"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

sabato 7 giugno 2014

René Guénon, Iniziazione e realizzazione spirituale - II - Metafisica e dialettica

René Guénon
Iniziazione e realizzazione spirituale 

II - Metafisica e dialettica

Abbiamo letto recentemente un articolo che ci è sembrato meritevole, da parte nostra, di un certo interesse, per la presenza di errori la cui evidenza è indice di un’incomprensione assai profonda[1].
Senza dubbio si può sorridere nel leggere che coloro i quali hanno «qualche esperienza della conoscenza metafisica» (fra i quali l’autore manifestamente pone se stesso, escludendo noi con rimarchevole audacia, come se gli fosse possibile saperne qualcosa!) troveranno nella nostra opera soltanto «distinzioni concettuali singolarmente precise», ma «di tipo puramente dialettico», e «rappresentazioni che possono essere utili in via preliminare, ma che dal punto di vista pratico e metodologico non fanno avanzare di un passo al di là del mondo delle parole verso l’universale».
I nostri contemporanei, tuttavia, sono talmente abituati a fermarsi alle apparenze esteriori, da farci veramente temere la possibilità di un simile errore; quando lo si vede effettivamente commettere anche nei confronti di autorità in campo tradizionale come Shankarâchârya, non c’è da stupirsi che, a maggior ragione, ciò avvenga nei nostri riguardi, e che si scambi così la «scorza» con il «nocciolo». Comunque sia, vorremmo proprio sapere come una verità di qualsiasi ordine potrebbe esprimersi altro che con le parole (a parte il caso di figurazioni puramente simboliche, che qui sono fuori causa), e nella forma «dialettica», e cioè discorsiva, che le necessità stesse del linguaggio umano impongono, e anche come, in vista di una cosa del genere, un’esposizione verbale qualsiasi, sia scritta che orale, possa essere utilizzata se non in via «preliminare»; e peraltro ci pare di avere abbastanza insistito sul carattere essenzialmente preparatorio di una conoscenza teorica (la sola evidentemente che si possa raggiungere con lo studio di un’esposizione del genere), il che non esclude che a questo titolo, ed entro questi limiti, essa sia rigorosamente indispensabile a tutti quelli che in seguito vorranno andar oltre. Aggiungiamo subito, a scanso di equivoci, che contrariamente a quanto vien detto a proposito di un passaggio del nostro Considerazioni sulla via iniziatica, non abbiamo mai inteso esprimere alcunché della «nostra esperienza interiore», che come tale riguarda solo noi e non può interessare nessuno, come del resto dev’essere dell’«esperienza interiore» di chiunque, di per sé sempre strettamente incomunicabile.
L’autore sembra non comprendere molto bene il significato che ha per noi il termine stesso di «metafisica», ed ancor meno il nostro modo d’intendere l’«intellettualità pura», alla quale si direbbe voglia negare ogni carattere di «trascendenza», ciò che implica una banale confusione fra intelletto e ragione, e può spiegare l’errore commesso circa la funzione della «dialettica» nei nostri scritti (e possiamo anche dire in qualunque scritto che si riferisca allo stesso dominio). È facilissimo accorgersene quando afferma che «il significato ultimo della nostra opera», di cui parla con una sicurezza che la sua incomprensione non giustifica molto, risiede in «una trasparenza mentale non riconosciuta come tale, e con dei limiti ancora “umani” che entrano in funzione quando scambiamo questa trasparenza per l’iniziazione effettiva». Di fronte ad asserzioni del genere, ci tocca ripetere una volta di più, e quanto mai recisamente, che non esiste alcuna differenza fra la conoscenza intellettuale pura e trascendente (che come tale, all’opposto della conoscenza razionale, non ha niente di «mentale» né di «umano»), ovvero la conoscenza metafisica effettiva (cioè non soltanto teorica) e la realizzazione iniziatica, come d’altronde non ne esiste fra l’intellettualità pura e la vera spiritualità.
Di conseguenza si capisce perché l’autore ha ritenuto di dover parlare, ed anche con insistenza, del nostro «pensiero», e cioè di qualcosa che a rigore dovrebbe essere considerato come inesistente, o almeno non contare niente per quanto riguarda la nostra opera, che non è frutto di un «pensiero», ma è esclusivamente un’esposizione di dati tradizionali, in cui di nostro vi è soltanto l’espressione; questi stessi dati, a loro volta, non derivano affatto da un «pensiero», poiché il loro carattere tradizionale implica essenzialmente un’origine sopraindividuale e «non umana». Il suo errore appare ancor più evidente, dove egli dichiara che noi abbiamo «raggiunto mentalmente» l’idea dell’Infinito, cosa del resto impossibile; per la verità non l’abbiamo affatto «raggiunta», né mentalmente né in altri modi, perché quest’idea (e tale parola non può essere impiegata in un caso simile se non a condizione di liberarla dall’accezione unicamente «psicologica» che le viene attualmente attribuita) non si può afferrare altro che in modo diretto, con un’intuizione immediata, la quale, diciamolo ancora una volta, appartiene al dominio