Michel Vâlsan,
Postfazione a «Ibn 'Arabî, Il
Libro dell'Estinzione nella Contemplazione»
Il Libro dell'Estinzione nella Contemplazione (Kitâbu-I-Fanâ'i fî-l-Mushâhada) è uno dei numerosi trattati brevi di Ibn ‘Arabî, lo «Shaîkh al-Akbar» (nato nel 1165 a Murcia, in Spagna, e morto nel 1240 a Damasco), che si situano spesso ai margini delle sue opere maggiori.
Tale è appunto il caso di questo scritto, che si richiama esplicitamente alle Futûhât (Le Rivelazioni Meccane), il capolavoro di Ibn ‘Arabî, la cui composizione durò per quasi tutto il tempo che egli visse in Medio Oriente, e precisamente dal 1201 fino alla morte.
Nelle ultime righe del Libro dell'Estinzione, ad esempio, l'autore rinvia alla parte delle Futûhât che tratterà delle Manâzil, le Dimore Iniziatiche, e questo in effetti accade nel capitolo 286 dell’opera (che ne contiene complessivamente 560), dove, del resto, il Libro dell'Estinzione è menzionato come già scritto.
Non ci sarà possibile procedere all'analisi dettagliata e al commento approfondito che un testo così concentrato e pieno di allusioni richiederebbe; ci limiteremo a evidenziare le tesi dell'autore e le sue idee-guida sulle quali ci riserviamo di ritornare in altra sede. Le note alla traduzione hanno aggiunto precisazioni tecniche, ma la loro funzione è stata soprattutto quella di rendere comprensibile la concatenazione argomentativa del testo.
In generale, e nonostante il suo titolo, questo trattato potrebbe essere considerato come un'introduzione allo studio della via esoterica e della conoscenza metafisica nell'Islam; ma è soprattutto una difesa di tale via e dei mezzi ad essa propri, come lo «svelamento» o illuminazione intuitiva (kashf), contro gli attacchi ad opera dell'essoterismo e del razionalismo filosofico.
Il prologo, dopo le dossologie in prosa rimata, enuncia alcuni princìpi fondamentali che illustrano l'importanza del soggetto che si è in procinto di affrontare. Si tratta, più precisamente, di una specie di apoteosi dell'élite spirituale e del suo ruolo provvidenziale nell' economia tradizionale e cosmica complessiva.
Il libro entra nel vivo della trattazione con la tesi seguente: la Realtà Essenziale Divina, che è la meta della via della conoscenza metafisica, può essere contemplata soltanto attraverso una realizzazione che è, da una parte, estinzione (fanâ') di quanto nell' essere o nell' occhio contemplante vi è di contingente e relativo, e dall' altra permanenza (baqâ') di quanto vi è in esso di assoluto e necessario. Tutto questo non implica alcun cambiamento di natura, alcuna alterazione o soppressione d'essenza, e non conduce ad alcun risultato che già non fosse preesistente. Quello che viene meno è per definizione caduco e in via di estinzione da sempre, ciò che permane è immutabilmente identico da tutta l'eternità. La sola Visione appare, o si annuncia, come nuova all'«occhio» contemplante. Va sottolineato che il termine ‘ayn (dai molteplici significati: occhio, fonte, individuo, essenza, ipseità) si presta naturalmente ad applicazioni correlative che si spiegano in maniera davvero esaustiva solo attraverso quell'identità finale che il termine serve ad affermare sotto molteplici aspetti: così esso designerà, contemporaneamente o volta a volta, il contemplante relativamente al suo occhio e al suo essere, la Visione contemplativa, ed infine la Stazione metafisica attinta. Tale Visione è qui definita con un'espressione traducibile come «Occhio dell'Unione e dell'Essere Puro» o «Occhio della Sintesi e della Realizzazione», o in altri modi ancora. Essa è l'attributo proprio di quel vertice della realizzazione metafisica detto «Stazione della Quiete e della Sussistenza Immutabile ». L'autore esplicita la natura di tale visione servendosi del simbolismo della successione dei numeri. L'Occhio, egli sostiene, vede che tutti i numeri non sono che un «unico» che si propaga per tutte le gradazioni del numerabile, manifestano in tale processo le entità dei singoli numeri. E in relazione a questa visione essenziale e a questa propagazione universale dell'Identità che si produce l'errore di quanti professano la dottrina o la concezione dell'ittihâd, ossia l'«unificazione» o anche l'«unione». L'autore non fornisce qui una definizione esplicita di tale termine, rintracciabile invece nelle Futûhât (cap. 73, quest. 153): «L’ittihâd è il divenire una sola essenza da parte di due, quella del servo e quella del Signore; ora, non può darsi ittihâd che nell' ambito della quantità e della materia, ed essa non è che un unico stato». In quanto concezione della realizzazione suprema, l'errore dell'ittihâd consiste nel considerare, dapprima, che l'essere umano, ad esempio, riposi su di un'essenza ultima distinta dall'Essenza divina, concludendo che l'Unità finale è il risultato della fusione delle due essenze. La concezione corretta a tal riguardo è invece quella del Tawhîd, che è la dottrina ortodossa sia dal punto di vista essoterico sia da quello esoterico. Essa attesta l'Identità Suprema sul piano metafisico e iniziatico, affermando che il principio del Tutto è una Realtà essenziale unica, la Realtà in senso assoluto, e che di conseguenza la realizzazione suprema è la presa di coscienza, o la conoscenza, o meglio la contemplazione di ciò che immutabilmente è dall' eternità, senza alterazione alcuna quanto all' essenza.
