"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

mercoledì 4 giugno 2014

Luca Patrizi, Dante e il Tasawwuf

Luca Patrizi
Dante e il Tasawwuf               

Dante e il tasawwuf

Le analogie tra l’opera di Dante e la letteratura spirituale islamica, sono ormai accettate anche negli ambienti accademici più “conservatori”; quello che interessa questo studio, non è tanto indagare, una volta di più, se esistono le prove materiali di un accesso ai testi o addirittura di un contatto diretto con i rappresentanti della Tradizione islamica da parte del poeta fiorentino e in generale del mondo occidentale del suo tempo, problema difficilmente risolvibile con i mezzi ordinari della ricerca storiografica, ma di rilevare alcune di queste analogie in particolare, riscontrabili soprattutto nella Comedia. Vi sono alcune premesse da fare.
Negli ultimi cento anni in Occidente si è andata formando una categoria di ricercatori, accademici e non, che ha cominciato a studiare le dottrine orientali sempre meno legata a pregiudizi o a partiti presi ideologici; in questo modo si è trovata ad ammettere che c’è un legame molto profondo tra le Tradizioni spirituali orientali e occidentali, giungendo alla conclusione che esse possano provenire tutte da un’unica fonte comune, dalla quale si sono separate in un’epoca molto antica, avvenimento del quale, tra l’altro, è rimasta più di una traccia, soprattutto nell’Induismo, ma  anche in moltissime altre Tradizioni, attualmente viventi o ormai scomparse. Inoltre il Cristianesimo cattolico, la forma Tradizionale più diffusa in Occidente, non si può dire che ne sia autoctona, in quanto deriva, dopo una lunga serie di trasformazioni che l’hanno resa quasi irriconoscibile rispetto alla sua fonte, almeno ad un livello più superficiale, da una Tradizione di tipo semitico, quindi orientale[1]. Le Tradizioni che si erano sviluppate in Occidente prima dell’avvento del Cristianesimo, come il cosiddetto “Paganesimo”, la Tradizione romana, o il Celtismo, sono state anch’esse viste come un qualcosa di eterogeneo rispetto ad esso, fino, appunto, a quest’ultimo secolo, quando, da uno studio più approfondito è emerso come sia apparente la divisione che si tende a vedere tra esse e il Cristianesimo, e di come in realtà il passaggio assomigliò più ad un’assimilazione, non soltanto passiva, che ad una vera e propria sostituzione; la stessa Comedia è un esempio di come in realtà mondo “classico” e Cristianesimo possano venire conciliati da una visione più profonda[2].
La seconda premessa è limitata al campo degli studi danteschi; sempre negli ultimi cento anni, quasi di pari passo con l’apertura accademica nei confronti dell’Oriente, si è cominciato a guardare all’opera di Dante non più solamente da un lato strettamente letterario e filologico, ma le ricerche si sono indirizzate anche sulla dottrina spirituale che vi è contenuta, e i suoi rapporti con le confraternite cristiane esoteriche dell’epoca, attualmente scomparse.[3]
Questo studio cerca di unire queste due tendenze, focalizzandosi sulle analogie riscontrabili tra la dottrina e i metodi spirituali delle confraternite islamiche e la dottrina contenuta nella Comedia (probabile riflesso delle dottrine delle confraternite cristiane ad esse coeve), a prescindere dalla considerazione dei contatti materiali che possono essere stati instaurati tra i due mondi in quel preciso momento storico[4].

La letteratura spirituale che ci è giunta e che continua a giungerci dal tasawwuf, meglio conosciuto con il nome di Sufismo, l’esoterismo islamico tanto studiato, con alterni risultati, in Occidente, che - come non sempre è specificato negli studi che vi si riferiscono -  è tuttora presente quasi in ogni parte del mondo, non ha sempre la necessità di essere “velata” come la poesia di Dante e dei “Fedeli d’Amore”[5], e, laddove si vela, lo fa più forse per poter utilizzare la forza di ripercussione che il simbolo può avere sull’Intelletto che per reali motivi contingenti. Asín Palacios ha chiaramente fatto notare le similitudini che vi sono tra la dottrina di Ibn al ‘Arabî, considerato “il più grande dei maestri” dell’esoterismo islamico, morto nel 1240, e quella espressa nell’opera di Dante[6], e altri studiosi hanno mostrato come la poesia degli stilnovisti utilizzi gli stessi strumenti letterari di quella  araba.
Il viaggio di Dante, soprattutto il suo tragitto nel Purgatorio, è il viaggio di purificazione di un’anima che cerca di innalzarsi verso la contemplazione di Dio, scortata nel suo difficile cammino da una serie di personaggi: prima Virgilio, poi Stazio, Matelda, Beatrice e infine San Bernardo; il rapporto che Dante mostra di avere con essi, ha delle forti analogie con quello che si può scorgere nelle descrizioni che il tasawwuf  ci offre del rapporto tra discepolo e maestro spirituale, e lo studio comincerà col trattare quella parte della dottrina relativa all’adab, la “scienza delle convenienze spirituali”. Dell’adab possiamo trovare traccia in pratica in tutta la letteratura del tasawwuf, poiché il rispetto di certe convenienze, soprattutto nel rapporto tra maestro e discepolo, è considerato della massima importanza per il cammino dell’anima verso Dio; cercheremo quindi di rilevare le analogie che vi possono essere con la Comedia. Per semplificazione considereremo quindi i differenti personaggi che si avvicendano nella guida del poeta come un'unica “entità spirituale”, con un'unica funzione distribuita lungo il cammino nei tre mondi[7].