dell’intellettualità pura; tutto il resto non è che un insieme di mezzi destinati a preparare a questa intuizione coloro che ne sono capaci, essendo evidente che fino a quando ci si limiterà a «pensare» utilizzando questi mezzi, nessun risultato effettivo sarà possibile, proprio come chi ragiona o riflette su quanto comunemente si è convenuto di chiamare le «prove dell’esistenza di Dio» non perviene alla conoscenza effettiva della Divinità. Quel che teniamo a far sapere, è che i «concetti» in se stessi, e soprattutto le «astrazioni», non ci interessano proprio per niente (come non interessano tutti coloro i quali intendono porsi da un punto di vista strettamente ed integralmente tradizionale), e che lasciamo volentieri tutte queste elucubrazioni mentali a filosofi e ad altri «pensatori»[2]. Solo, dovendo esporre cose che in realtà sono di tutt’altro ordine, e per di più in una lingua occidentale, non vediamo proprio come si potrebbe evitare di impiegare parole, la maggior parte delle quali non esprimono normalmente che semplici concetti, dal momento che non se ne hanno altre a disposizione[3]; se certuni sono incapaci di capire la trasposizione che bisogna effettuare in simili casi per penetrare il «senso ultimo», noi disgraziatamente non possiamo farci niente. Quanto a voler scoprire nella nostra opera dei segni caratteristici del «limite della nostra conoscenza», non val neanche la pena di prendere in considerazione un’obbiezione del genere, perché, a parte il fatto che non è di «noi» che si tratta, dal momento che la nostra esposizione è rigorosamente impersonale, avendo come argomento verità d’ordine tradizionale (e se non siamo sempre riusciti a rendere perfettamente evidente questo carattere, la cosa è esclusivamente imputabile alle difficoltà dell’espressione)[4], tale obbiezione, dicevamo, ci ricorda il caso di coloro i quali pensano che tutto ciò di cui volutamente non si è parlato ci sia ignoto od incompreso. Quanto alla «dialettica esoterista», l’unico modo di dare un senso accettabile a quest’espressione è di intenderla come una dialettica al servizio dell’esoterismo, come mezzo esteriore utilizzato per comunicare ciò che è suscettibile di essere trasmesso verbalmente, ma sempre con la riserva che un’espressione del genere è per forza di cose inadeguata, soprattutto quando riguarda l’ordine della metafisica pura, per il fatto stesso di essere formulata in termini umani. La dialettica, in definitiva, non è altro che la messa in opera o l’applicazione pratica della logica[5]; ora è evidente che, qualunque cosa si voglia dire, bisogna per forza sottostare alle leggi della logica, il che non equivale affatto a ritenere che le verità espresse siano, in sé, dipendenti da tali leggi, così come il tracciare l’immagine di un oggetto a tre dimensioni su di una superficie che ne ha solo due, non significa affatto ignorare l’esistenza della terza. La logica domina realmente tutto ciò che appartiene alla sfera della ragione e, com’è implicito nel suo stesso nome, è questo il suo campo d’azione specifico; per contro, tutto ciò che è d’ordine sopraindividuale, quindi soprarazionale, sfugge evidentemente per ciò stesso a tale dominio, dato che il superiore non può essere sottoposto all’inferiore; a proposito delle verità di quest’ordine, la logica non può dunque intervenire che in modo del tutto accidentale e in quanto la loro espressione in modo discorsivo, o se si vuole «dialettico», rappresenta una specie di «discesa» a livello individuale, in mancanza della quale tali verità rimarrebbero del tutto incomunicabili[6].
Per una singolare inconseguenza, mentre l’autore ci rimprovera, per pura e semplice incomprensione, di arrestarci al «mentale» senza che ce ne rendiamo conto, sembra esser particolarmente imbarazzato dal fatto che abbiamo parlato di «rinuncia al mentale». Le sue considerazioni a questo proposito sono molto confuse, ma in fondo egli sembra rifiutarsi di prendere in esame la possibilità del superamento dei limiti dell’individualità, e, in fatto di realizzazione, tutto pare limitarsi per lui, ci si consenta l’espressione, ad una specie di «esaltazione» di questa individualità, poiché pretende che proprio «l’individuo in sé tenda a ritrovare la sua sorgente prima», il che rappresenta appunto, per l’individuo, un’impossibilità, non potendo egli evidentemente superare se stesso coi suoi soli mezzi; e se poi questa «sorgente prima» fosse d’ordine individuale, sarebbe ancora qualcosa di ben relativo. Se l’essere che è un individuo umano in un certo stato di manifestazione fosse in verità soltanto questo, non ci sarebbe per lui alcun mezzo per uscire dalle condizioni di tale stato, e fino a che non ne è uscito effettivamente, cioè fino a che è ancora un individuo secondo le apparenze (e non bisogna dimenticare che per la sua coscienza attuale tali apparenze si confondono allora con la realtà stessa, poiché rappresentano tutto quanto egli può coglierne), l’indispensabile per permettergli di superarle non può che presentarglisi come «esteriore»[7]: egli non ha ancora conseguito lo stadio in cui una distinzione come quella fra «interiore» ed «esteriore» cessa di esser valida. Qualsiasi concezione tendente a negare queste verità incontrovertibili non sarà mai altro che una manifestazione dell’individualismo moderno, quali che siano le illusioni che a questo proposito possano farsi i suoi sostenitori[8]; e, nel caso che ci occupa presentemente, le conclusioni cui si arriva in definitiva, e che equivalgono di fatto alla negazione della tradizione e dell’iniziazione con il pretesto del non voler ricorrere a mezzi «esteriori» di realizzazione, mostrano fin troppo chiaramente che le cose stanno in questo modo.
