"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

venerdì 27 giugno 2014

René Guénon, Iniziazione e realizzazione spirituale - XII - A proposito di «conversioni»

René Guénon
Iniziazione e realizzazione spirituale 

XII - A proposito di «conversioni»

La parola «conversione» può essere intesa in due sensi totalmente diversi: il suo significato originale corrisponde al termine greco metanoia, che indica propriamente un cambiamento di nous cioè, come dice A. K. Coomaraswamy, una «metamorfosi intellettuale».
Questa trasformazione interiore, com’è indicato d’altronde dalla stessa etimologia della parola latina (da cum-vertere) implica ad un tempo una «riunione» od una concentrazione delle potenze dell’essere, nonché una specie di «rovesciamento» mediante il quale quest’essere passa «dal pensiero umano alla comprensione divina».
La metanoia, o la «conversione», è dunque il passaggio cosciente dal «mentale», inteso nel senso ordinario e individuale che gli è proprio, e cioè considerato come rivolto alle cose sensibili, a ciò che ne rappresenta la trasposizione in un senso superiore in cui si identifica all’hêgemôn di Platone o all’antaryâmî della tradizione indù. È evidente che, nella fattispecie, si tratta di una fase necessaria in qualsiasi processo di sviluppo spirituale; ed è dunque, teniamo ad insistervi, un fatto d’ordine puramente interiore che non ha assolutamente nulla in comune con un qualunque cambiamento esteriore e contingente derivante semplicemente dal dominio «morale», come troppo sovente si tende a credere al giorno d’oggi (e, in questo senso, si arriva perfino a tradurre metanoia con «pentimento»), oppure da quello religioso e più generalmente exoterico[1].
Al contrario, il significato comune della parola «conversione», quello che è venuto assumendo nel linguaggio corrente, e che ci accingiamo ad esaminare dopo che con la precedente spiegazione abbiamo cercato di evitare possibili confusioni, questo secondo significato, dicevamo, definisce unicamente il passaggio esteriore da una forma tradizionale ad un’altra, quali che siano le ragioni che hanno potuto determinarlo, ragioni spessissimo del tutto contingenti e talora completamente prive d’importanza, le quali, in ogni caso, non hanno niente a che fare con la vera spiritualità. Benché, senza dubbio, possano esserci talora conversioni più o meno spontanee, almeno in apparenza, esse sono di solito una conseguenza del «proselitismo» religioso, per cui va da sé che le obbiezioni che si possono formulare nei riguardi di questo ultimo sono ugualmente applicabili ai suoi risultati; in definitiva «colui che converte» e «colui che si fa convertire» danno prova di un’identica incomprensione del senso profondo delle loro tradizioni, e i loro rispettivi atteggiamenti dimostrano in modo lampante che il loro orizzonte intellettuale è limitato all’exoterismo più esclusivo[2]. Ma a parte questa ragione di principio, dobbiamo dire che esistono anche altri motivi, per i quali apprezziamo assai poco i «convertiti» in generale, non perché si debba a priori mettere in dubbio la loro sincerità (non vogliamo neppure considerare il caso, anche troppo frequente, di gente mossa soltanto da bassi interessi materiali o sentimentali: si tratterebbe allora di «pseudo convertiti»), ma prima di tutto perché, come minimo, danno prova di un’instabilità mentale piuttosto preoccupante, e poi perché quasi sempre tendono a manifestare il «settarismo» più ristretto ed esagerato, sia per effetto del loro stesso temperamento, che spinge alcuni di loro a passare con sconcertante facilità da un estremo all’altro, sia per sviare i sospetti di cui credono essere oggetto nel loro nuovo ambiente. In fondo si può dire che i «convertiti» sono poco interessanti, almeno per chi consideri le cose fuori da ogni partito preso d’esclusivismo exoterico e non abbia alcun interesse per lo studio di certe «curiosità» psicologiche; per quanto ci riguarda preferiamo certamente non aver troppo a che fare con loro.
Ciò detto, è opportuno segnalare (ed è soprattutto questo che avevamo in vista) che talora si parla di «conversioni» molto a sproposito, e in casi in cui questo termine, inteso nel senso che abbiamo precisato e che corrisponde alla sua più comune accezione, è assolutamente inapplicabile. Intendiamo riferirci a coloro i quali, per ragioni d’ordine esoterico od iniziatico, sono indotti ad adottare una forma tradizionale diversa da quella a cui per nascita potevano essere ricollegati, sia perché questa non dava loro possibilità di tal genere, sia soltanto perché l’altra, anche sul piano exoterico, forniva invece una base più appropriata alla loro natura, e dunque più favorevole al loro lavoro spirituale. Questo, per chi si ponga dal punto