A. K. Coomaraswamy
L'illusione
dell’alfabetismo
Movendo
dalla premessa che un individuo effettivamente colto può anche diventare
letterato, Aristotele si domandava[1] se
tra il saper leggere e scrivere e la cultura vi sia un legame necessario oppure
puramente accidentale.
Il problema quasi non esiste per noi che all'analfabetismo colleghiamo naturalmente l’ignoranza, l’arretratezza, l’incapacità all’autogoverno: per noi, i popoli analfabeti sono popoli incivili, e viceversa. Significativa in proposito è una recente fascetta editoriale, dove si leggeva: «La maggior forza civilizzatrice è la sapienza collettiva di un popolo alfabetizzato».
Il problema quasi non esiste per noi che all'analfabetismo colleghiamo naturalmente l’ignoranza, l’arretratezza, l’incapacità all’autogoverno: per noi, i popoli analfabeti sono popoli incivili, e viceversa. Significativa in proposito è una recente fascetta editoriale, dove si leggeva: «La maggior forza civilizzatrice è la sapienza collettiva di un popolo alfabetizzato».
Le
ragioni che spiegano questa mentalità hanno le loro radici nella distinzione
tra popolo (folk) e proletariato, cioè tra organismo sociale e formicaio umano.
Per
il proletariato, l'alfabetismo è una necessità pratica e culturale. Di
passaggio possiamo notare che non sempre le cose che paiono necessarie sono in
se stesse un bene al di fuori di un dato contesto: come le stampelle, utili sì
ma soltanto a chi è zoppo. Comunque, l'alfabetismo è una necessità per noi, e
ciò da un duplice punto di vista: in primo luogo, perché soltanto coloro che
posseggono una conoscenza almeno elementare delle «tre r»[2] sono
in grado di dirigere e gestire il nostro sistema industriale e di trarne
beneficio: in secondo luogo, perché quando non si sente più il bisogno di
congiungere la «saggezza» con le «capacità» (che oggi una «economia dinamica»
vuole rivolte a risparmiare tempo più che a badare alla qualità del prodotto),
la possibilità di acquisire una cultura dipende quasi esclusivamente da
un’accorta scelta dei libri più informativi.
Ho
detto «possibilità» perché, mentre l’alfabetismo prodotto oggi dalla istruzione
massificata e obbligatoria spesso non produce altro, o poco più, che la
capacità e la volontà di leggere i giornali e la pubblicità stampata, in questa
situazione sarà realmente colto soltanto colui che avrà studiato molti libri in
diverse lingue. Ora, un tipo di istruzione come questo non può essere messo
alla portata di tutti con misure «coercitive» (anche supponendo che ogni
nazione abbia a disposizione un corpo di insegnanti adeguati in qualità e
numero), né può essere raggiunto da ognuno indistintamente, pur ambizioso.
Ammettiamo
pure che l’alfabetismo sia necessario nelle società industriali, nelle quali si
presume che l’uomo è fatto per il commercio e dove tutti sono presuntivamente
istruiti non tanto per merito dell’ambiente ma nonostante l’ambiente. Ne segue
però immediatamente anche tenendo presente che la miseria cerca sempre
compagnia — che se ci prefiggiamo di industrializzare il resto del mondo, noi
siamo tenuti a fornirgli almeno il primo bagaglio di vocaboli inglesi necessari
a tale scopo. (L’inglese americano è ormai ridotto a lingua delle relazioni
esclusivamente esteriori, a linguaggio commerciale.) Altrimenti, come potranno
gli altri popoli essere effettivamente concorrenziali nei nostri confronti? La
concorrenza è la vita del commercio, e ogni gangster ha bisogno di un rivale.
Ma
qui ci interessa un altro problema, cioè la presunzione che l’alfabetismo sia
«un bene assoluto e un presupposto inderogabile per la cultura»,[3] anche
per le società non ancora industrializzate.
