Il Sufismo, la dimensione «interiore»
dell'Islam
Un'introduzione e un percorso bibliografico
Considerazioni introduttive sull’etimologia e l'origine del termine "sufismo" (tasawwuf)
L’espressione Sufismo
viene impiegata per rendere nelle lingue occidentali il termine arabo
Tasawwuf (propriamente «Iniziazione»), parola che serve a designare la
mystica islamica o, più esattamente, la realtà più profonda ed interiore
della religione fondata sul Corano e predicata dal Profeta Muhammad.
In origine, essa era definita
anche come la «scienza dell’interiore» (‘ilm al-bâtin) oppure la «scienza
della realtà essenziale» (‘ilm al-haqîqa).
L’etimologia del termine
Tasawwuf possiede, in realtà, una triplice derivazione:
- la prima (la meno conosciuta probabilmente), vede i Sûfî (coloro che seguono il Sufismo) derivare il loro nome da un certo al-Gahwth ibn Murra, detto Sûfa, vissuto cinque generazioni prima del Profeta. Questi sarebbe stato il primo a votarsi completamente al culto esclusivo di Dio prestando servizio nel Tempio della Mecca: capostipite di un lignaggio sacerdotale, permetteva quindi l’inizio del Pellegrinaggio da ‘Arafa ed i suoi discendenti – Sûfa - portavano un toupet di lana per significare il loro servizio nella Ka‘ba;- la seconda (la più frequente), implica che il termine Sufismo derivi, per l’appunto, dal materiale del toupet. Esso era, infatti, fatto di lana che si rende in arabo con la parola sûf;- la terza, infine, fa derivare Sufismo dalla parola safâ’ – «purezza» – o da suffa, con riferimento agli Ahl al-suffa, la «Gente della veranda», ossia alcuni compagni del Profeta che vivevano da asceti in un’area della moschea di Medina, dediti esclusivamente alla scienza sacra, agli atti di culto e al «ricordo di Dio» (dhikr).
Dalla parola safâ’ si
può così già intuire la natura essenziale del Sufismo: dal momento che
esso consiste in una Via (tarîq) - o «procedimento» (sulûk)- per
pervenire alla «Prossimità del Principio divino» e che per ottenere questo
scopo, il «viandante» (sâlik) si sbarazza progressivamente di «tutto ciò
che è altro che Dio» (kullu mâ siwâ ’Llâh). Ecco che questa kenosi
(svuotamento) della propria individualità coincide con la «purezza» (safâ’)
interiore del Sûfî, che Junayd al-Baghdâdî definirà come «colui che Dio
fa morire a se stesso e vivere in Lui».
Se l’origine dell’espressione
rimane oggetto comunque di discussione, tutti i maestri del Sufismo sono
invece concordi nel far risalire l’origine della loro Via al Libro di Dio (il
Corano), agli insegnamenti e alla pratica del Profeta (Sunna), fonti
primarie di ogni insegnamento islamico tradizionale.
Non v’è, quindi, autentico
Sufismo al di fuori di un’autentica adesione all’Islam: la Legge religiosa
ne è l’aspetto esteriore (al-qishr, la «scorza»), mentre il Sufismo
è quello interiore (al-lubb, il «nocciolo»).
Il Sufismo inizia
dunque con i ritiri d’isolamento, di digiuno e di preghiera del Profeta nella
grotta Hirâ’ nei pressi della Mecca, dove egli ricevette la prima rivelazione
del Corano (c. 608) tramite l’Arcangelo Gabriele. Sempre nel Profeta,
esso tocca anche il suo apogeo quando, qualche anno prima dell’egira avvenne la
sua ascensione celeste fino al Trono di Dio, dove ebbe la visione del Suo volto
glorioso di luce. In lui, infatti, risiede il fondamento delle discipline
spirituali dei maestri, nonché la scienza degli stati interiori (ahwâl) e
delle stazioni della Via (maqâmât). È dal Profeta che ogni Via spirituale
ha inizio, con la trasmissione delle sua baraka («influenza spirituale»)
trasmessa mediante un solenne Patto di alleanza lungo linee di maestri che
risalgono a lui attraverso alcuni compagni, primo fra tutti il genero e cugino
‘Alî a cui si ricollegano la maggior parte delle linee iniziatiche (salâsil,
pl. di silsila) delle turuq (pl. di tarîqa), le
confraternite del Sufismo.