Condannata dagli essoteristi come sacrilega poiché afferma la confusione delle essenze, la divinizzazione delle creature e l'incarnazione del Trascendente, l'ittihâd è egualmente respinta, e per gli stessi motivi, dagli esoteristi, che le oppongono una dottrina assimilabile al Tawhîd ortodosso, ma con un grado di complessità di gran lunga superiore. In sintesi essa sostiene che l'ittihâd non è soltanto logicamente impossibile, ma è soprattutto inutile: l'unità tra l'essere relativo e l'Essere assoluto cui si pretende di giungere è già realizzata da sempre, poiché l'essenza di tutti gli esseri è unica, ed è precisamente quella dell'Essere Puro. Esiste virtualmente Identità Suprema fra ogni essere e l'Essere Supremo, dal quale nulla può esser separato sotto il profilo dell'essenza. La realizzazione metafisica non è altro che la Visione effettiva di tale Realtà dimenticata e nascosta nel mistero profondo dell'essere. Analogamente, questa realizzazione si applicherà soltanto alla soppressione dei caratteri contingenti e limitati dell'essere per approdare a ciò che è in sé assoluto e illimitato. Ecco perché Ibn ‘Arabî, nel definire la Haqîqa, la Realtà assoluta, offre questa risposta implicita: «Si tratta dell'abolizione, in te, delle tracce dei tuoi attributi, sostituiti dai Suoi, essendo Lui l'Agente che opera per te, in te e con te: la realizzazione è un mutamento d'attributi, non già d'essenza».
Nel nostro trattato, in mancanza di una definizione dell'ittihâd, è per mezzo della successione dei numeri che dobbiamo comprendere quale sia l'errore di una tale dottrina. In effetti la questione centrale è incontestabile: la Visione assicura che è l'Uno a costituire la realtà di tutte le cose, proprio come l'intera serie dei numeri non è costituita che dall'infinita ripetizione della medesima unità primitiva. Ma se tale constatazione coesiste accanto alla concezione che i numeri hanno un'essenza propria distinta da quella dell'Uno, si deve concludere che sia avvenuta un'unificazione fra l'Uno e il Molteplice. Per dimostrare che dal punto di vista dell'essenza l'unica soluzione possibile è quella indicata dalla dottrina del Tawhîd, l'autore farà notare che l'Uno si manifesta come numero in due aspetti: attraverso la sua essenza e attraverso il suo nome. Attraverso la sua essenza esso è sempre presente in tutti i numeri, e a tutti i gradi del numerabile; attraverso il suo nome proprio non appare che al grado dell'unità primigenia, dove del resto vi è coincidenza fra essenza e nome dell'Uno. In tutti gli altri gradi non è presente con il suo nome proprio, poiché gli altri numeri portano nomi diversi, che variano a seconda dei rispettivi gradi del numerabile: «Di conseguenza,» dice l'autore facendo uso di un linguaggio ambivalente «attraverso il suo nome l'Uno produce 1'estinzione [di tutti gli altri nomi numerali], mentre attraverso la sua essenza assicura la permanenza [di tutti i numeri]. Quando tu dici: “Uno”, viene meno tutto ciò che è diverso da uno, e ciò per la virtù di tale nome; e quando dici: “Due”, il due si mostra al grado numerale della dualità grazie alla presenza dell'essenza dell'Uno, non già per la presenza del nome dell'Uno, dal momento che questo nome è in contraddizione con il grado numerale della dualità, mentre la sua essenza [universalmente presente e necessaria] non lo è affatto».