Sono tali conclusioni che ancora dobbiamo prendere in esame, e tra queste almeno un passaggio è da citare integralmente: «Nella costituzione interiore dell’uomo moderno, esiste una frattura che gli fa apparire la tradizione come un corpus dottrinale e rituale esteriore, e non come una corrente di vita sovrumana in cui gli sia dato immergersi per rivivere; nell’uomo moderno vive l’errore che separa il trascendente dal mondo dei sensi, in modo che egli percepisce questo come privato del divino; per conseguenza, la riunione, la reintegrazione, non può avvenire mediante una forma di iniziazione che precede l’epoca in cui tale errore è diventato un fatto compiuto». Anche noi siamo decisamente del parere che quello è un errore tra i più gravi, non solo, ma che tale errore, che costituisce propriamente il punto di vista profano, è così caratteristico dello spirito moderno vero e proprio da esserne veramente inseparabile, al punto che chi ne è dominato non ha alcuna speranza di potersene liberare; è evidente che, dal punto di vista iniziatico, l’errore in questione è una «squalificazione» insormontabile, ed è per questo che l’«uomo moderno» è realmente inadatto a ricevere un’iniziazione, o perlomeno a pervenire all’iniziazione effettiva; ma è doveroso aggiungere che ci sono delle eccezioni, e ciò perché, malgrado tutto, esistono ancora attualmente, anche in Occidente, uomini che, per la loro «costituzione interiore», non sono «uomini moderni», che sono in grado di capire cos’è essenzialmente la tradizione, e che non accettano di considerare l’errore profano come un «fatto compiuto»; è ad essi che abbiamo sempre ed esclusivamente inteso rivolgerci. Ma non è tutto qui, ed infatti l’autore cade in seguito in una curiosa contraddizione quando sembra voler presentare come un «progresso» ciò che egli aveva dapprima riconosciuto come un errore; citiamo di nuovo le stesse parole: «Ipnotizzare gli uomini con il miraggio della tradizione e dell’organizzazione “ortodossa” per trasmettere l’iniziazione, significa paralizzare questa possibilità di liberazione e di conquista della libertà, la quale, per l’uomo attuale, sta proprio nel fatto che egli ha raggiunto l’ultimo scalino della conoscenza, che egli è diventato cosciente fino al punto in cui gli Dei, gli oracoli, i miti e le trasmissioni iniziatiche non agiscono più». Ecco un ben strano esempio di misconoscenza della situazione reale: mai come ora l’uomo è stato più lontano dall’«ultimo gradino della conoscenza», a meno che non si voglia intenderla in senso discendente, e se in effetti egli è giunto al punto in cui tutte le cose che sono state testé enunciate non agiscono più su di lui, non è perché egli sia salito troppo in alto, ma viceversa perché è caduto troppo in basso, come è ampiamente dimostrato dal fatto che, per contro, le innumerevoli e talvolta grossolane contraffazioni di queste cose riescono molto bene a completare il suo squilibrio. Si parla spesso di «autonomia», di «conquista della libertà» e via di seguito, intendendoli sempre in senso puramente individualistico, ma si dimentica, o meglio si ignora, che la vera liberazione non è possibile che mediante l’affrancamento dai limiti inerenti alla condizione individuale; non si vuol più sentir parlare di trasmissione iniziatica regolare né di organizzazioni tradizionali ortodosse, ma cosa si dovrebbe pensare del caso, del tutto simile a questo, di un uomo che, essendo sul punto di annegare, rifiutasse l’aiuto offertogli da un salvatore perché costui è «esteriore» a lui? Lo si voglia o no, la verità, che non ha niente da spartire con una «dialettica» qualsiasi, è che al di fuori del riallacciamento ad un’organizzazione tradizionale non c’è iniziazione, e senza preventiva iniziazione nessuna realizzazione metafisica è possibile: questi non sono «miraggi», o illusioni «ideali», o vane speculazioni del «pensiero», ma realtà assolutamente positive. Senza dubbio il nostro contraddittore continuerà a dire che i nostri scritti non escono dal «mondo delle parole»; questo è più che evidente, per forza di cose, e altrettanto si può dire di quel che scrive lui stesso, ma per lo meno vi è una differenza essenziale: per quanto egli possa esser persuaso del contrario, le sue parole, per chi ne comprende il «senso ultimo», traducono unicamente l’attitudine mentale di un profano; e lo preghiamo di credere che da parte nostra questa non è affatto un’ingiuria, ma solo l’espressione «tecnica» di un puro e semplice stato di fatto.