Questa trasmissione da
maestro a discepolo in ambito iniziatico si è svolta in modo parallelo a quello
della trasmissione delle tradizioni profetiche (hadîth) per quel che
concerne la scienza canonica dell’Islam, ma la sua natura riservata le ha
conferito, specialmente nei primi tempi, una maggior discrezione che ha fatto
persino dubitare alcuni della sua effettiva esistenza.
La tradizione conserva
comunque testimonianze inconfutabili sulla sua presenza fin dalla prima ora,
come l’insegnamento di ‘Alî al discepolo Kumayl, o le riunioni private di Hasan
al-Basrî sulla «scienza esoterica».
Sviluppo del Sufismo
Nei primi due secoli le
figure spirituali emergenti sono quelle di asceti (zuhhâd) che
disprezzano il mondo e le sue delizie, interamente dediti a mortificare la loro
anima carnale, a osservare uno scrupolo rigoroso sulla liceità di tutto quel che
viene loro da questo «basso mondo», timorosi del loro destino postumo e
desiderosi del compiacimento divino. Un cambiamento sostanziale si opera nel III
secolo dell’era islamica e coincide con l’affermarsi dei termini Sûfî e
del collettivo sûfiyya, per designare la gente della Via, specialmente
quella della scuola di Baghdad, nuova capitale del califfato ‘abbaside.
Junayd al-Baghdâdî e Husayn
ibn Mansûr Hallâj (giustiziato a Baghdad nel 922 e.v.) – rappresentanti
emblematici delle «due correnti fondamentali» del Sufismo, quella
«sobria» e intellettuale e quella «estatica» e passionale – sono due
figure-chiave di quest’epoca.
Il primo per la sua
elaborazione dottrinale della scienza del Tawhîd (l’«Unicità divina», ma
anche l’«unione» dell’iniziato con la Realtà suprema), base di ogni successivo
sviluppo dottrinale di ordine metafisico; il secondo, invece, per il carattere
provocatorio e paradossale delle sue enunciazioni (le shatahât, o
«locuzioni teopatiche»), famosa fra tutte la frase Anâ-l-Haqq, «io sono
il Vero» cioè «io sono Dio», che gli costerà il patibolo.
Il paradosso dell’«Identità
suprema» – dal momento che l’essere possibile è da sempre e per sempre distinto
dall’Essere necessario – non sarà mai compreso dai dottori della Legge ed è
proprio Hallâj a segnare il solco che li vede definitivamente contrapposti ai
depositari della saggezza interiore.
Non si tratta, beninteso, di
una reale contrapposizione fra esoterismo ed exoterismo, bensì solo
dell’ostilità di una certa classe di rappresentanti dell’aspetto più
letteralista dell’Islam e ciò farà sì che i maestri del Sufismo sentano
sempre più la necessità di giustificare le loro dottrine e le loro pratiche agli
occhi della Sharî‘a.
La sintesi perfetta fra le
diverse componenti della Rivelazione muhammadiana viene infine raggiunta da Abû
Hâmid al-Ghazâlî (1058-1111 e.v.), autore del notissimo Ihyâ’ ‘ulûm al-dîn
(la «Rivificazione delle scienze religiose»), che contribuisce in modo notevole
a ristabilire una sorta di tregua fra le parti e ad allontanare dal Sufismo
il sospetto di eresia.
Di poco posteriore è anche
l’istituzionalizzazione dei legami e delle norme che regolano il rapporto fra
maestro (shaykh) e discepolo (murîd); ciò costituisce la nascita
vera e propria delle «confraternite» (turuq) sufiche quali oggi le
conosciamo, prima fra tutte la Qâdiriyya, che viene fatta risalire al
santo di Baghdad ‘Abd al-Qâdir al-Jîlânî (1078-1166). L’inventario dettagliato
di queste turuq è alquanto lungo, ma la maggior parte di esse può essere
facilmente ricondotta a una delle linee spirituali primarie in cui va ad
innestarsi come il ramo nel tronco: ecco dunque la già menzionata Qâdiriyya,
la Suhrawardiyya, la Shâdhiliyya, la Rifâ‘iyya, la
Kubrawiyya, la Mawlawiyya, la Naqshbandiyya, la
Khalwatiyya, la Chistiyya e la Tijâniyya, nomi che indicano la
filiazione (nisba) di ciascuna di esse dal rispettivo santo fondatore.
