René Guénon
Iniziazione e realizzazione spirituale
XI - Il sacro ed il profano
Spesse volte abbiamo spiegato che, in una civiltà integralmente tradizionale, qualsiasi attività umana possiede un carattere che si può dire sacro, in quanto, per definizione, la tradizione non lascia niente fuori del proprio dominio; le sue applicazioni si estendono a tutte le cose senza eccezione, di modo che nessuna può essere considerata indifferente ed insignificante nei suoi confronti, e la partecipazione dell’uomo alla tradizione, qualunque cosa egli faccia, è costantemente assicurata dai suoi stessi atti.
Il fatto che a un certo momento alcune cose sfuggano al punto di vista tradizionale, o vengano considerate come profane, che è poi la stessa cosa, è un segno evidente del prodursi di un processo di degenerazione, il quale si accompagna ad un affievolirsi e come ad uno sminuirsi della tradizione; e una decadenza del genere, nella storia dell’umanità, è naturalmente legata al procedere della marcia discendente del ciclo. Questa può evidentemente presentare una quantità di fasi diverse, ma in generale si può dire che, attualmente, pure quelle civiltà che hanno mantenuto un carattere più strettamente tradizionale, accolgano nel loro ambito un aspetto profano, in misura più o meno importante, a titolo di concessione forzata alla mentalità determinata dalle condizioni stesse dell’epoca. Questo peraltro non significa che una tradizione debba riconoscere legittimo il punto di vista profano, poiché ciò equivarrebbe a negare se stessa almeno in parte ed in proporzione all’estensione ad esso accordata; pur attraverso ogni successivo adattamento, la tradizione non può che affermare di diritto, se non di fatto, che il suo punto di vista è realmente valido per tutte le cose, e che la sua sfera d’applicazione le comprende tutte in ugual misura.
V’è d’altronde una sola civiltà, quella Occidentale, che,
nel suo spirito essenzialmente antitradizionale, ha la pretesa di sostenere la
legittimità dell’aspetto profano, e che per di più considera come un progresso
il comprendervi una parte sempre maggiore dell’attività umana, sicché al
limite, per lo spirito moderno integrale, tutto finisce per essere profano, e
tutti gli sforzi tendono in definitiva alla negazione o all’esclusione del
sacro. Si ha cioè un’inversione di rapporti: una forma tradizionale, anche in
declino, non può che tollerare come un male inevitabile l’esistenza del punto
di vista profano, e cerca altresì di limitarne il più possibile le conseguenze;
nella civiltà moderna, invece, è il sacro che viene tollerato a mala pena
nell’impossibilità di farlo sparire del tutto in un colpo solo, ma in attesa di
realizzare completamente questo «ideale», gli si concede una parte vieppiù
ridotta, mentre si cerca accuratamente di isolarlo da tutto il resto mediante
un’insormontabile barriera.
Il passaggio dall’una all’altra di queste opposte tendenze,
implica la convinzione che esista non soltanto un punto di vista profano, ma un
dominio profano, cioè che certe cose siano profane in se stesse e per loro
natura, invece di esser tali, com’è in realtà, soltanto per effetto di una
certa mentalità. Affermare che un dominio profano esiste, ossia trasformare
indebitamente una semplice condizione di fatto in una condizione di diritto, è
dunque, se così si può dire, uno dei postulati fondamentali dello spirito
antitradizionale, poiché è solo inculcando preventivamente questa falsa
concezione nella generalità degli uomini che esso può sperare di ottenere
gradualmente il proprio scopo, cioè la sparizione del sacro o, in altri
termini, l’eliminazione della tradizione financo nelle sue ultime vestigia. Non
c’è che da guardarsi attorno per constatare fino a che punto lo spirito moderno
è riuscito nell’impresa che si è prefissa, poiché anche gli uomini che si
reputano «religiosi», coloro cioè per cui più o meno coscientemente sussiste
ancora qualcosa dello spirito tradizionale, considerano pur tuttavia la
religione come una cosa che occupa fra le altre un posto a parte, per di più
ristretto, tale cioè da non esercitare alcun’influenza effettiva sul resto
della loro esistenza, nel corso della quale pensano ed agiscono esattamente
come i loro contemporanei più completamente irreligiosi. Ma il fatto più grave
è che questi uomini non si comportano così soltanto perché costretti
dall’ambiente in cui vivono, e cioè perché si trovano in una situazione di
fatto alla quale, pur deplorandola, non sono in grado di sottrarsi: ciò sarebbe
ancora ammissibile, in quanto da nessuno si può esigere il coraggio necessario
per reagire apertamente contro le tendenze dominanti nella sua epoca, dati i
pericoli cui andrebbe incontro. Al contrario, anch’essi, come tutti gli altri,
sono talmente dominati dallo spirito moderno, che considerano perfettamente
legittima la separazione tra sacro e profano, e nello stato di cose proprio
delle civiltà tradizionali e normali, non vedono se non una confusione fra due
domini differenti, confusione che, secondo loro, è stata «superata» e
vantaggiosamente dissipata dal «progresso»!
Ma c’è di più: un atteggiamento del genere, già
difficilmente concepibile da parte di chiunque dica o creda d’essere
sinceramente religioso, non è più soltanto caratteristico dei «laici», per i
quali a rigore si potrebbe attribuirlo ad un’ignoranza fino ad un certo punto
scusabile. Questo stesso atteggiamento sembra ora aver conquistato un numero
vieppiù crescente di ecclesiastici, i quali paiono non comprendere quanto esso
sia opposto alla tradizione, e specifichiamo tradizione in generale, riferendoci
quindi sia a quella di cui essi sono i rappresentanti, come pure a qualunque
altra forma tradizionale; e ci è stato segnalato che alcuni di loro giungono
perfino a rimproverare alle civiltà orientali quella penetrazione spirituale,
tutt’ora presente nella vita sociale, in cui vedono una delle principali cause
della pretesa inferiorità di queste di fronte alla civiltà occidentale! Si può
d’altronde constatare una strana contraddizione: gli ecclesiastici più
influenzati dalle tendenze moderne si mostrano generalmente molto più
preoccupati d’azione sociale che non di dottrina; ma dal momento che approvano
ed accettano la «laicizzazione» della società perché mai intervengono in questo
dominio? Non certo per tentare, come sarebbe legittimo ed auspicabile, di reintrodurvi
un po’ di spirito tradizionale, dal momento che ritengono che esso deve
rimanere completamente estraneo alle attività di questo genere; tale intervento
è quindi del tutto incomprensibile, a meno di ammettere che nella loro
mentalità ci sia qualcosa di profondamente illogico,
il che d’altronde è incontestabilmente il caso di molti dei
nostri contemporanei. Comunque sia, è evidente in tutto ciò un sintomo dei più
inquietanti: quando dei rappresentanti autentici di una tradizione sono giunti
al punto che il loro modo di pensare non differisce più sensibilmente da quello
dei suoi avversari, ci si può chiedere quale grado di vitalità abbia ancora
questa tradizione nelle sue attuali condizioni; e poiché la tradizione di cui
si tratta è quella del mondo occidentale, quali speranze di ritorno alla
normalità possono ancora esservi per esso, finché ci si limita al dominio
exoterico e non si prende in esame alcun’altro ordine di possibilità?
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