La
maggior parte della popolazione del globo è ancora estranea
all’industrializzazione e analfabeta, così come esistono popoli non ancora
«saccheggiati» (all’interno del Borneo): ma non conoscendo altra forma di vita
al l'infuori della sua, l’americano medio pensa che «analfabeta» significhi
«incolto», così che per lui che giudica sul metro esclusivo del suo ambiente la
maggioranza analfabeta della popolazione del globo non è altro che una classe
sottosviluppata.
È
questa la ragione (assieme ad altre di minore importanza, non estranee a
«interessi imperialistici») per cui, proponendoci non soltanto di sfruttare ma
anche di educare le «razze inferiori senza [la nostra] legge», noi infliggiamo
loro ferite profonde e spesso addirittura letali. E dico «letali» invece di
«fatali» perché si tratta proprio della distruzione delle loro memorie. Noi
trascuriamo il fatto che l’«educazione» non è mai un processo creativo ma
piuttosto un’arma a due tagli, comunque sempre distruttiva: ignoranza o conoscenza
dipendono
dalla saggezza o dall’insipienza dell’educatore. Troppo spesso succede che i
pazzi si mettano a correre su terreni sui quali gli angeli hanno paura a
muovere un solo passo.
Per
combattere questo compiaciuto pregiudizio cercheremo di dimostrare che:
1.
non esiste alcun rapporto necessario tra alfabetismo e cultura;
2.
imporre la nostra istruzione (e la nostra «letteratura» contemporanea) a popoli
che pur avendo una loro cultura sono analfabeti, equivale a distruggere, in
nome della nostra, la loro cultura.
Per
non dilungarci troppo diamo per scontato che il termine «cultura» implica una
qualità ideale e una perfezione di forme che possono essere realizzate da tutti
gli uomini indipendentemente dalle loro condizioni; e siccome intendiamo specialmente
la cultura quale si esprime nelle parole, identificheremo «cultura» con
«poesia»; dicendo «poesia» non intendiamo quella specie di poesia che oggi
sfringuella di prati verdi o che semplicemente riflette il comportamento
sociale o le nostre reazioni personali di fronte agli eventi quotidiani;
intendiamo invece tutto il complesso di quella letteratura profetica in cui
rientrano la Bibbia, i Veda, la Edda, le grandi opere epiche e, in genere, i
«migliori libri» del mondo e i più filosofici, se vogliamo dar ragione a
Platone quando dice che «lo stupore è l’inizio della filosofia». Molti di
questi «libri» già esistevano prima ancora che venissero scritti, molti non
sono mai stati scritti, altri sono andati o andranno perduti.
Qui
sarà bene citare alcune affermazioni di uomini la cui «cultura» non può essere
messa in discussione; mentre infatti coloro che sono semplicemente
«alfabetizzati» menano gran vanto della loro istruzione, quale che sia,
soltanto uomini che siano «non soltanto alfabetizzati ma anche colti» ammettono
ampiamente che le «lettere» sono al massimo un mezzo in vista di un fine, mai
un fine in se stesse; in altre parole, che «la lettera uccide».
Un
autentico «letterato» se mai ve ne fu uno, il professor G.L. Kittredge,
scriveva:[4]
«Occorre
uno sforzo congiunto della ragione e dell’immaginazione per concepire un poeta
come un individuo che non sa scrivere, che canta o recita i suoi versi a un
pubblico che non sa leggere… La capacità della tradizione orale di trasmettere
grandi quantità di versi per centinaia di anni è dimostrata e ammessa… Questa
che i francesi chiamano letteratura orale non è amica dell’istruzione.
L’alfabetizzazione la distrugge, talvolta con una rapidità che lascia sgomenti.
Quando una nazione comincia a leggere…, ciò che prima era possesso del popolo
nel suo insieme si riduce a eredità di coloro che sono analfabeti, e molto
presto scompare nel nulla, se non viene raccolto come oggetto di antiquariato».
Si
noti inoltre che questa letteratura orale una volta «apparteneva a tutto il
popolo…, alla comunità nella quale gli interessi intellettuali sono identici,
al vertice come alla base della struttura sociale», mentre nella società
alfabetizzata questa letteratura orale è accessibile soltanto agli antiquari e
non ha più alcun legame con la vita di ogni giorno. Un altro punto importante è
questo: alle letterature orali tradizionali erano interessate non solo tutte le
classi ma altresì tutte le età della popolazione; oggi invece si scrivono libri
appositamente «per bambini», che nessuno spirito maturo riesce a tollerare;
oggi solo più i fumetti interessano nella stessa misura i ragazzi (per i quali
non si è trovato niente di meglio) e quegli «adulti» che adulti non sono mai
diventati.