Virgilio giunge nel momento in cui Dante, uscito dalla selva oscura, è bloccato nel suo passo dalle tre fiere, ed è proprio l’arrivo del vate romano a permettergli di “aggirare” l’ostacolo, indicandogli una via più lunga, ma più sicura, nonché, aggiunge, l’unica percorribile fino all’avvento del Veltro. Durante l’attraversamento dell’Inferno, è Virgilio a permettere a Dante di superare degli ostacoli che per lui solo sarebbero stati proibitivi, confortandolo ad esempio quando, alle soglie della città di Dite, è assalito da una paura molto simile a quella che lo aveva bloccato all’inizio del suo viaggio, e nel canto XXIV, poi, a spronarlo con forza quando si siede, preso da stanchezza; egli si preoccupa quindi di proteggerlo e scortarlo fino al Purgatorio, dove comincerà invece a svolgere una funzione molto più importante nella purificazione spirituale del poeta.

La figura del maestro spirituale è di enorme importanza nelle dottrine orientali, soprattutto nel tasawwuf. Nell’ayyuhâ-l-walad (O figlio/discepolo!), di Abû Hâmid al-Ghazâlî, conosciuto e apprezzato anche da Dante (che lo cita nel Convivio) e dal medioevo cristiano con il nome latinizzato in Algazel, è molto ben descritta:

Sappi che chi segue la Via ha bisogno di un maestro che lo guidi e lo educhi e, con la sua buona istruzione, sostituisca in lui le cattive con le buone tendenze. L’istruzione assomiglia infatti al lavoro del contadino che strappa le spine e separa il grano dal loglio, affinché cresca meglio e dia un’abbondante raccolto. Chi segue la Via deve perciò avere un maestro per educarlo e guidarlo nella Via di Dio l’Altissimo, poiché Iddio ha inviato ai Suoi servi un Messaggero per guidarli. Quando (il Profeta) è morto, ha lasciato in sua vece dei successori come guide nella Via di Dio l’Altissimo. (…) Chi ha avuto la fortuna di trovare un tale maestro, e di essere stato da questi accolto, deve rispettarlo esteriormente e interiormente. Il rispetto esteriore consiste nell’evitare la discussione con lui e nell’astenersi dal contraddirlo in ogni cosa, anche quando sappia che (il maestro) è in errore. (…) Deve eseguire ciò che il maestro gli ordina, secondo le sue forze e la sua capacità. Quanto al rispetto interiore, esso comporta che tutto ciò che il discepolo abbia udito ed accettato esteriormente dal maestro, non sia negato interiormente, né con l’azione né con la parola, affinché non venga tacciato di ipocrisia.[8]”    
  
Da queste parole si può comprendere come siano vicine a quelle espresse da al-Ghazâlî le motivazioni che spingono Dante a farsi guidare nel suo viaggio da una persona esterna a sé, che funga appunto da maestro, come ad esempio più volte il poeta chiama Virgilio (dolce pedagogo in Purgatorio XII, 3), non solo per motivi letterari (Virgilio chiama inoltre Dante dolce figlio, esattamente come al-Ghazâlî chiama il suo discepolo): solo in questo modo, infatti, secondo il tasawwuf , è possibile abbandonare la propria volontà, per farsi guidare soltanto dalla Volontà di Dio, possibilità che vediamo espressa anche nella Comedia:

Come del suo voler li angeli tuoi
fan sacrificio a te, cantando osanna,
così facciano li uomini de’ suoi.[9]

Il maestro inoltre, secondo al-Ghazâlî, deve essere qualificato a condurre l’aspirante (murîd) sul cammino, perché a sua volta ha compiuto quello stesso cammino sotto la sorveglianza di un altro maestro, ed è stato da lui autorizzato a condurre gli altri. L’aspirante verrà quindi guidato attraverso la tarîqa, la via stretta (termine che indica anche la confraternita riunita attorno al maestro), irta di difficoltà e di tentazioni spirituali, che gli permetterà, se ha le qualificazioni e l’abnegazione necessarie, di giungere fino all’unione in Dio (detta al-baqâ’, Permanenza, lo stato del Sûfî, stato che segue l’Estinzione, detta al-fanâ’), e anche qui, oltre all’evidente analogia con la porta stretta dei Vangeli, si può notare che in alcune parti del Purgatorio si fa riferimento ad una stessa  simbologia:

Noi salavam per entro ‘l sasso rotto,
e d’ogne lato ne stringea lo stremo…[10]

…ma quinci e quindi l’alta pietra rade[11]

Un’altra analogia è riscontrabile nella pratica dell’umiltà: nel tasawwuf essa è adab nei confronti delle creature e quindi nei confronti di Dio, ma anche un vero e proprio metodo di Realizzazione Spirituale; un esempio particolare in questo senso è rappresentato dalla confraternita cosiddetta dei malâmatyya, la ‘gente del biasimo’, la cui regola prescrive un comportamento estremamente umile, quasi un annullamento nell’ordinario anche di fronte ad elevati stati spirituali[12], associata ad una specie di ricerca cosciente dell’umiliazione di fronte alla gente, in grado di rendere sempre più l’anima individuale (nafs) vuota di sé stessa e pronta ad accogliere la Presenza (Sakîna) di Dio. Ora, possiamo notare che in numerose parti del suo poema, Dante si sforza di praticare l’umiltà, conoscendo dopotutto molto bene la sua debolezza proprio per quanto riguarda l’eccesso di superbia: il giunco, con il quale viene cinto in Purgatorio I, 94 e 133, è chiaro simbolo d’umiltà, e nel Canto X ne vengono indicati esempi illustri, come la danza del Profeta Davide, l’umile salmista, in Re, VI, 21-22:

“Alla presenza del Signore, che mi ha prescelto, danzerò…
…mi renderò spregevole e mi umilierò….”

o il comportamento di Traiano con la vedovella che gli domanda di fare giustizia, o infine nel canto successivo il mendicare del tiranno di Siena Provenzano Salvani per racimolare i soldi necessari per il riscatto dalla prigionia di un caro amico, che lo condusse a “tremar per ogne vena”; inoltre, sempre nel canto XI, vediamo Dante rannicchiarsi, portando simbolicamente il fardello che i superbi portano realmente per scontare la loro pena, paragonando poi all’inizio del canto successivo, il proprio fardello spirituale al carico di un bue al giogo. Vi sono inoltre alcuni passi nei quali Dante si paragona o ad un bambino[13], il fanciul in Purg. XXVI, 45, XXXI, 64, il parvol…figlio palido e  anelo di Paradiso XXII, 2 e 5, o ad un animale, quasi sempre un cucciolo, come il cicognino di Purgatorio XXV, 10, la capra di Purgatorio XXVI, 86, o in Paradiso XXIII, 1-15 dove le cure di Beatrice nei suoi confronti sono paragonate a quelle di un uccello per i suoi piccoli.
A proposito di umiltà, il canto XI del Paradiso è molto importante in questo senso, poichè introduce la figura di San Francesco, indicato dal poeta, assieme a San Domenico, come una benedizione che la Provvidenza di Dio ha concesso alla Chiesa, per guidarla e sostenerla in un momento molto difficile. Dante si riferisce in questo canto ad un’interpretazione molto interessante dell’ascesi del santo di Ascesi (curiosa coincidenza nell’antico nome di Assisi!), largamente utilizzata nella letteratura francescana del Duecento e specialmente in un opuscolo anonimo, il Sacrum commercium beati Francisci cum domina Paupertate, dove il rapporto di Francesco con la povertà è innalzato a simbolo di nozze spirituali, lo stesso matrimonio stipulato dal Cristo in persona durante il suo soggiorno sulla terra. Sfogliando l’opuscolo, ci si accorge che il riferimento alla povertà è tale da relegare l’accezione letterale di povertà puramente materiale ad una parte comunque secondaria della questione, riferendosi essenzialmente invece ad un’altra povertà, la stessa a cui si riferiscono i Vangeli con “beati i poveri di spirito, perché di essi è il Regno dei Cieli”: ebbene, coloro che sono affiliati al tasawwuf e praticano la Via, vengono chiamati fuqarâ’[14], che significa appunto i poveri, la qual cosa ricorda evidentemente i poverelli di San Francesco, e sempre secondo il tasawwuf è proprio questa povertà, questo volontario “svuotamento di sé” da parte della creatura per fare posto a Dio, che può condurre all’Estinzione[15]. Si può accennare al fatto che l’aggettivo povera riferito alla Vergine in Purgatorio XX, 22 potrebbe avere questa doppia accezione, in quanto chi più di essa doveva essere così vuota di sé da poter essere scelta come ricettacolo del Verbo incarnato di Dio?
Per tornare all’adab, abbiamo visto come una delle regole fondamentali sia l’obbedienza nei confronti del maestro, e possiamo notare che anche Dante è molto attento a questo riguardo:

Qual savesse qual era la pastura
 del viso mio ne l’aspetto beato
quand’io mi tramutai ad altra cura,
conoscerebbe quanto m’era grato
ubedire a la mia celeste scorta,
contrapesando l’un con l’altro lato[16].