A
nostro avviso, questa analisi viene condotta non tanto per mostrare la
differenza di concezione fra ittihâd
e Tawhîd (quest'ultimo non viene
peraltro neppure menzionato nel testo), quanto per suggerire che in realtà si
tratta di una questione di interpretazione e di formulazione di un fatto
comunque attestato. Da tale analisi possiamo comunque enucleare un punto
suscettibile di un'interessante applicazione iniziatica. È necessario notare
preliminarmente che il «nome» di un numero, considerato in rapporto all'«essenza»
assoluta e unica di tutti i numeri, rappresenta simbolicamente tutto ciò che è
determinato, distinto, particolarizzato e relativizzato in un essere, a
qualsiasi grado del numerabile attualizzato, la qual cosa sintetizza, per
alcuni versi, la nozione di «io» individuale. Da quello che afferma Ibn ‘Arabî
risulta che un essere particolare non potrà dire veracemente una parola il cui
senso sia: «Io sono il Principio» senza trovarsi in uno stato in cui la
coscienza dell'io individuale sia del tutto annullata in quella dell'Io
Primigenio. Se questa condizione si realizza, allora una simile formula è
pronunciabile. Fu questo il caso di Abû Yazîd al-Bistâmî, che esclamava: «Io
sono Dio!», oppure: «Gloria a me!», e di Husayn al-Hallag che affermava: «lo
sono la Verità!». In uno stato diverso da quello descritto simili affermazioni
sarebbero necessariamente blasfeme. E ovvio che il profano non ammetterà mai la
realtà di un simile stato spirituale. Costui penserà sempre che si tratti di
panteismo, di sacrilegio, d'impostura o di possessione diabolica. Ciò che
complica le cose, per i profani, è il fatto che si verificano realmente casi
d'impostura o di possessione diabolica che assumono le apparenze di eventi
genuinamente spirituali, e che non a tutti è dato smascherare.
D'altra parte, tra i fenomeni iniziatici, l’ittihâd, intesa come fenomeno spirituale, non è certo una concezione meramente teorica. In quanto tale, viene non soltanto spiegata, ma quasi giustificata, se non legittimata. E lo stesso Ibn ‘Arabî a esprimersi in tal senso.
Ricordiamo in primo luogo che nella sua definizione di ittihâd citata poc'anzi le ultime parole erano state: «ed essa non è che un unico stato». Quest'ultima espressione rinvia a una nozione tecnica, quella di «stato» (hâl), che si oppone sotto il rapporto della durata e della stabilità alla nozione di«stazione» (maqâm): il primo è transitorio, la seconda è stabile e definitiva. Ora, l’ittihâd in quanto stato si manifesta in una condizione spirituale eccezionale chiamata jars. Questa parola, che comunemente significa «bisbiglio», «mormorio», tecnicamente designa «un contrarsi della volontà per la pressione esercitata dalla forza dell'evento spirituale (che interessa il cuore)». Ecco a questo proposito, e per esteso, un passo delle Futûhât (cap. 73, questo 153), già parzialmente citato: dopo aver menzionato esseri appartenenti a una categoria spirituale superiore, gli Ilâhiyyûn, letteralmente «i Divini», si dice: «Se tu domandi che cosa sia il Carattere divino, ti risponderemo che è ogni Nome divino al quale è congiunto un essere umano, come accade ad esempio, per rimanere nel comune ordine onomastico, quando uno si chiama ‘Abdul-Llâh (servo di Dio) o ‘Abdul-r-Rahmân (servo del Misericordioso). Costoro sono esseri immuni da grossolanità. E se tu chiedi cosa sia la grossolanità ti risponderemo che è il rimanere fissati al livello della natura bruta, e questo è l'esatto opposto di quel che contraddistingue le genti dell'Essere-Io Supremo, perché costoro dimorano presso la Realtà divina. E se tu chiedi che cosa sia l'Essere-Io Supremo, ti risponderemo che è la Realtà per eccellenza in quanto riferita alla prima persona del discorso. Le sunnominate genti dell'Essere-Io Supremo stanno presso la Tavola, contemplano il Calamo, guardano il Calamaio, intingono nell'inchiostro del Sé Supremo e parlano attraverso l'Io personale, esprimendosi in termini di Unificazione (ittihâd) in ragione del jars».