[1] Massimo Scaligero, Esoterismo moderno: L’opera e il pensiero di René Guénon, nel primo numero della rivista italiana Imperium (maggio 1950). L’espressione «esoterismo moderno», è già di per se stessa abbastanza significativa, in primo luogo perché costituisce una contraddizione in termini, e poi perché è più che evidente che non c’è niente di «moderno», nella nostra opera, la quale al contrario, sotto qualsiasi rapporto, va esattamente all’opposto dello spirito moderno. 
[2] Per noi il tipo classico del «pensatore» nel vero senso della parola è Cartesio; chi non è niente di più, può arrivare come massimo al «razionalismo» poiché, nell’incapacità di superare l’esercizio delle facoltà puramente individuali e umane, e quindi nell’ignoranza di tutto ciò che queste non permettono di raggiungere, non può essere che un «agnostico» nei confronti di tutto ciò che appartiene al dominio metafisico e trascendente. 
[3] Eccettuate naturalmente le parole che appartenevano inizialmente ad una terminologia tradizionale, e alle quali basta naturalmente restituire il loro significato primitivo. 
[4] Teniamo a precisare, a questo proposito, che ci è sempre dispiaciuto che le abitudini dell’epoca attuale ci abbiano impedito di pubblicare le nostre opere nel più stretto anonimato, cosa che, come minimo, avrebbe impedito a certuni di scrivere una quantità di sciocchezze, e a noi stessi d’avere troppo spesso la fatica di rilevarle e rettificarle. 
[5] È sottinteso che intendiamo la parola «dialettica» nel senso originale, quello che aveva ad esempio per Platone e per Aristotele, senza minimamente preoccuparci delle accezioni speciali che le vengono date attualmente, e che sono tutte derivate più o meno direttamente dalla filosofia di Hegel. 
[6] Non insistiamo sul rimprovero rivoltoci di parlare «come se la trascendenza e la realtà sedicente esteriore fossero separate l’una dall’altra»; se l’autore fosse a conoscenza di ciò che abbiamo detto, in particolare a proposito della «realizzazione discendente», o se l’avesse capito, certamente se ne sarebbe dispensato; questo non impedisce peraltro che tale separazione abbia un’esistenza reale «nell’ordine che le è proprio», che è quello dell’esistenza contingente, e che essa cessi interamente soltanto per colui che sia passato al di là di questa esistenza, e che sia definitivamente affrancato dalle sue condizioni limitative; checché egli possa pensarne, bisogna sempre saper mettere le cose al loro posto e al loro grado di realtà, e queste non sono distinzioni «d’ordine puramente dialettico»! 
[7] Ricordiamo, ammesso che ce ne sia bisogno, che l’iniziazione prende naturalmente l’essere qual è, nel suo stato attuale, per dargli i mezzi atti a superarlo; è perciò che, di primo acchito, tali mezzi appaiono come «esteriori». 
[8] Al giorno d’oggi, c’è molta gente che ritiene di essere sinceramente «antimoderna» e che invece è non meno profondamente intaccata dall’influenza dello spirito moderno; non è questo d’altronde che uno dei tanti esempi della confusione che attualmente regna sovrana.

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