Con
gli stessi criteri oggi viene raccolta la musica; i canti popolari sono persi
per il popolo dal momento stesso in cui vengono raccolti e «archiviati»; quando
si cerca di «preservare» l’arte popolare chiudendola nei musei, si celebra il
suo funerale: l’imbalsamazione, infatti, si rende necessaria soltanto dopo che
il paziente è già spirato. E non ci si illuda che il «canto della comunità»
possa sostituire i canti popolari: il suo livello non può essere più alto
dell’inglese elementare, necessario ai nostri studenti universitari per poter
capire il linguaggio dei loro manuali.
In
altre parole, «l’istruzione universale obbligatoria, quale è stata introdotta
alla fine del secolo scorso, non ha formato cittadini più felici e più
efficienti, come si sperava; al contrario, ha fornito soltanto lettori per romanzi
gialli e spettatori al cinema» (Karl Otten).
Un
professore che era in grado non solo di leggere il greco e il latino classico
ma anche di scriverlo egregiamente, osservava: «Non v’è dubbio che si è avuto
un incremento quantitativo dell'istruzione in genere, ma mentre tutti si
compiacciono che qualcosa segni una crescita, si evita di domandarsi se questo
qualcosa è un profitto o una perdita». Questo lo diceva nel corso di una
discussione sui pessimi effetti dell’istruzione forzata, e concludeva: «L’apprendimento
e la sapienza sono stati spesso divisi; forse il risultato più evidente della
moderna diffusione dell’istruzione è stato quello di mantenere e anzi approfondire
questa divisione».[5]
Douglas
Hyde fa notare che «inutilmente visitatori disinteressati si sono meravigliati
nel vedere maestri di scuola che non conoscevano una parola di irlandese alle
prese con scolari che non conoscevano una parola di inglese… Ragazzi
intelligenti, dotati di un frasario corrente di circa tremila parola, entrano
nelle scuole statali e alla fine ne escono con questo risultato: la loro
vivacità naturale è scomparsa, la loro intelligenza è quasi del tutto distrutta
dalle basi, la loro meravigliosa padronanza della madrelingua è persa per
sempre, sostituita con cinque-seicento parole di inglese malamente pronunciate
e barbaramente usate… La storia, la poesia lirica, le canzoni, gli aforismi e i
proverbi, in pratica l’unica base dello spirito di chi parla irlandese è persa
per sempre, e nulla la può sostituire… Ai ragazzi si insegna, come minimo, a
vergognarsi dei genitori, della propria nazionalità, del proprio nome… È un
sistema di “educazione” veramente straordinario».[6] È il
sistema che gli americani civili e istruiti hanno inflitto ai loro amerindi e
che tutte le razze imperialistiche continuano a infliggere ai popoli che hanno
assoggettato, e che vorrebbero infliggere a quelli che sono loro alleati.
