce, non più come una forma grossolana, né come una forma sottile, ma come un essere senza forma; egli si identifica allora allo Spirito universale, stato che è così descritto da Shankarâchârya:
«Egli è Brahma, dopo il cui possesso non vi è più nulla da possedere; dopo il godimento della cui felicità non v’è altra felicità che possa esser desiderata; e dopo l’ottenimento della cui conoscenza non v’è altra conoscenza che possa esser ottenuta.
«Egli è Brahma, la cui vista elimina quella di ogni altro oggetto, l’identificazione con il quale impedisce ogni ulteriore nascita, dopo la cui percezione, non v’è più nulla da percepire.
«Egli è Brahma, che è dovunque: nello spazio mediano, in ciò che gli è superiore ed in ciò che gli è inferiore. Egli è il Vero, il Vivente, il Beato, senza dualità, indivisibile, eterno ed unico.
«Egli è Brahma, senza dimensioni, increato, incorruttibile, senza forma, senza qualità o caratteristiche.
«Egli è Brahma, dal quale tutte le cose sono illuminate, la cui luce fa brillare il sole e gli altri corpi luminosi, ma che non è punto reso manifesto dalla loro luce.
«Egli stesso penetra la sua propria essenza eterna e contempla il Mondo intero apparendo come Brahma.
«Brahma non rassomiglia affatto al Mondo, e al di fuori di Brahma non vi è nulla; tutto ciò che sembra esistere al di fuori di Lui è un’illusione.
«Di tutto quanto viene visto, di tutto quanto viene udito, nulla esiste che non sia Brahma, e, mediante la conoscenza del Principio, Brahma viene contemplato come l’Essere vero, vivente, beato, senza dualità.
«L’occhio della Conoscenza contempla l’Essere vero, vivente, beato, che tutto penetra; ma l’occhio dell’ignoranza non può scoprirlo, né percepirlo, come il cieco non può vedere la luce.
«Quando il Sole della Conoscenza spirituale sorge nel cielo del cuore, esso scaccia le tenebre e tutto penetra abbracciando ed illuminando ogni cosa».
Facciamo notare che il Brahma di cui si parla qui è il Brahma superiore, da non confondere con il Brahma inferiore, il quale non è altro che il Demiurgo, considerato come riflesso dell’Essere. Per lo Yogi, non vi è che il Brahma superiore, che contiene tutte le cose e al di fuori del quale non v’è nulla: per lui, il Demiurgo e la sua opera di divisone non esistono più.
«Colui che ha compiuto il pellegrinaggio del suo proprio spirito, un pellegrinaggio che nulla ha a che vedere con lo spazio e con il tempo, un pellegrinaggio che si svolge dappertutto, nel quale non si prova né il freddo, né il caldo, che procura una felicità perpetua e una liberazione da ogni pena: quegli è senza azione, conosce tutte le cose, ed ottiene l’eterna Beatitudine».

IV
Dopo aver esposto le caratteristiche dei tre Mondi e degli stati dell’Essere che vi corrispondono, ed aver indicato, per quanto possibile, che cosa sia l’essere liberato dalla dominazione demiurgica, dobbiamo nuovamente ritornare sulla questione della distinzione tra il Bene ed il Male, onde vedere quali conseguenze possano trarsi da queste ultime considerazioni.
Di primo acchito si potrebbe esser tentati di pensare così: se la distinzione tra il Bene ed il Male è illusoria, se essa in realtà non esiste, lo stesso può dirsi della morale, poiché la morale si fonda proprio su tale distinzione. Ma sarebbe andar troppo lontano. La morale esiste, ma nella stessa misura in cui esiste la distinzione tra il Bene ed il Male, cioè relativamente al dominio del Demiurgo, mentre dal punto di vista universale, essa non ha alcuna ragione d’essere. Infatti la morale può trovare applicazione solo nell’azione; l’azione presuppone il cambiamento, il quale non è possibile che nel formale o nel manifestato; per contro, il Mondo senza forma è immutabile, superiore al cambiamento, e quindi anche all’azione, perciò l’essere che non appartiene più all’Impero del Demiurgo è senza azione.
Ciò dimostra che occorre fare molta attenzione a non confondere i diversi piani dell’Universo, perché quel che si afferma a proposito di un piano può non esser vero per un altro. Ad esempio, la morale esiste necessariamente nel piano sociale, che è essenzialmente il dominio dell’azione, mentre non se ne può più parlare quando si passa a considerare il piano metafisico o universale, poiché allora non v’è più alcun genere di azione.