Nondimeno, l'ittihâd è ben lungi dall'essere un fatto altrettanto eccezionale del verificarsi del jars. Un altro passo delle Futûhât (cap. 399) attesta: «Dalla condizione erronea dell'ittihâd non sfugge nessuno, neppure i veri Sapienti di Dio che, pur sapendo quale sia la situazione reale, hanno parlato di “unione”: uno l'ha proclamata per [un asserito] comandamento divino, un altro in ragione di ciò che gli hanno conferito il “grado spirituale” e lo stato iniziatico, un altro ancora lo ha fatto senza rendersene ben conto. D'altra parte i razionalisti hanno affermato che l'ittihâd è impossibile, avendo per loro il significato di due essenze che diventano una, la qual cosa è evidentemente impossibile. Ma quanto a noi e ai nostri pari, non riconosciamo che un'unica essenza; la divergenza procede dai “rapporti concettuali” e dagli “aspetti speculativi”, laddove l'Entità essenziale è unica nell'intero dominio dell'Essere. I “rapporti concettuali” sono sprovvisti di realtà sostanziale, ed è a proposito di tali strutture concettuali che nascono le divergenze di opinioni».
D'altra parte, tra i fenomeni iniziatici, l’ittihâd, intesa come fenomeno spirituale, non è certo una concezione meramente teorica. In quanto tale, viene non soltanto spiegata, ma quasi giustificata, se non legittimata. E lo stesso Ibn ‘Arabî a esprimersi in tal senso.
Ricordiamo in primo luogo che nella sua definizione di ittihâd citata poc'anzi le ultime parole erano state: «ed essa non è che un unico stato». Quest'ultima espressione rinvia a una nozione tecnica, quella di «stato» (hâl), che si oppone sotto il rapporto della durata e della stabilità alla nozione di«stazione» (maqâm): il primo è transitorio, la seconda è stabile e definitiva. Ora, l’ittihâd in quanto stato si manifesta in una condizione spirituale eccezionale chiamata jars. Questa parola, che comunemente significa «bisbiglio», «mormorio», tecnicamente designa «un contrarsi della volontà per la pressione esercitata dalla forza dell'evento spirituale (che interessa il cuore)». Ecco a questo proposito, e per esteso, un passo delle Futûhât (cap. 73, questo 153), già parzialmente citato: dopo aver menzionato esseri appartenenti a una categoria spirituale superiore, gli Ilâhiyyûn, letteralmente «i Divini», si dice: «Se tu domandi che cosa sia il Carattere divino, ti risponderemo che è ogni Nome divino al quale è congiunto un essere umano, come accade ad esempio, per rimanere nel comune ordine onomastico, quando uno si chiama ‘Abdul-Llâh (servo di Dio) o ‘Abdul-r-Rahmân (servo del Misericordioso). Costoro sono esseri immuni da grossolanità. E se tu chiedi cosa sia la grossolanità ti risponderemo che è il rimanere fissati al livello della natura bruta, e questo è l'esatto opposto di quel che contraddistingue le genti dell'Essere-Io Supremo, perché costoro dimorano presso la Realtà divina. E se tu chiedi che cosa sia l'Essere-Io Supremo, ti risponderemo che è la Realtà per eccellenza in quanto riferita alla prima persona del discorso. Le sunnominate genti dell'Essere-Io Supremo stanno presso la Tavola, contemplano il Calamo, guardano il Calamaio, intingono nell'inchiostro del Sé Supremo e parlano attraverso l'Io personale, esprimendosi in termini di Unificazione (ittihâd) in ragione del jars».
Nondimeno, l'ittihâd è ben lungi dall'essere un fatto altrettanto eccezionale del verificarsi del jars. Un altro passo delle Futûhât (cap. 399) attesta: «Dalla condizione erronea dell'ittihâd non sfugge nessuno, neppure i veri Sapienti di Dio che, pur sapendo quale sia la situazione reale, hanno parlato di “unione”: uno l'ha proclamata per [un asserito] comandamento divino, un altro in ragione di ciò che gli hanno conferito il “grado spirituale” e lo stato iniziatico, un altro ancora lo ha fatto senza rendersene ben conto. D'altra parte i razionalisti hanno affermato che l'ittihâd è impossibile, avendo per loro il significato di due essenze che diventano una, la qual cosa è evidentemente impossibile. Ma quanto a noi e ai nostri pari, non riconosciamo che un'unica essenza; la divergenza procede dai “rapporti concettuali” e dagli “aspetti speculativi”, laddove l'Entità essenziale è unica nell'intero dominio dell'Essere. I “rapporti concettuali” sono sprovvisti di realtà sostanziale, ed è a proposito di tali strutture concettuali che nascono le divergenze di opinioni».