Il
problema investe sia il linguaggio sia il suo contenuto. Per quanto riguarda il
linguaggio, bisogna anzitutto tener presente che non esiste un linguaggio
«primitivo» nel senso di una terminologia limitata, sufficiente soltanto a
esprimere le relazioni esteriori più semplici. Questa semmai è una degradazione
cui tende una lingua condizionata dalle filosofie della pura empiricità in
determinate circostanze; non è certo la sua condizione originaria; il novanta
per cento dell'«istruzione» americana, per esempio, è compresa in due sillabe.[7]
Nel
secolo diciassettesimo Robert Knox scriveva dei singalesi di Ceylon che «i
contadini e i braccianti parlano con eleganza e sono pieni di belle maniere;
non esiste differenza di talento e di linguaggio tra chi abita in campagna e
chi frequenta la corte».[8]
Testimonianze analoghe e di analogo significato sono rintracciabili in ogni
parte del mondo. Così, riguardo al dialetto gaelico, J.F. Campbell scriveva:
«Io sono incline a pensare che il dialetto sia parlato nella sua forma migliore
dalle popolazioni più analfabete delle isole…, uomini con idee chiare e memoria
meravigliosa, generalmente molto poveri e anziani, che vivono in angoli
nascosti di isole remote, che parlano soltanto il gaelico»;[9] e
cita Hector Maclean, secondo il quale la perdita della loro letteratura orale è
dovuta «in parte alla lettura…, in parte al fanatismo religioso e in parte a grette
considerazioni utilitaristiche», che sono precisamente le tre forme nelle quali
la civiltà moderna si impone alle culture più antiche. Alexander Carmichael
diceva che «gli abitanti dell’isola di Lewis, come in genere tutti i montanari
del nord della Scozia e delle isole, hanno le Scritture nel loro animo e le
inseriscono nei loro discorsi… Forse nessun popolo aveva una tradizione di
canti e di racconti, di cerimonie civili e di riti religiosi… più ricca di
quella degli incompresi e cosiddetti analfabeti montanari della Scozia».[10]
St.
Barbe Baker scrive che nell’Africa Centrale aveva come «amico e compagno fidato
un vecchio che non sapeva né leggere né scrivere, benché fosse un esperto
conoscitore di storie del passato… I vecchi capitribù lo ascoltavano incantati…
L’attuale sistema di educazione rischia seriamente di disperdere molto di tutto
questo»[11].
W.G. Archer fa notare che «diversamente dal sistema inglese, nel quale uno
potrebbe addirittura trascorrere tutta la vita senza venire mai a contatto con
la poesia, il sistema tribale degli Uraon utilizza la poesia come una appendice
viva della danza, degli sposalizi e della coltivazione della terra, funzioni
cui partecipano tutti, perché elementi costitutivi della loro vita in tribù»; e
aggiunge: «Chi volesse scoprire la causa del declino della cultura contadina in
Inghilterra, la rintraccerebbe nell’alfabetizzazione».[12]
Nell’Inghilterra
dei tempi andati ci ricordano i due autori Prior e Gardner «anche gli
analfabeti sapevano decifrare il significato di sculture che oggi solo
archeologi esperti riescono a interpretare»[13].
L’antropologo
Paul Radin fa notare: «La distorsione di tutta la nostra vita psichica e di
tutta la nostra appercezione della realtà esteriore prodotta in noi dalla
invenzione dell’alfabeto, la cui unica tendenza è stata di elevare il pensiero
e il pensare al rango di prova esclusiva di ogni verità, non si è mai
verificata fra i popoli primitivi»; e aggiunge: «Bisogna ammettere
esplicitamente che per temperamento e per capacità di pensiero logico e
simbolico l’uomo primitivo non è inferiore all’uomo civilizzato». Quanto poi al
«progresso», l’autore afferma che in etnologia non se ne verificherà «finché
gli studiosi non si libereranno una volta per tutte della curiosa idea che ogni
cosa abbia una storia evoluzionistica; finché non si renderanno conto che
alcune idee e alcuni concetti sono definitivi e fondamentali per l’uomo»[14]
quanto la sua costituzione fisica:
«Non
si può continuare a distinguere tra popoli allo stato di natura e popoli civili».[15]
Fin
qui abbiamo preso in considerazione esclusivamente le affermazioni di
alfabetizzati. La situazione e il punto di vista dell’autentico «selvaggio» ci
sono descritti da Tom Harrison, quando parla delle Nuove Ebridi:
«Il
bambino si educa ascoltando e guardando… Senza la scrittura, la memoria è
perfetta, la tradizione è precisa. Man mano che il ragazzo cresce gli si
insegna tutto quanto si conosce… Le realtà intangibili cooperano a ogni
impresa, dal concepimento alla costruzione della canoa…, i canti sono una forma
del raccontare… L’estensione e il contenuto delle migliaia di miti che ogni
bambino impara (spesso a memoria, nonostante che certe narrazioni durino
parecchie ore) potrebbero formare un’intera biblioteca… Gli uditori vengono
come avviluppati da una fitta trama di parole»; essi parlano tra loro «con una
precisione e una bellezza formale che noi non conosciamo più». E che cosa
pensano di noi? «Dopo l’incontro con il bianco, gli indigeni imparano
facilmente a scrivere, ma ciò rappresenta per essi soltanto una curiosità
inutile. Essi dicono: “L’uomo non può ricordare e parlare?”».[16] Essi
ci considerano «matti», e forse non a torto.