Infatti egli, pur di obbedire alla sua guida, si distoglie dalla contemplazione del suo viso celestiale, che gli procurava un’intensa soddisfazione spirituale, dando quindi all’obbedienza nei suoi confronti un’importanza superiore alla contemplazione di Dio per riflesso, seppur in uno specchio angelico come Beatrice;  inoltre, attende sempre il suo permesso prima di parlare:

Io mi rivolsi dal mio destro lato
per vedere in Beatrice il mio dovere
o per parlare o per atto segnato…[17]   

Io stava come quei che ‘n sé repreme
La punta del disio, e non s’attenta
Di domandar, sì del troppo si teme…[18]

dove tra l’altro Dante introduce la figura di San Benedetto, che, segnalandolo di sfuggita, sembra avere curiose analogie con il “tipo spirituale” del Profeta Muhammad, in quanto anche il santo, come il Messaggero di Dio dell’Islam, passa in una grotta lunghi momenti di meditazione e appare come un fervente iconoclasta:

…e quel son io che su vi portai prima
lo nome di colui che ‘n terra addusse
la verità che tanto ci soblima
e tanta grazia sopra me relusse,
ch’io ritrassi le ville circostanti
da l’empio cólto che ‘l mondo sedusse.[19]
 
e nel racconto della sua vita di Gregorio Magno:

giunto colà pertanto l’uomo di Dio, abbattè l’idolo, rovesciò l’altare, distrusse i boschi, e nel tempio stesso di Apollo costruì un oratorio in onore di Maria Vergine, e là dove era l’altare del dio un oratorio dedicato a san Giovanni, e continuamente predicando convertiva alla fede la gente che dimorava lì intorno”[20]

scena che ricorda il racconto del Cristo che scaccia i mercanti dal tempio, ma ancora di più l’arrivo del Profeta Muhammad alla Ka’ba, dopo la conquista della Mecca, la distruzione degli idoli al suo interno, ad eccezione di una raffigurazione della Vergine con il Bambino che viene lasciata intatta, e il successivo ristabilimento del culto del Dio Unico. 
Un'altra delle caratteristiche di una profonda relazione tra maestro e discepolo, secondo il tasawwuf, è che il discepolo, grazie al suo abbandono, diventa spiritualmente trasparente per il maestro, che è quindi in grado di leggere nel suo cuore e nella sua mente, offrendo delle risposte senza che il discepolo abbia bisogno di porgergli dubbi o domande: possiamo osservare situazioni molto simili nella Comedia:

Ben sapev’ei che volea dir lo muto;
e però non attese mia dimanda,
ma disse: «Parla, e sie breve e arguto»[21].

Ma quel padre verace, che s’accorse
del timido voler che non s’apriva,
parlando, di parlare ardir mi porse[22].

In Paradiso XIV, addirittura Beatrice risponde ad una domanda che Dante non solo non le aveva ancora posto, ma alla quale lui non aveva ancora dato una forma definitiva nella mente:

«A costui fa mestieri, e nol vi dice
né con la voce né pensando ancora,
d’un altro vero andare a la radice[23].

Nel canto XIX del Purgatorio invece, Dante sogna la femmina balba, una donna che, inizialmente deforme, diventa sempre più affascinante a vista d’occhio, fino a diventare una bella sirena che riesce ad incantarlo[24]; ma un’altra donna giunge in suo aiuto, e, dicendo  «O Virgilio, Virgilio, chi è questa?», strappa la veste che copre il ventre marcio della sirena, e l’odore insopportabile che ne esce sveglia il poeta il quale trova davanti a sé Virgilio, che gli dice, con una certa severità, di averlo chiamato almeno tre volte, prima di essere riuscito a svegliarlo. In questa situazione, indipendentemente dall’identità della seconda donna, che è stata variamente interpretata, potrebbe essere stato Virgilio a salvare il poeta, perché, come talvolta succede in un intenso stato di sogno, un richiamo non ha ancora la forza sufficiente per strappare il sognatore al sonno, ma un rumore esterno è in grado di interferire nel sogno stesso, e i tre richiami si materializzano gradualmente nell’azione della seconda donna che salva il poeta, e nella sua affermazione, dalla quale traspare una simbolica “gelosia”[25], ella nomina Virgilio, quasi come se lo sgridasse di non aver prestato abbastanza attenzione al suo compito di protezione nei confronti di Dante, ma nei sogni quasi tutto prende una forma deformata, molte volte invertita, di quella che è la realtà.
Il nemico indicato a Dante da questo sogno-visione è l’attaccamento ai beni terreni a discapito di quelli spirituali[26], e colui che crea e tiene in vita la menzogna, bloccando le anime nella ragnatela del molteplice è il nostro avversaro di Purgatorio VIII, 95, l’antico avversaro di  Purgatorio XIV, 146, Satana in persona, che è lo stesso nemico che i mutasawwifûn , termine che indica coloro che sono affiliati al tasawwuf, prendono per se stessi durante il loro cammino, Shaytân[27].
Una splendida esemplificazione di quale sia la funzione di un maestro spirituale, Dante ce la mostra poi in Paradiso II, 10-15, nella quale è lui stesso però che si offre di svolgerla nei confronti di alcuni tra i suoi lettori:

Voi altri pochi che drizzaste il collo
per tempo al pan de li angeli, del quale
vivesi qui ma non sen vien satollo,
metter potete ben per l’alto sale
vostro navigio, servando mio solco
dinanzi a l’acqua che ritorna equale

dove l’immagine dell’acqua che si richiude su se stessa dietro alla barca esemplifica perfettamente lo stato privilegiato del cammino del discepolo che invece riesce a mantenersi nella ‘scìa’ di un maestro spirituale.
Dante, inoltre, compie il suo viaggio con il corpo, quindi ammette che vi possa essere una purificazione spirituale anche prima della morte, purificazione che avviene in maniera naturale per le anime del Purgatorio, oramai attratte verso Dio nel completo abbandono della loro volontà propria, condizione che condividono con le anime del Paradiso:

E ‘n la sua volontade è nostra pace:
ell’è quel mare al qual tutto si move
ciò ch’ella cria o che natura face».[28]

ma che invece necessita di enormi sforzi se viene intrapresa già durante l’esistenza terrena, con “fami, freddi o vigilie”, di cui egli parla in Purgatorio XXIX, 38, in modo da consistere in una vera e propria risalita “controcorrente”, la jihâd an-nafs, lo sforzo, la lotta contro la propria anima, che un mutasawwif cerca di compiere in ogni momento della sua esistenza, aiutandosi anch’egli con digiuni e vigilie di intensa preghiera, e soprattutto con l’incessante ripetizione del Nome Supremo di Dio, la pratica spirituale per eccellenza del tasawwuf, detta dhikr, ricordo, menzione: ad una tecnica equivalente a questa potrebbe alludere forse anche Dante in Paradiso, XXV, 73-75, riportando un verso da Salmi, IX, 11:

“Sperino in te” ne la sua teodìa
dice “color che sanno il nome tuo”:
e chi nol sa, s’elli ha la fede mia?

per giungere infine, come abbiamo visto precedentemente, all’Estinzione dell’Io individuale e alla Permanenza in Dio, quell’unione di cui Dante parla in Convivio III, II, 3:

«Amore…non è altro che unimento spirituale de l’anima e de la cosa amata; nel quale unimento di propria sua natura l’anima corre tosto o tardi, secondo che è libera o impedita».

e anche nella Comedia:

…di veder quella essenza in che si vede
come nostra natura e Dio s’unìo...[29]

…perchè intender non si può diviso,
e per sé stante, alcuno esser dal primo[30]

Anche in Paradiso XXXIII, nei versetti 124-132, carichi di implicazioni metafisiche e di innumerevoli analogie con la metafisica islamica[31], il riferimento alla possibilità dell’unione spirituale dell’uomo in Dio è così evidente che forse è passato inosservato, attribuito nei commentari come possibilità inerente solamente al Cristo:

O luce etterna che sola in te sidi,
sola t’intendi, e da te intelletta
e intendente te ami e arridi!
Quella circulazion che sì concetta
Pareva in te come lume reflesso,
da li occhi miei alquanto circunspetta,
dentro da sé, del suo colore stesso,
mi parve pinta de la nostra effige;
per che ‘l mio viso in lei tutto era messo.

Di questo stato, che sopraggiunge nel momento della “realizzazione spirituale”, Meister (maestro!) Eckardt, il grande metafisico tedesco morto nel 1328, parla in modo molto simile nelle sue Prediche:

“l’anima diventa una con Dio, e non unita. Prendete questa similitudine: se si riempie d’acqua una botte, l’acqua è nella botte unita a essa, ma non è una con essa, giacchè dove è l’acqua non è il legno e dove è il legno non è l’acqua. Se gettate un legno in mezzo all’acqua, il legno è unito all’acqua, ma non uno con essa. Così non è per l’anima: essa diviene una con Dio, e non unita, giacchè dove è Dio, là è l’anima, e dove è l’anima, là è Dio.”

mentre Dante descrive la trasformazione che l’anima subisce nella “realizzazione spirituale”, al termine del suo viaggio nel canto XXXIII del Paradiso, con la splendida immagine della neve che si disigilla, si scioglie al sole, cambiando il suo stato in acqua (immagine già utilizzata in Paradiso II, 106), come acqua che si perde nel “mare al qual tutto si move[32], stessa immagine utilizzata in una splendida poesia dello shaykh Ahmad al-‘Alawî, grande maestro di una confraternita molto sviluppata in tutto il mondo, la tarîqa shâdhilyya, morto nel 1934[33]:

O uomini scomparsi nella Presenza di Dio!
Come fiocchi di neve si sono sciolti, per Dio, per Dio[34]

a questo punto, se volessimo, assieme alla maggior parte della critica occidentale, ricercare a tutti i costi un’influenza materiale in tutte le analogie riscontrabili tra le diverse Tradizioni spirituali, dovremmo arrivare alla conclusione che questo maestro algerino conoscesse la Comedia, cosa che è evidentemente impossibile[35], e allora si può citare a questo proposito un’affermazione di Titus Burckhardt, tra l’altro proprio concernente il metodo spirituale del ricordo di Dio citato precedentemente:

l’analogia tra il dhikr musulmano e lo japa-yoga indù, ed anche con i metodi incantatori del cristianesimo esicasta e del buddismo amidico, è molto rilevante; sarebbe tuttavia errato attribuire al dhikr musulmano un’origine non islamica, innanzitutto perché tale ipotesi non è per nulla necessaria, poi perché è smentita dai fatti, ed infine perché le realtà spirituali fondamentali non possono non manifestarsi all’interno di ogni civiltà tradizionale[36]

e con esse quindi anche i simboli utilizzati dai suoi più autorevoli rappresentanti.

Ci sarebbe poi una curiosità molto interessante da rilevare ai fini di questa esposizione: sono numerose, infatti, nel Paradiso, le scene in cui Dante osserva alcune anime di beati, che, per manifestare il loro intenso stato spirituale, cominciano a girare vorticosamente su se stesse:
  
…vidi moversi un altro roteando,
e letizia era ferza del paleo.[37]

…che del suo mezzo fece il lume centro,
girando su sé come veloce mola;[38]

…poi, come turbo, in sù tutto s’avvolse.[39]

… e quelle anime liete
si fero spere sopra fissi poli…[40]

possiamo notare infatti in queste descrizioni una forte analogia con una particolare tecnica spirituale adottata dai cosiddetti mevlevi o dervisci rotanti, la confraternita fondata a Konya, in Turchia, nel XIII secolo, da Jalâl-ud-Dîn Rûmî, uno dei più grandi maestri della storia del tasawwuf, conosciuto soprattutto per le sue poesie e per il suo enorme poema in prosa, il Mathnavî[41]: infatti gli appartenenti alla tarîqa mawlawyya, compiono una danza sacra nella quale ogni partecipante gira vorticosamente su se stesso, secondo certe modalità e sotto il controllo di un maestro, ricreando assieme agli altri un movimento quasi cosmologico; un altro particolare interessante si può desumere sempre da Paradiso XXIV, nel seguito della descrizione:

E come cerchi in tempra d’orioli
Si giran sì, che ‘l primo a chi pon mente
quieto pare, e l’ultimo che voli;
così quelle carole differente-
mente danzando, de la sua ricchezza
mi facìeno stimar, veloci e lente.

dove il paragone delle anime che girano su se stesse agli ingranaggi di un orologio, dei quali il primo, il più grande, che prende moto direttamente dal motore dell’orologio, sembra quasi fermo rispetto agli ingranaggi successivi ai quali esso comunica il movimento, che cresce sempre più in quelli che sono più esterni[42], può fare pensare al fatto che gli affiliati alla Mawlawyya diminuiscono la velocità del loro girare a mano a mano che avanzano nei gradi della Realizzazione Spirituale, fino a che, chi diviene Maestro dell’ordine, al culmine di questa Realizzazione, cessa praticamente il suo movimento, diventando in pratica colui tramite il quale il movimento si trasmette agli altri, un vero e proprio motore immobile, nella sua funzione relativa di qutb, di polo attorno al quale tutti i suoi discepoli girano a livello spirituale.

A conclusione, è significativo citare un passo tratto dai Sermoni di San Bernardo, che sembra in un certo qual senso riassumere in sé alcuni degli argomenti esposti in questo studio:

È stato dunque affermato che a causa del peccato originale, prima dell’avvento del Cristo tutti scendevano nell’Inferno. Ma nello stesso modo, e altrettanto veracemente, si può dire che sia prima che dopo il suo avvento non c’è uomo che non sia disceso all’Inferno prima di salire al Cielo[43]. C’è infatti un triplice Inferno. Uno è l’Inferno della consunzione, dove c’è un verme che non muore mai e un fuoco che non si spegne mai: in questo non c’è alcuna redenzione. Un altro è l’Inferno dell’espiazione, destinato alle anime che devono purificarsi dopo la morte. Un terzo è l’Inferno dell’afflizione, cioè la povertà volontaria, con la quale, rinunciando al mondo, dobbiamo affliggere le nostre anime per poter guarire, così da non passare dalla morte al Giudizio, ma dalla morte alla Vita…Chi dunque non si cura, mentre è ancora in questa vita, di scendere in questo Inferno, scenderà certamente in uno degli altri due, dove troverà a fatica una salvezza o non ne troverà affatto.”[44]