di vista esoterico, è un diritto assoluto contro cui nulla possono tutti gli argomenti degli exoteristi, in quanto si tratta di un caso che, per definizione, è completamente fuori dalla loro competenza. Contrariamente a quanto si verifica per una «conversione», non vi è nulla che in questo caso implichi il riconoscimento di una superiorità intrinseca di una forma tradizionale su di un’altra, ma unicamente ciò che potrebbe definirsi una ragione di convenienza spirituale, cosa ben diversa da una semplice «preferenza» individuale, e nei confronti della quale tutte le considerazioni esteriori sono perfettamente insignificanti. È sottinteso d’altronde, che per agire in questo senso in modo legittimo, ed ammesso che, come abbiamo supposto, esista realmente la capacità di porsi dal punto di vista esoterico, bisogna aver coscienza, almeno in virtù di una conoscenza teorica, anche se non effettivamente realizzata, dell’unità essenziale di tutte le tradizioni; per chi si trovi in queste condizioni tutto ciò basta evidentemente, per quel che lo riguarda, a giudicare una «conversione» come cosa del tutto priva di senso e addirittura inconcepibile. Se ora ci si chiedesse perché esistono casi simili, risponderemmo che ciò è soprattutto dovuto alle condizioni dell’epoca attuale in cui, da una parte certe tradizioni sono di fatto divenute incomplete «dall’alto», cioè sotto l’aspetto esoterico (aspetto che viene talvolta perfino negato più o meno formalmente dai loro rappresentanti «ufficiali»), e dall’altra è molto facile che un essere nasca in un ambiente che non è in armonia con la sua natura, e non è dunque tale da convenirgli realmente e da permettere alle sue possibilità di svilupparsi in modo normale soprattutto in campo intellettuale e spirituale; è certamente spiacevole sotto molti aspetti che le cose stiano a questo modo, ma si tratta purtroppo di inconvenienti inevitabili nella presente fase del Kali-Yuga.
Oltre al caso di chi «si stabilisce» in una determinata forma tradizionale perché essa gli mette a disposizione i mezzi più adeguati per il lavoro interiore ch’egli deve ancora compiere, ve n’è un altro su cui vogliamo parimenti spendere qualche parola: è il caso di quegli uomini che, giunti ad un alto grado di sviluppo spirituale, possono adottare esteriormente tale o tal altra forma tradizionale, secondo le circostanze, e per ragioni che necessariamente sfuggono alla comprensione degli uomini ordinari. Essi, per lo stato spirituale che hanno raggiunto, sono al di là di tutte le forme, e non si tratta quindi per loro che di apparenze esteriori che non possono minimamente influenzare o modificare la loro realtà intima; non solo essi hanno compreso, come coloro di cui parlavamo poco fa, ma pienamente realizzato nel suo stesso principio, l’unità fondamentale di tutte le tradizioni. In tal caso sarebbe ancor più assurdo parlare di «conversioni», e tuttavia ciò non toglie che abbiamo visto scrivere seriamente da qualcuno che Shrî Râmakrishna, per esempio, si era «convertito» all’Islâm in un certo periodo della sua vita, ed al Cristianesimo in un altro; niente può esser più ridicolo di simili asserzioni, che danno una ben triste idea della mentalità dei loro autori. Nel caso di Shrî Râmakrishna, in realtà, si trattava soltanto di «verificare» in qualche modo, per esperienza diretta, la validità delle diverse «vie» rappresentate dalle tradizioni alle quali si assimilò temporaneamente; che cosa, nel caso specifico, può far anche lontanamente pensare ad una «conversione»?
In linea generale si può dire che chiunque abbia coscienza dell’unità delle tradizioni, sia per semplice comprensione teorica, sia ed a maggior ragione per realizzazione effettiva, è necessariamente, e per questo solo fatto, «inconvertibile» a checchessia; egli è anzi il solo che lo sia veramente, poiché gli altri potranno sempre, a questo riguardo, essere più o meno alla mercé di circostanze contingenti. Non si denuncerà mai abbastanza energicamente l’equivoco che induce certuni a parlare di «conversioni» quando di esse non v’è la minima traccia: è necessario tagliar corto alle troppe sciocchezze di questo genere che circolano nel mondo profano, sotto le quali, molto spesso, non è difficile indovinare intenzioni nettamente ostili a tutto quanto deriva dall’esoterismo.



[1] Su questo soggetto vedere A. K. Coomaraswamy, On Being in One’s Right Mind (Review of Religion, n. del novembre 1942). 
[2] In fondo v’è una sola conversione veramente legittima in linea di principio, quella che consiste nell’adesione ad una tradizione, qualunque essa sia d’altronde, da parte di qualcuno precedentemente sprovvisto di qualsiasi riallacciamento tradizionale.

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