Quando
noi ci prefiggiamo di «educare» gli abitanti delle isole dei Mari del Sud, lo
facciamo generalmente perché diventino più utili a noi (ormai è ammesso da
tutti che in India l’«educazione inglese» iniziò sotto questa prospettiva), o
per «convertirli» al nostro modo di pensare; giacché nessuno ha mai avuto in
mente di introdurli a Platone. Ma se mai succedesse a noi o a loro di
incontrare Platone, resteremmo probabilmente meravigliati scoprendo che la loro
protesta («L’uomo non può ricordare?») l’aveva già espressa lui: «L’alfabeto
ingenererà oblio nelle anime di chi lo imparerà: essi cesseranno di esercitare
la memoria perché fidandosi dello scritto richiameranno le cose alla mente non
più dall’interno di se stessi ma dal di fuori, attraverso segni estranei: ciò
che tu hai trovato non è una ricetta per la memoria ma per richiamare alla
mente. Né tu offri vera sapienza ai tuoi scolari ma ne dai solo l’apparenza
perché essi, potendo leggere molte cose senza insegnamento, si crederanno
dottissimi [in quello che il professor E.K. Rand definiva il «sempre più del
sempre meno»], mentre saranno pressoché ignoranti e inguaribili dalla loro ignoranza,
non saggi ma saccenti».[17]
Platone
continua affermando che esiste un altro genere di «parole», che hanno
un’origine più alta e sono più efficaci delle parole scritte (noi diremmo
stampate), e afferma che l’uomo sapiente «che ha intenzioni serie non scriverà
mai con inchiostro» parole morte che non sono in grado di insegnare
effettivamente il vero, ma seminerà i semi della sapienza nelle anime che sono
in grado di riceverli e di «renderli in tal modo immortali».
Questi
pensieri di Platone non hanno in sé nulla di strano o di insolito: con essi si
troverebbe in perfetto accordo, per esempio, ogni indiano colto non ancora
intaccato da influssi europei. Sarà sufficiente citare quanto afferma il grande
studioso di lingue indiane George A. Grierson:
«L’antico
sistema indiano, nel quale la letteratura viene registrata non sulla carta ma
nella memoria e trasmessa di generazione in generazione da maestri a scolari, è
tuttora [1920] in uso nel Kashmir.
Le
«pagine di carne del cuore» sono spesso più degne di fiducia che quelle di
corteccia di betulla o dei manoscritti su carta. Nel trasmettere i messaggi
viene posta ogni possibile cura perché ogni singola parola sia esatta, anche
quando chi parla è un pandit dotto», per cui il materiale raccolto dalla viva
voce dei cantastorie di professione è «sotto certi aspetti più prezioso di
qualsiasi manoscritto autografo».[18]
Secondo
la mentalità indiana, un uomo conosce soltanto quanto conosce a memoria; se per
ricordare è costretto a ricorrere a un libro, le sue sono nozioni di cui «ha
sentito parlare». Si possono trovare a tutt’oggi centinaia di migliaia di
indiani che quotidianamente ripetono a memoria tutto o gran parte della
Bhagavad Gita; altri, più dotti, sono in grado di recitare centinaia di migliaia
di versi di altri testi più lunghi. Io stesso ho sentito per la prima volta le
odi del poeta persiano classico Jalalu’dDin Rumi da un cantastorie che andava
di villaggio in villaggio. Fin dalle epoche più remote, per gli indiani è dotto
non chi ha letto molto ma colui al quale sono state insegnate cose profonde. La
sapienza si impara molto più da un maestro che da un libro.