Chiarito questo punto, dobbiamo far rilevare che l’essere che è superiore all’azione possiede tuttavia la pienezza dell’attività; ma si tratta di un’attività potenziale, quindi di un’attività che non si esplica in azioni. Questo essere non è affatto immobile, come a torto si potrebbe dire, ma immutabile, cioè superiore al cambiamento. In effetti, egli si identifica con l’Essere, il quale è sempre identico a se stesso conformemente all’espressione biblica: «L’Essere è l’Essere». Il che ci induce ad un accostamento con la dottrina taoista, secondo la quale l’attività del Cielo è non-agente: il Saggio, in cui si riflette l’Attività del Cielo, si attiene al non-agire. Tuttavia questo Saggio, che in precedenza abbiamo chiamato Pneumatico o Yogi, può presentare le apparenze dell’azione, così come la Luna può assumere le apparenze del movimento allorquando le nubi le passano davanti, ma il vento che sospinge le nubi non ha influenza alcuna sulla Luna. Similmente, l’agitazione del Mondo demiurgico non influisce sul Pneumatico, e, a questo proposito, possiamo ancora citare alcuni passi di Shankarâchârya:
«Lo Yogi, avendo attraversato il mare delle passioni, si unisce alla Tranquillità e si allieta nello Spirito.
«Avendo rinunciato ai piaceri offerti dagli oggetti perituri e godendo delle delizie spirituali, egli è calmo e sereno come la fiamma di una lampada, e si delizia nella sua propria essenza.
«Durante la sua permanenza nel corpo, non è modificato dalle proprietà di questo, così come il firmamento non è turbato dal movimento che si svolge nel suo seno; conoscendo tutte le cose, le contingenze non lo toccano».
Possiamo così comprendere il vero significato della parola Nirvâna, di cui sono state date tante e così false interpretazioni. Essa significa letteralmente «cessazione del soffio e dell’agitazione», dunque lo stato di un essere che non è più soggetto all’agitazione, che è definitivamente libero dalla forma. Un errore molto diffuso, almeno in Occidente, è quello di ritenere che non vi sia più nulla quando si sia in assenza di una forma, mentre, in realtà, la forma è nulla e l’informale è tutto; per cui il Nirvâna, lungi dall’essere l’annientamento, come hanno preteso certi filosofi, è. al contrario la pienezza dell’essere.
Da tutto quanto abbiamo sinora esposto si potrebbe concludere che non occorra affatto agire; ma ciò è ancora inesatto, se non in principio, almeno nell’applicazione che se ne vorrebbe fare. Infatti l’azione è propriamente la condizione degli esseri individuali appartenenti all’Impero del Demiurgo. Il Pneumatico, o il Saggio, è in realtà senza azione, ma, risiedendo in un corpo, è del tutto simile agli altri uomini; tuttavia sa che si tratta solo di un’apparenza illusoria, e ciò è sufficiente affinché egli sia realmente affrancato dall’azione, poiché è mediante la Conoscenza che si ottiene la Liberazione. Essendo affrancato dall’azione, non è più soggetto alla sofferenza; questa non è che un risultato dello sforzo, ed è in ciò che consiste la cosiddetta imperfezione, anche se in realtà non vi è nulla di imperfetto.
È evidente che l’azione non può esistere per colui che contempla tutte le cose in se stesso, come esistenti nello Spirito universale, senza che vi si distinguano oggetti individuali, così come è espresso dalle seguenti parole dei Vêda: «Gli oggetti differiscono solamente per i loro nomi, accidenti e designazioni, così come le suppellettili ricevono nomi differenti, sebbene siano in realtà solamente diverse forme di terra». La terra, principio di tutte queste forme, è di per se stessa senza forma, ma tutte le contiene in potenza: tale è anche lo Spirito universale.
L’azione implica il cambiamento, cioè la distruzione incessante di forme che scompaiono per essere sostituite da altre: tali sono le modificazioni che noi chiamiamo nascita e morte, cioè i molteplici cambiamenti di stato che devono essere attraversati dall’essere che non ha ancora raggiunto la liberazione o la «trasformazione» finale, parola, questa, da intendersi nel suo significato etimologico, che è quello di passaggio al di là della forma. L’attaccamento alle cose individuali, o alle forme transitorie e periture è proprio dell’ignoranza; le forme non sono niente per l’essere che è liberato dalla forma, ed è per questo motivo che egli, anche durante la permanenza nel corpo, non è modificato dalle proprietà di quest’ultimo.
«Così egli si muove, libero come il vento, poiché i suoi movimenti non sono ostacolati dalle passioni.
«Quando le forme sono distrutte, lo Yogi entra, con tutti gli esseri, nell’Essenza che tutto penetra. Egli è senza qualità e senza azione; imperituro, senza volizione; felice, immutabile, eternamente libero e puro.
«Egli è come l’etere che è diffuso dappertutto, e che penetra nel contempo l’esterno e l’interno delle cose; egli è incorruttibile, imperituro; egli è sempre lo stesso in tutte le cose, puro, impassibile, senza forma, immutabile,
«Egli è il supremo Brahma, che è eterno, puro, libero, solo, incessantemente colmo di beatitudine, senza dualità, Principio di ogni esistenza, e senza fine».
Questo è lo stato al quale perviene l’essere mediante la Conoscenza spirituale, liberato per sempre dalle condizioni dell’esistenza individuale, liberato cioè dall’Impero del Demiurgo.




[1] È questo, crediamo, il primo scritto di René Guénon; esso fu pubblicato nel 1909 nel n. 1 di La Gnose. L’Autore, allora ventiduenne, firmava con lo pseudonimo di Palingenius. (R.S.T., n. 33). (Ora nella raccolta Il demiurgo e altri saggi, Adelphi, Milano, n.d.r.)