Tratto da: http://www.associazionears.eu
SOTTO IL VELAME, 1993 – 2003 Dieci anni di studi danteschi e tradizionali - IV




[1] Per quanto riguarda il Cristianesimo Ortodosso, le differenze con le Tradizioni orientali sono minori, e l’aggettivo “Orientale” che viene spesso posposto al suo nome ne è una chiara indicazione, anche se la questione è molto complessa e necessiterebbe di uno studio a parte.
[2] Il passo più indicativo in merito, quasi sconcertante nella sua evidenza, è quello in cui gli angeli citano indifferentemente i Vangeli e l’Eneide, in Purgatorio XXX, 21.
[3] Cfr. gli studi di Giovanni Pascoli, Luigi Valli, etc., nei quali si afferma che nelle poesie degli “stilnovisti” può essere rilevato un significato simbolico concernente un cammino di Realizzazione Spirituale (Dante stesso nel Convivio parla di sovrasenso); che Dante fosse affiliato ad un terz’ordine della confraternita dei Templari (i quali, nel processo che portò alla distruzione dell’Ordine, ad opera di Filippo il Bello, furono curiosamente accusati di aver intrattenuto relazioni con alcuni ambienti dell’Islam dell’epoca) e che fosse anche ‘terziario’ dei Francescani e che il nome “Fedeli d’Amore” si riferisse “tecnicamente” al gruppo specifico al quale apparteneva; e nei quali infine si rileva che queste confraternite avevano adottato un linguaggio molto simile a quello dei trovatori provenzali e delle confraternite esoteriche islamiche, queste ultime presenti anche in alcune parti dell’Europa come la Spagna, la Provenza, la Sicilia durante il periodo della grande espansione dell’impero islamico, fino al XII secolo.
[4] a questo proposito Asín Palacios riporta nel suo “Storia e critica di una polemica” una frase del dantista Bruno Nardi, tratta da un suo articolo per il “Giornale Dantesco” del 1923: “alcuni certissimi influssi culturali non si è scoperto ancora oggi per quale via si realizzassero”.
[5] Boccaccio riporta nella sua “Vita di Dante”che, ad esempio a proposito del De monarchia, “questo libro più anni dopo la morte dell’autore fu dannato da messer Beltrando cardinale del Poggetto…..il detto cardinale, non essendo a chi ciò s’opponesse, avuto il soprascritto libro, quello in pubblico, sì come cose eretiche contenente, dannò al fuoco. E il simigliante si sforzava di fare dell’ossa dell’autore a eterna infamia e confusione della sua memoria, se a ciò non si fosse opposto uno valoroso e nobile cavaliere fiorentino, il cui nome fu Pino della Tosa”.
[6] Nell’introduzione del libro di Asín Palacios, i traduttori affermano che il libro dello studioso spagnolo ha trovato nel mondo arabo un’accoglienza quasi trionfale: ad esempio, in “L’influenza della cultura islamica sulla Divina Commedia di Dante” di Salah Fadl, pubblicato al Cairo nel 1980,  l’autore scrive “Dante è un autentico Sûfî, o per lo meno ragiona e si comporta come tale”.
[7] In realtà anche le dottrine orientali differenziano le influenze che si possono esercitare sulla persona che segue un cammino di Realizzazione Spirituale, alcune delle quali non vengono necessariamente trasmesse tramite uno stato umano, ma questo è un discorso che dovrebbe essere sviluppato a parte, per la sua complessità.
[8] Al-Ghazâlî, Lettera al discepolo - Edizioni Sellerio, Palermo
[9] Purgatorio, XI,10
[10] Purgatorio IV, 33
[11] Purgatorio XII, 108
[12] Cfr. As-Sulamî, I custodi del segreto - Edizioni Luni, Milano. La descrizione del personaggio di Pier Pettinaio, che compare in Purgatorio XIII, 128, riportata dal Sapegno nel suo commento alla Comedia, è estremamente interessante in questo senso: “Visse in Siena, dove teneva bottega di pettini; fu terziario francescano e morì nel dicembre del 1289 in fama di santità. Si narrano molti aneddoti della sua straordinaria onestà, delle sue astinenze, di miracoli e rivelazioni a lui attribuiti.”: infatti essa è incredibilmente simile alle descrizioni che la Tradizione islamica tramanda a proposito dei malâmatyya, i più importanti tra i quali vengono ancora ricordati con associata al loro nome la menzione del mestiere che svolgevano, sempre molto umile; sarebbe interessante approfondire queste analogie, soprattutto alla luce dell’articolo di René Guénon, Il travestimento «popolare», in Iniziazione e Realizzazione Spirituale, Edizioni Luni, Milano