Veniamo
ora all’ultima parte del nostro problema, cioè alle diverse caratteristiche
della letteratura orale e scritta. Benché tra le due forme non sia possibile
tracciare una linea di demarcazione netta e definitiva, vi è tuttavia una
differenza di qualità e di tematiche tra letterature originariamente orali e
letterature create, per così dire, sulla carta. «All’inizio era la parola». La
distinzione vale specialmente tra la poesia e la prosa e tra il mito e
l’evento. La letteratura orale è per sua natura essenzialmente poetica, in
quanto i suoi contenuti sono essenzialmente mitici e i suoi interessi vertono
specialmente sulle imprese spirituali degli eroi; la letteratura nata scritta è
invece per sua natura essenzialmente prosaica, in quanto i suoi contenuti sono
concreti e i suoi interessi si rivolgono ad avvenimenti profani e ai
particolari. Dicendo «poetico» intendiamo includere il significato di
«mantico», sottintendendo che la «poeticità» è una qualità letteraria e non
soltanto uno scrivere in versi. La poesia contemporanea è essenzialmente e
inevitabilmente dello stesso livello della prosa moderna; entrambe sono
egualmente dogmatiche, ma il meglio che ognuna di esse ci può dare sono pochi
«pensieri felici», più che certezze. Una celebre glossa dice: «L’incredulità è
per la massa». Noi che sappiamo
dire quando un’arte è «significativa» senza sapere di che cosa, siamo anche
orgogliosi di «progredire», senza sapere in quale direzione.
Platone
dice che chi ha intenzioni «serie» non scrive ma insegna, e che se un sapiente
scriverà mai qualcosa, lo farà esclusivamente per proprio piacere — le
cosiddette «belle lettere» — o per predisporre dei promemoria per sé, per il
tempo nel quale la vecchiaia gli indebolirà la memoria. Noi sappiamo
esattamente che cosa intende Platone per persona «seria»: è la persona sapiente
che dimostra un reale interesse non per gli affari umani o per le meschinità ma
per le verità eterne, per la natura dell’essere reale e per l’immortale che è
in noi.
La
parte mortale di noi può sopravvivere «con il solo pane», ma il nostro uomo
interiore si nutre di mito; se ai miti veritieri noi sostituiamo i miti
propagandistici della «razza», dello «sviluppo», del «progresso» e della
«missione civilizzatrice», l’uomo interiore muore di fame. Il testo scritto,
come dice Platone, può essere utile a coloro cui la tarda età ha indebolito la
memoria. Questo spiega come la senilità della nostra cultura ci abbia fatto
sentire la necessità di «conservare» in musei i capolavori dell’arte, di
registrare in pagine scritte e quindi «salvare» (anche solo per gli studiosi)
tutto quanto può essere «collezionato» delle letterature orali, che altrimenti
andrebbe irrimediabilmente perduto. Tutto questo, prima che sia troppo tardi.
Non
v’è studioso serio delle società umane che non concordi nell’affermare che
l’agricoltura e l’artigianato sono le basi essenziali di ogni civiltà,
intendendo per civiltà essenzialmente lo sforzo di costruirsi un «luogo in cui
abitare». Però, come ha fatto osservare Albert Schweitzer, «noi ci siamo
comportati come se agli inizi della civiltà ci fossero non l’agricoltura e
l’artigianato ma il leggere e lo scrivere»; e «dalle scuole, che sono copie
perfette delle scuole europee, essi [i «nativi»] escono con la qualifica di
“istruiti”, gente cioè che si crede al di sopra del lavoro manuale, sensibili
solo più ai richiami commerciali e intellettuali… Coloro che concludono il loro
ciclo scolastico sono in gran parte persi per l’agricoltura e per
l’artigianato».[19]
La
stessa cosa era già stata rilevata da un grande missionario degli Zulù, Charles
Johnson: «L’idea centrale [delle scuole missionarie] era quella di selezionare
gli individui allontanandoli dalla massa della vita nazionale».
I
nostri concetti letterari sono derivati dalle arti della produzione e della
costruzione: tali, per esempio, le
-
nozioni di «CULTURA» (che richiama Tagri, coltura),
-
«SAPIENZA» (originariamente «PERIZIA») e
-
«ASCETISMO» (originariamente «lavoro faticoso»).