Questo
passo mostra con chiarezza che nel processo di realizzazione iniziatica deve
intervenire qualche cosa di veramente ineluttabile, e ciò non può essere che
una certa evidenza intuitiva, che ha luogo quando si supera un determinato
limite esistenziale consistente in un’inadeguata concezione di base.
Inoltre questo passo dimostra che Ibn ‘Arabî imputa ai razionalisti la fissazione del senso di ittihâd all'unione fra due enti essenzialmente distinti. Questa osservazione riveste un certo interesse poiché, considerando il suo senso proprio, il termine ittihâd dovrebbe avere la stessa accezione del greco enosis, del latino unio, e soprattutto dal sanscrito yoga che, come è noto, esprime «l'unione intima ed essenziale dell'essere con il Principio divino». A questo proposito René Guénon afferma: «Il senso proprio della parola yoga è infatti “unione” e non altro dice di questa parola si ritrova, appena alterata, nel latino jungere e nei suoi derivati), malgrado le molteplici interpretazioni, una più fantasiosa dell'altra, proposte dagli orientalisti e dai teosofisti. È necessario notare che questa realizzazione non dev'essere considerata come una “effettuazione”, o come “la produzione di un risultato non preesistente”, secondo l'espressione di Shankaracharya, poiché l'unione di cui si tratta, anche se non realizzata attualmente nel senso in cui noi qui l'intendiamo, esiste pur sempre potenzialmente, o meglio virtualmente; si tratta dunque soltanto, per l'essere individuale (perché non si può parlare di “realizzazione” che in rapporto all'individuo), di prendere effettivamente coscienza di ciò che è realmente e fin dall'eternità» (L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta, cap. III).
La via di questa conoscenza suprema è esoterica, riservata a coloro che hanno attitudini adeguate, e vietata ai profani, soprattutto ai letteralisti, ai giuristi, agli speculatori razionali e ai filosofi, le cui mentalità specialistiche sono comunque dei tramiti di squalificazione spirituale. Si tratta dunque non di semplici essoteristi e d'ignoranti, ma di dotti che aspirano alla saggezza, nei quali la naturale incomprensione dei profani si somma allo spirito di sistema e si ammanta d'intolleranza nei confronti di tutto ciò che esula dalla loro capacità d'intendere, e che contrasta i loro metodi di indagine. Pertanto, questa via di conoscenza, insieme ai mezzi che le sono connaturali, è autenticamente muhammadiana, ed è compresa sin dall'origine nella definizione e nella realtà del Dîn (scienza religiosa) islamico nel suo complesso.
L'autore del resto cita a questo proposito le parole del Profeta e dei suoi Compagni, ed illustra la sua tesi richiamandosi a un'autorità religiosa come Hasan al-Basrî, il quale, quando voleva trattare di argomenti d'ordine iniziatico, si appartava con i Conoscenti, la «Gente del Sapore».
Coloro che non sono fatti per questa via, o ne ignorano la natura e la meta, dovrebbero astenersi dal giudicarla o anche solo dal parlare d'essa e dei suoi adepti.
Inoltre questo passo dimostra che Ibn ‘Arabî imputa ai razionalisti la fissazione del senso di ittihâd all'unione fra due enti essenzialmente distinti. Questa osservazione riveste un certo interesse poiché, considerando il suo senso proprio, il termine ittihâd dovrebbe avere la stessa accezione del greco enosis, del latino unio, e soprattutto dal sanscrito yoga che, come è noto, esprime «l'unione intima ed essenziale dell'essere con il Principio divino». A questo proposito René Guénon afferma: «Il senso proprio della parola yoga è infatti “unione” e non altro dice di questa parola si ritrova, appena alterata, nel latino jungere e nei suoi derivati), malgrado le molteplici interpretazioni, una più fantasiosa dell'altra, proposte dagli orientalisti e dai teosofisti. È necessario notare che questa realizzazione non dev'essere considerata come una “effettuazione”, o come “la produzione di un risultato non preesistente”, secondo l'espressione di Shankaracharya, poiché l'unione di cui si tratta, anche se non realizzata attualmente nel senso in cui noi qui l'intendiamo, esiste pur sempre potenzialmente, o meglio virtualmente; si tratta dunque soltanto, per l'essere individuale (perché non si può parlare di “realizzazione” che in rapporto all'individuo), di prendere effettivamente coscienza di ciò che è realmente e fin dall'eternità» (L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta, cap. III).