Nell’Islam, tuttavia, il
fatto istituzionale delle confraternite è un elemento puramente accidentale;
l’essenziale è costituito dal ricollegamento a una linea ininterrotta di
maestri.
Se questo ricollegamento, a
partire dal XIII secolo, si è dato la struttura formale delle confraternite, ciò
è avvenuto al fine di assicurare alla società islamica in modo capillare un
tessuto connettivo con il suo cuore spirituale.
Le figure apicali del Sufismo
Personalità illustri del
Sufismo hanno contribuito in modo considerevole allo sviluppo e alla
grandezza della civiltà islamica; molti sono stati dottori della Legge,
letterati, poeti, calligrafi, uomini di stato e guerrieri, ma soprattutto si
sono distinti per avere dato luogo a una vasta letteratura spirituale, di grande
profondità e bellezza espressiva, uno dei monumenti del genio umano di ogni
tempo e luogo. La loro dottrina, oltre agli aspetti più tecnici concernenti le
modalità del viaggio iniziatico, i suoi mezzi, le condizioni, le tappe e gli
stati di realizzazione, ruota essenzialmente attorno all’esposizione in chiave
metafisica e iniziatica del pilastro centrale della religione, ossia la duplice
testimonianza di fede: da un lato quella già menzionata concernente l’unicità
divina – il Tawhîd, appunto – e dall’altro quella relativa alla
missione legiferante del Profeta, la Risâla, a partire dalla quale
è stata sviluppata anche tutta la dottrina concernente la santità.
L’approccio a questi «due
temi» verrà svolto a partire dalle due tendenze fondamentali, la «gnostica» e la
«passionale», già riscontrate nelle persone di Junayd e di Hallâj, veri
precursori di questi due aspetti della dottrina. L’apice e, si potrebbe dire, la
fioritura perfetta della letteratura iniziatica rappresentata da queste due
«scuole spirituali» si ha, però, attorno al XIII secolo e due ne sono i
protagonisti: il primo è l’andaluso Muhyî-d-dîn Ibn ‘Arabî (1165-1240), teorico
della wahdat al-wujûd (la dottrina dell’essenziale unità dell’Essere, la
cui definizione terminologica, così come oggi viene usata, va ascritta al
discepolo più intimo Qunawî) e autore delle monumentali Futûhât al-makkiyya
e dei Fusûs al-hikam; il secondo è l’anatolico Jalâlu-d-dîn Rûmî
(1207-1273), cantore dell’inesprimibile splendore divino e autore del celebre
Mathnâwî.
Sarà, però, soprattutto Ibn
‘Arabî a influenzare col suo poderoso pensiero la gran parte delle successive
generazioni di spirituali musulmani; perfino quelli che gli saranno ostili o
esprimeranno delle riserve nei suoi confronti non potranno fare a meno di
riconoscere il tributo dovuto alla sua opera, che gli è valsa l’appellativo di
al-Shaykh al-akbar, «il più grande dei maestri». L’approccio diretto ai
suoi scritti rimane in ogni caso appannaggio di un’élite; sia per la loro
mole, sia per la difficoltà e la complessità della sua dottrina, infatti, pochi
sono coloro in grado di poterla padroneggiare con sufficiente competenza. Ciò
non ha comunque impedito che una eco dei temi e delle nozioni ricorrenti si sia
diffusa a livelli quasi popolari, non di rado con delle semplificazioni e
distorsioni che hanno allarmato sia i dottori dell’esteriore sia i maestri del
Sufismo. Non va, infatti, nemmeno taciuto il pericolo di una certa
«scolastica akbariana» nel suo senso più deteriore.
Tutto questo può dare un’idea
della penetrazione del Sufismo nella società islamica. Benché destinato a
una cerchia ristretta e tale sia rimasto per un lungo periodo di tempo, con la
nascita delle confraternite esso ha permeato e chiamato a sé grandi folle di
fedeli. Alcune delle turuq principali contano al giorno d’oggi centinaia
di migliaia di affiliati – talvolta persino diversi milioni – sparsi in tutto il
mondo.