[13]chi non accoglie dentro di sé il regno di Dio come un bambino, non vi entrerà” Luca, 18, 17; “hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e le hai rivelate ai semplici e ai piccini” Matteo, 11, 25; Luca, 10, 21
[14] Plurale di faqîr, dal quale l’italiano fachiro, che però ne stravolge il senso reale,  stessa cosa che accade ad esempio per i termini califfo (da khalîfa, luogotenente del Profeta) o sceicco (da shaikh, letteralmente anziano, ma molto utilizzata nella sua accezione di maestro spirituale), retaggio questo di una conoscenza alquanto sommaria ed “estetizzante” del mondo islamico.
[15] Cfr. l’articolo El-faqr  di Rene Guenon,  in Considerazioni sull’esoterismo islamico e il Taoismo, Edizioni Adelphi, Milano
[16] Paradiso XXI 13-42
[17] Paradiso, XVIII, 52-54
[18] Paradiso, XXII, 25-27; si può notare un’analogia con la hîbâ, il “timore reverenziale” che il vero discepolo prova di fronte alla manifestazione del  jalal, la “maestà”, nel suo maestro.
[19] Paradiso XXII, 40-45.
[20] Gregorio Magno, Dial. Mirac., II,2.
[21] Purgatorio XIII, 76-78.
[22] Purgatorio XVIII 7-9
[23] Nel canto successivo Beatrice spiegherà a Dante che tutti i beati hanno questo potere.
[24] Immagine, tra l’altro, della quale Asín Palacios ci mostra un precedente analogo in un passaggio del famoso racconto, tramandato dalla Tradizione islamica, del mi’rag, il viaggio notturno del Profeta Muhammad scortato dall’arcangelo Gabriele dall’Inferno fino alla contemplazione diretta di Dio, che egli afferma abbia ispirato gran parte della Comedia (crf. Dante e l’Islam, Edizioni Est, Milano, pag 71)
[25] Particolare che può far pensare che l’interpretazione di questa donna con Beatrice non sembri essere molto lontana dalla realtà.
[26] “Gli uomini di piacere che dimorano nel mondo, hanno qui il loro Inferno”, anche se non se ne accorgono “perché dormono, ubriachi come sono di quel vino che è l’amore letale per il mondo” San Bernardo, Sermoni VariOpere di San Bernardo, IV, Edizioni Città Nuova
[27] In ebraico Shatan significa esattamente avversario.
[28] Paradiso III, 85-87
[29] Paradiso II, 41-42
[30] Purgatorio XVII, 109-110
[31] In questo studio sono stati tralasciati tutti i riferimenti puramente metafisici dei quali abbonda la Comedia, e che hanno appunto fortissime analogie con la metafisica islamica, data la profondità e la complessità del raffronto che bisognerebbe intraprendere.
[32] Nota 25
[33] Cfr. Un santo sufi del XX° secolo, Martin Lings, Edizioni Mediterranee, Roma
[34] Shaikh Ahmad al-‘Alawî, Diwan;
[35] La prima traduzione, in prosa, della Comedia in lingua araba risale agli anni ’30, durante l’occupazione della Libia da parte dell’Italia, ma non ebbe una grande diffusione, essendo più che altro un atto “simbolico” del governo italiano, mentre la prima vera traduzione, in versi questa volta, è stata da poco presentata nel mondo arabo.
[36] Introduzione alle dottrine esoteriche dell’Islam, Edizioni Mediterranee, Roma
[37] Paradiso, XVIII, 41-42; il paleo è una trottola per bambini, che si percuote con la ferza, la frusta.
[38] Paradiso, XXI, 80-81; girando quindi attorno al proprio baricentro.
[39] Paradiso, XXII, 99 dove turbo sta chiaramente per turbine.
[40] Paradiso, XXIV, 10-11 girarono come sfere attorno al proprio polo.
[41] Parzialmente tradotto in italiano con il titolo Il canto dello spirito, Edizioni Mimesis, Milano
[42] Nell’interpretazione di questo passaggio, i commentari tendono  a concedere più grandezza spirituale secondo la maggiore velocità di un’anima, anche se Dante non lo afferma esplicitamente, ma sembrerebbe che il paragone con gli ingranaggi debba proprio fare pensare al contrario, avendo in mente inoltre che, quando Dante descrive i cerchi angelici, in Paradiso XXVIII, afferma che il cerchio più vicino a Dio è quello che gira più velocemente attorno ad esso, ma dice anche che questo avviene solo in quel caso, mentre nei cieli, (e quindi anche sulla terra), avviene esattamente il contrario, e quindi le anime più vicine a Dio saranno quelle che si muovono più lentamente.
[43] In questo punto San Bernardo sembra dirci, in modo molto poco “exotericamente ortodosso”, che anche prima dell’avvento del Cristo gli uomini avevano la possibilità di giungere in Paradiso, quindi alla “realizzazione spirituale”. 
[44] Nota 25

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