La via di questa conoscenza suprema è esoterica, riservata a coloro che hanno attitudini adeguate, e vietata ai profani, soprattutto ai letteralisti, ai giuristi, agli speculatori razionali e ai filosofi, le cui mentalità specialistiche sono comunque dei tramiti di squalificazione spirituale. Si tratta dunque non di semplici essoteristi e d'ignoranti, ma di dotti che aspirano alla saggezza, nei quali la naturale incomprensione dei profani si somma allo spirito di sistema e si ammanta d'intolleranza nei confronti di tutto ciò che esula dalla loro capacità d'intendere, e che contrasta i loro metodi di indagine. Pertanto, questa via di conoscenza, insieme ai mezzi che le sono connaturali, è autenticamente muhammadiana, ed è compresa sin dall'origine nella definizione e nella realtà del Dîn (scienza religiosa) islamico nel suo complesso.
L'autore del resto cita a questo proposito le parole del Profeta e dei suoi Compagni, ed illustra la sua tesi richiamandosi a un'autorità religiosa come Hasan al-Basrî, il quale, quando voleva trattare di argomenti d'ordine iniziatico, si appartava con i Conoscenti, la «Gente del Sapore».
Coloro che non sono fatti per questa via, o ne ignorano la natura e la meta, dovrebbero astenersi dal giudicarla o anche solo dal parlare d'essa e dei suoi adepti.
La
difficoltà che incontrano i profani nel comprendere i concetti iniziatici si
manifesta innanzitutto nella loro ignoranza dei termini tecnici stabiliti dagli
esoteristi per la formulazione dei loro insegnamenti. E questo non è che un
primo ostacolo, poiché 1'autentico metodo di penetrazione dei misteri è
comunque la tensione profonda e incessante dell'essere verso la meta
prefissata, la concentrazione totale e costante verso la Realtà Unica. Le
realizzazioni che ne conseguono sono allora delle soluzioni d'enigmi e delle
rivelazioni del tutto inattese. Questo orientamento fondamentale della via
metafisica è designato nell'insegnamento delle cose sacre dalla nozione di ikhlâs, ossia purificazione, sincerità;
questo termine e le espressioni specifiche che lo comprendono si applicano
essenzialmente al culto puro di Dio, all'adorazione affrancata da qualsivoglia
idea di retribuzione, e il cui unico fine è Dio. Tale è la Via Diretta degli Hunafâ),
gli Unitaristi Assoluti, secondo la quale la meta finale non è il frutto
delle opere - che, dimorando
presso Dio, non va comunque perduto - ma la Luce Suprema, ossia Dio stesso. E
così profonda è la purezza di questa sublime osservanza che, se Dio offre un
dono a uno dei suoi autentici fedeli, costui Gli chiede di prenderlo Lui
stesso, affinché il gesto di prendere non getti un velo sulla sua Visione
Essenziale.
Dopo tale illustrazione della meta che egli stesso persegue e della via che pratica, Ibn ‘Arabî segnala l'esistenza di due indirizzi che, in particolari circostanze, possono essere proposti al neofita. Il primo è «la Retta Religione, via d'elezione e di purezza, istituita d'autorità da un organo profetico», l'altro «la Religione Non-Retta, sapienziale, ibrida, speculativa e intellettuale». La via più elevata e più feconda è la prima. L'autorità del messaggio profetico muhammadiano si estende alle altre religioni rivelate, su cui opera sia «abrogazioni» che «attestazioni », e a fortiori si esercita sulle vie «sapienziali», termine con cui probabilmente si indicano in primo luogo scuole iniziatiche come quelle degli Ikhwânu-s-Safâ’ (i Fratelli della Purezza) e degli Ishrâqiyyûn (gli Illuminativi). Qui Ibn ‘Arabî tocca un argomento di particolare importanza, sia dal punto di vista del significato ciclico delle legislazioni sacre che da quello delle «tecniche» spirituali, ma si limita a un' enunciazione della sua tesi che verrà illustrata, sia pur parzialmente, in altri suoi scritti, sia in piccoli trattati che nelle Futûhât medesime.
