"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

mercoledì 25 giugno 2014

René Guénon, Iniziazione e realizzazione spirituale - XI - Il sacro ed il profano

René Guénon 
Iniziazione e realizzazione spirituale 

XI - Il sacro ed il profano 

Spesse volte abbiamo spiegato che, in una civiltà integralmente tradizionale, qualsiasi attività umana possiede un carattere che si può dire sacro, in quanto, per definizione, la tradizione non lascia niente fuori del proprio dominio; le sue applicazioni si estendono a tutte le cose senza eccezione, di modo che nessuna può essere considerata indifferente ed insignificante nei suoi confronti, e la partecipazione dell’uomo alla tradizione, qualunque cosa egli faccia, è costantemente assicurata dai suoi stessi atti.
Il fatto che a un certo momento alcune cose sfuggano al punto di vista tradizionale, o vengano considerate come profane, che è poi la stessa cosa, è un segno evidente del prodursi di un processo di degenerazione, il quale si accompagna ad un affievolirsi e come ad uno sminuirsi della tradizione; e una decadenza del genere, nella storia dell’umanità, è naturalmente legata al procedere della marcia discendente del ciclo. Questa può evidentemente presentare una quantità di fasi diverse, ma in generale si può dire che, attualmente, pure quelle civiltà che hanno mantenuto un carattere più strettamente tradizionale, accolgano nel loro ambito un aspetto profano, in misura più o meno importante, a titolo di concessione forzata alla mentalità determinata dalle condizioni stesse dell’epoca. Questo peraltro non significa che una tradizione debba riconoscere legittimo il punto di vista profano, poiché ciò equivarrebbe a negare se stessa almeno in parte ed in proporzione all’estensione ad esso accordata; pur attraverso ogni successivo adattamento, la tradizione non può che affermare di diritto, se non di fatto, che il suo punto di vista è realmente valido per tutte le cose, e che la sua sfera d’applicazione le comprende tutte in ugual misura.
V’è d’altronde una sola civiltà, quella Occidentale, che, nel suo spirito essenzialmente antitradizionale, ha la pretesa di sostenere la legittimità dell’aspetto profano, e che per di più considera come un progresso il comprendervi una parte sempre maggiore dell’attività umana, sicché al limite, per lo spirito moderno integrale, tutto finisce per essere profano, e tutti gli sforzi tendono in definitiva alla negazione o all’esclusione del sacro. Si ha cioè un’inversione di rapporti: una forma tradizionale, anche in declino, non può che tollerare come un male inevitabile l’esistenza del punto di vista profano, e cerca altresì di limitarne il più possibile le conseguenze; nella civiltà moderna, invece, è il sacro che viene tollerato a mala pena nell’impossibilità di farlo sparire del tutto in un colpo solo, ma in attesa di realizzare completamente questo «ideale», gli si concede una parte vieppiù ridotta, mentre si cerca accuratamente di isolarlo da tutto il resto mediante un’insormontabile barriera.
Il passaggio dall’una all’altra di queste opposte tendenze, implica la convinzione che esista non soltanto un punto di vista profano, ma un dominio profano, cioè che certe cose siano profane in se stesse e per loro natura, invece di esser tali, com’è in realtà, soltanto per effetto di una certa mentalità. Affermare che un dominio profano esiste, ossia trasformare indebitamente una semplice condizione di fatto in una condizione di diritto, è dunque, se così si può dire, uno dei postulati fondamentali dello spirito antitradizionale, poiché è solo inculcando preventivamente questa falsa concezione nella generalità degli uomini che esso può sperare di ottenere gradualmente il proprio scopo, cioè la sparizione del sacro o, in altri termini, l’eliminazione della tradizione financo nelle sue ultime vestigia. Non c’è che da guardarsi attorno per constatare fino a che punto lo spirito moderno è riuscito nell’impresa che si è prefissa, poiché anche gli uomini che si reputano «religiosi», coloro cioè per cui più o meno coscientemente sussiste ancora qualcosa dello spirito tradizionale, considerano pur tuttavia la religione come una cosa che occupa fra le altre un posto a parte, per di più ristretto, tale cioè da non esercitare alcun’influenza effettiva sul resto della loro esistenza, nel corso della quale pensano ed agiscono esattamente come i loro contemporanei più completamente irreligiosi. Ma il fatto più grave è che questi uomini non si comportano così soltanto perché costretti dall’ambiente in cui vivono, e cioè perché si trovano in una situazione di fatto alla quale, pur deplorandola, non sono in grado di sottrarsi: ciò sarebbe ancora ammissibile, in quanto da nessuno si può esigere il coraggio necessario per reagire apertamente contro le tendenze dominanti nella sua epoca, dati i pericoli cui andrebbe incontro. Al contrario, anch’essi, come tutti gli altri, sono talmente dominati dallo spirito moderno, che considerano perfettamente legittima la separazione tra sacro e profano, e nello stato di cose proprio delle civiltà tradizionali e normali, non vedono se non una confusione fra due domini differenti, confusione che, secondo loro, è stata «superata» e vantaggiosamente dissipata dal «progresso»!
Ma c’è di più: un atteggiamento del genere, già difficilmente concepibile da parte di chiunque dica o creda d’essere sinceramente religioso, non è più soltanto caratteristico dei «laici», per i quali a rigore si potrebbe attribuirlo ad un’ignoranza fino ad un certo punto scusabile. Questo stesso atteggiamento sembra ora aver conquistato un numero vieppiù crescente di ecclesiastici, i quali paiono non comprendere quanto esso sia opposto alla tradizione, e specifichiamo tradizione in generale, riferendoci quindi sia a quella di cui essi sono i rappresentanti, come pure a qualunque altra forma tradizionale; e ci è stato segnalato che alcuni di loro giungono perfino a rimproverare alle civiltà orientali quella penetrazione spirituale, tutt’ora presente nella vita sociale, in cui vedono una delle principali cause della pretesa inferiorità di queste di fronte alla civiltà occidentale! Si può d’altronde constatare una strana contraddizione: gli ecclesiastici più influenzati dalle tendenze moderne si mostrano generalmente molto più preoccupati d’azione sociale che non di dottrina; ma dal momento che approvano ed accettano la «laicizzazione» della società perché mai intervengono in questo dominio? Non certo per tentare, come sarebbe legittimo ed auspicabile, di reintrodurvi un po’ di spirito tradizionale, dal momento che ritengono che esso deve rimanere completamente estraneo alle attività di questo genere; tale intervento è quindi del tutto incomprensibile, a meno di ammettere che nella loro mentalità ci sia qualcosa di profondamente illogico,
il che d’altronde è incontestabilmente il caso di molti dei nostri contemporanei. Comunque sia, è evidente in tutto ciò un sintomo dei più inquietanti: quando dei rappresentanti autentici di una tradizione sono giunti al punto che il loro modo di pensare non differisce più sensibilmente da quello dei suoi avversari, ci si può chiedere quale grado di vitalità abbia ancora questa tradizione nelle sue attuali condizioni; e poiché la tradizione di cui si tratta è quella del mondo occidentale, quali speranze di ritorno alla normalità possono ancora esservi per esso, finché ci si limita al dominio exoterico e non si prende in esame alcun’altro ordine di possibilità?

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