Una propagazione di tale
ampiezza si giustifica come una forma estrema di partecipazione spirituale
all’irraggiamento della luce profetica, ma essa comporta anche, necessariamente,
una progressiva e sempre più gerarchizzata struttura all’interno delle turuq
medesime. In tal modo, infatti, la cerchia più interna di ciascuna tarîqa
tiene al riparo da ogni volgarizzazione il cuore della dottrina e ne impedisce
la divulgazione impropria.
Il Sufismo nell’Occidente
Nel secolo appena trascorso,
a partire soprattutto dalla seconda metà, il Sufismo ha cominciato a
penetrare anche in Occidente, e non solo attraverso il fenomeno
dell’immigrazione, bensì fra gli stessi europei e americani che hanno aderito
all’Islam. Francia e Svizzera hanno ospitato i primi «germi» di questa forma di
spiritualità e un indubbio contributo alla sua penetrazione è venuto, in
origine, dall’opera del francese René Guénon (1886-1951), anche se sarebbe forse
più corretto dire che più che la sue opere pubblicate, centrate attorno alla
nozione dell’unità essenziale e dell’origine unica e primordiale di tutte le
forme tradizionali, hanno contribuito le più discrete indicazioni del suo
epistolario e l’esempio della sua adesione personale. Al Cairo, dove vive, senza
più lasciarla, gli ultimi venti anni della sua vita, è noto col nome di
shaykh ‘Abdel-Wâhid Yahyâ ed egli stesso è ricollegato, attraverso il
pittore svedese John Gustav Aguelii – ‘Abdul-Hâdî (1869-1917), all’importante
maestro shâdhilita ‘Abd ar-Rahmân ‘Illaysh al-Kabîr (c.
1845-1922), a cui dedica il suo Symbolisme de la Croix.
A partire da Guénon, formata
sulla sua opera, nasce tutta una generazione di «intellettuali» europei, primi
in ordine di tempo i suoi amici, collaboratori e corrispondenti. Uno di costoro,
l’alsaziano Frithjof Schuon (1907-1998), noto anche come shaykh ‘Aïssa
Nureddin, fonda a Losanna – nel 1934 – la prima branca europea di una tarîqa,
la Shâdhiliyya-‘Alawiyya dello shaykh Ahmad al-‘Alawî di
Mostaganem (1869-1934), ma è anche risaputo che egli si sia
progressivamente allontanato tanto dalla cosiddetta «ortodossia guénoniana» che
da quella islamica tout-court con gravi fratture nell’ordine da lui
fondato, e col suo trasferimento a Bloomington (Indiana, USA) negli anni Ottanta
la vicenda è andata vieppiù degenerando.
Note
tecniche sulla bibliografia
La bibliografia si presenta,
quindi, divisa in opere del Sufismo ed opere sul Sufismo: le prime
sono traduzioni in lingua italiana di testi scritti da Maestri del Sufismo,
mentre le seconde sono costituite da studi sul Sufismo e per questo non
necessariamente compiuti da Maestri.
Prima di procedere oltre, è
bene precisare il proprio sospetto nei confronti di quella «invasione» cartacea
attinente all’Islam, avvenuta per lo più all’indomani dei luttuosi avvenimenti
del 11 settembre a New York; non si ritiene, infatti, che questa abbia un valore
conoscitivo, e la sua attendibilità si crede sia indirettamente proporzionale
alla sua quantità stessa.
Nella redazione della
bibliografia non si è seguito, in ogni caso, alcun criterio cronologico, né con
riferimento agli autori né alle date di edizione dei testi stessi.
Non si può infine tacere
sulla palese inconsistenza della «produzione italiana» in questo campo: un
problema che non dipende certamente dalla mancanza di traduttori, ma piuttosto
dall’essenziale mancanza di coraggio della maggior parte delle case editrici
italiane, eccezion fatta per quelle che si troveranno appresso citate, cui
invece va un sincero ringraziamento.
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a cura di Laura Veccia Vaglieri e Roberto Rubinacci, UTET, Torino 1970
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* Tratto da:www.gianfrancobertagni.it
R.M. Khomeynî, La via spirituale, Semar, Roma, 2002
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