L'autore precisa poi che l'eccellenza della religione rivelata, e particolarmente di quella musulmana, è legata all'accettazione integrale del Libro attraverso la Fede. Egli afferma questo concetto dapprima indirettamente, menzionando il caso del «più miserabile degli esseri», di colui che, pur disponendo di un Libro rivelato, presta fede solo a una parte di esso rifiutando il resto. A questo punto si situa una digressione di rilevante importanza in evidente rapporto con le diatribe dei teologi sul carattere d'immutabilità della fede nei credenti. La fede realmente «iscritta nei cuori» non viene mai meno. Ma il cuore ha due facce: una, interiore, che è la Tavola Custodita, sulla quale quel che viene scritto non può più esser cancellato, l'altra, esteriore, che è la Tavoletta della Cancellazione e dell'Iscrizione, su cui si può scrivere, cancellare e nuovamente scrivere. Per rendere maggiormente comprensibile la situazione della fede scritta su quest'ultima Tavoletta, Ibn ‘Arabî cita il caso del personaggio senza nome di cui si parla nel Corano (7, 174), al quale i commenti fanno corrispondere diversi personaggi della storia sacra, fra cui Balaam, figlio di Beor, contemporaneo di Mosè, di cui si parla in Numeri, 22-24. I «segni» o «poteri profetici operativi» attribuiti al personaggio senza nome del versetto si trovavano sulla parte esteriore del suo cuore, e non erano stabiliti nel suo intimo in virtù di una completa realizzazione personale: ecco perché costui li poté perdere. Ibn ‘Arabî fornisce inoltre qualche precisazione sulle formule dalla «virtù operativa automatica» e oppone ad esse la virtù della realizzazione effettiva e la forza della fede. Tornando al caso di quelli che credono soltanto ad una parte del Libro, Ibn ‘Arabî cita dei versetti coranici in cui si afferma che «costoro sono i veri miscredenti» e che «quelli che non credono fra le genti del Libro ... fra tutti gli esseri del creato sono i peggiori»; viene qui fatta una sorprendente analogia con i letteralisti e gli speculatori razionali fra i teologi e i giuristi dell'Islam, i quali riconoscono solo una parte delle realizzazioni e delle scoperte spirituali dei Santi di Dio, e che respingono tutto ciò che non si accorda con le loro opinioni preconcette e con i loro limitati criteri di verità. Costoro, secondo Ibn ‘Arabî, non dovrebbero dunque occuparsi di ciò che non li riguarda, perché quelli che contraddicono i Muhaqqiqûn (i Maestri Verificatori o Certificatori) su argomenti di loro pertinenza rischiano di perdere il lume della fede. A questo proposito viene riportato un aneddoto che mostra il diverso atteggiamento di uno di tali Maestri e di un giurista, durante una discussione su un argomento esoterico.
Ibn ‘Arabî affronta poi direttamente il problema del ruolo della Fede fondata sulle opere: essa diventa il mezzo per avvalersi dell'intera ricchezza delle conoscenze muhammadiane che hanno il loro supremo coronamento nella Dignità dell'Uomo per eccellenza. In tale contesto viene sommariamente indicata una gerarchia di quattro Presenze (ambiti o piani di realtà), di cui abbiamo tentato di rendere conto in funzione delle fondamentali nozioni di Islâm (Sottomissione alle prescrizioni legali), di Imân (Fede) e dli Ihsân (Perfezionamento dei due gradi precedenti), quest'ultimo nelle due varianti di «similitudine » e « realizzazione effettiva» della Visione Suprema.
Ibn ‘Arabî termina così il trattato dimostrando che le verità più alte della Via iniziatica sono contenute nelle formule stesse dell'insegnamento rivolto a tutti, poiché la meta dell'estremo Ihsân legale è la Visione Suprema: visione che è conseguente all'Estinzione metafisica e coincidente con il Levarsi del Sole Essenziale.
Dopo tale illustrazione della meta che egli stesso persegue e della via che pratica, Ibn ‘Arabî segnala l'esistenza di due indirizzi che, in particolari circostanze, possono essere proposti al neofita. Il primo è «la Retta Religione, via d'elezione e di purezza, istituita d'autorità da un organo profetico», l'altro «la Religione Non-Retta, sapienziale, ibrida, speculativa e intellettuale». La via più elevata e più feconda è la prima. L'autorità del messaggio profetico muhammadiano si estende alle altre religioni rivelate, su cui opera sia «abrogazioni» che «attestazioni », e a fortiori si esercita sulle vie «sapienziali», termine con cui probabilmente si indicano in primo luogo scuole iniziatiche come quelle degli Ikhwânu-s-Safâ’ (i Fratelli della Purezza) e degli Ishrâqiyyûn (gli Illuminativi). Qui Ibn ‘Arabî tocca un argomento di particolare importanza, sia dal punto di vista del significato ciclico delle legislazioni sacre che da quello delle «tecniche» spirituali, ma si limita a un' enunciazione della sua tesi che verrà illustrata, sia pur parzialmente, in altri suoi scritti, sia in piccoli trattati che nelle Futûhât medesime.
L'autore precisa poi che l'eccellenza della religione rivelata, e particolarmente di quella musulmana, è legata all'accettazione integrale del Libro attraverso la Fede. Egli afferma questo concetto dapprima indirettamente, menzionando il caso del «più miserabile degli esseri», di colui che, pur disponendo di un Libro rivelato, presta fede solo a una parte di esso rifiutando il resto. A questo punto si situa una digressione di rilevante importanza in evidente rapporto con le diatribe dei teologi sul carattere d'immutabilità della fede nei credenti. La fede realmente «iscritta nei cuori» non viene mai meno. Ma il cuore ha due facce: una, interiore, che è la Tavola Custodita, sulla quale quel che viene scritto non può più esser cancellato, l'altra, esteriore, che è la Tavoletta della Cancellazione e dell'Iscrizione, su cui si può scrivere, cancellare e nuovamente scrivere. Per rendere maggiormente comprensibile la situazione della fede scritta su quest'ultima Tavoletta, Ibn ‘Arabî cita il caso del personaggio senza nome di cui si parla nel Corano (7, 174), al quale i commenti fanno corrispondere diversi personaggi della storia sacra, fra cui Balaam, figlio di Beor, contemporaneo di Mosè, di cui si parla in Numeri, 22-24. I «segni» o «poteri profetici operativi» attribuiti al personaggio senza nome del versetto si trovavano sulla parte esteriore del suo cuore, e non erano stabiliti nel suo intimo in virtù di una completa realizzazione personale: ecco perché costui li poté perdere. Ibn ‘Arabî fornisce inoltre qualche precisazione sulle formule dalla «virtù operativa automatica» e oppone ad esse la virtù della realizzazione effettiva e la forza della fede. Tornando al caso di quelli che credono soltanto ad una parte del Libro, Ibn ‘Arabî cita dei versetti coranici in cui si afferma che «costoro sono i veri miscredenti» e che «quelli che non credono fra le genti del Libro ... fra tutti gli esseri del creato sono i peggiori»; viene qui fatta una sorprendente analogia con i letteralisti e gli speculatori razionali fra i teologi e i giuristi dell'Islam, i quali riconoscono solo una parte delle realizzazioni e delle scoperte spirituali dei Santi di Dio, e che respingono tutto ciò che non si accorda con le loro opinioni preconcette e con i loro limitati criteri di verità. Costoro, secondo Ibn ‘Arabî, non dovrebbero dunque occuparsi di ciò che non li riguarda, perché quelli che contraddicono i Muhaqqiqûn (i Maestri Verificatori o Certificatori) su argomenti di loro pertinenza rischiano di perdere il lume della fede. A questo proposito viene riportato un aneddoto che mostra il diverso atteggiamento di uno di tali Maestri e di un giurista, durante una discussione su un argomento esoterico.
Ibn ‘Arabî affronta poi direttamente il problema del ruolo della Fede fondata sulle opere: essa diventa il mezzo per avvalersi dell'intera ricchezza delle conoscenze muhammadiane che hanno il loro supremo coronamento nella Dignità dell'Uomo per eccellenza. In tale contesto viene sommariamente indicata una gerarchia di quattro Presenze (ambiti o piani di realtà), di cui abbiamo tentato di rendere conto in funzione delle fondamentali nozioni di Islâm (Sottomissione alle prescrizioni legali), di Imân (Fede) e dli Ihsân (Perfezionamento dei due gradi precedenti), quest'ultimo nelle due varianti di «similitudine » e « realizzazione effettiva» della Visione Suprema.
Ibn ‘Arabî termina così il trattato dimostrando che le verità più alte della Via iniziatica sono contenute nelle formule stesse dell'insegnamento rivolto a tutti, poiché la meta dell'estremo Ihsân legale è la Visione Suprema: visione che è conseguente all'Estinzione metafisica e coincidente con il Levarsi del Sole Essenziale.