San
Bonaventura affermava: «Non v’è cosa nella quale non si esprima una vera
sapienza; per questo motivo la Sacra Scrittura molto opportunamente fa uso di
tali similitudini».[20]
Nelle
società normali le necessarie attività della produzione e della costruzione non
sono semplici «lavori» ma anche riti, e la poesia e la musica che a questi
«lavori» sono associate diventano elementi di una liturgia. I «piccoli misteri»
delle arti e dei mestieri sono preparazione naturale ai più grandi «misteri del
regno dei cieli». Ma per noi che non possiamo più parlare di «giustizia» divina
nello stesso senso in cui ne parlava Platone, perché il suo aspetto sociale è
diventato qualcosa di professionale che Cristo fosse falegname e figlio di
falegname è un puro caso storico; e quando leggiamo «legno» noi non
comprendiamo più che dietro questa materia primaria dobbiamo anche vedere Colui
«dal quale tutte le cose sono state fatte», come da un falegname. Al massimo,
noi interpretiamo certe forme classiche di pensiero non nella loro universalità
ma come metafore o figure retoriche create da singoli autori. Quando
l’alfabetismo si riduce a un semplice saper fare, «la sapienza collettiva di un
popolo alfabetizzato» rischia di essere soltanto ignoranza collettiva, mentre
«le comunità arretrate sono le biblioteche orali delle antiche culture
universali».[21]
Le
nostre attività educative all’estero indirizzano i nostri allievi verso il
nostro modo di pensare e di vivere. Non è facile per un educatore all’estero
dare ragione a Ruskin quando afferma che esiste una sola maniera di aiutare gli
altri: non educarli alla nostra maniera di vivere (per quanto noi possiamo
esserne fanatici), ma piuttosto cercare di scoprire che cosa essi hanno tentato
di realizzare e che cosa stessero realizzando prima del nostro arrivo, e, se
possibile, aiutarli a realizzarlo meglio.
Mi
consta che i gesuiti mandano anche oggi alcuni missionari in sperduti villaggi
della Cina perché ne apprendano il sistema di vita, con l’obbligo di procurarsi
da vivere esercitando un mestiere fra quelli praticati dalla gente del luogo:
dopo almeno due anni di questo tirocinio si permette loro di insegnare. Alcune
di queste condizioni dovrebbero essere imposte a tutti gli educatori stranieri,
sia nelle scuole statali che in quelle missionarie.
Non
si può assolutamente dimenticare che noi ci troviamo di fronte a popoli «i cui
interessi intellettuali sono identici dal vertice della struttura sociale alla
base» e presso i quali ancora non è nata la distinzione tra scuola religiosa e
scuola laica, tra belle arti e arti applicate, tra significato e uso. Dopo aver
introdotto queste distinzioni e dopo aver distinto tra classi «istruite» e
classi «analfabete», noi dovremo comunque rivolgerci a queste ultime quando
vorremo studiare il linguaggio, la poesia e la cultura di quelle popolazioni,
«prima che sia troppo tardi».
Quando
nel capitolo precedente ho accennato alla «furia di proselitismo», intendevo
riferirmi non solo alle attività svolte dai missionari di professione ma anche,
in generale, all'attività di quelle persone che sono angosciate dall’assillo
tipico dell’uomo bianco, persone ansiose di elargire anche agli altri le
«benedizioni» della nostra civiltà. Che cosa si nasconde sotto questa furia,
della quale le nostre spedizioni punitive e le nostre «guerre di pacificazione»
non sono che le manifestazioni più appariscenti? Non credo esagerato affermare
che le nostre attività educative all’estero (e in queste bisogna includere
anche le riserve degli indiani d’America) sono tutte motivate dall'intenzione
di distruggere le culture preesistenti. E ciò, secondo me, deriva non soltanto
dalla convinzione della assoluta superiorità della nostra Kultur e dal
conseguente disprezzo e rifiuto di tutto quello che noi non abbiamo capito (non
riusciamo, per esempio, a capire che qualcuno possa agire senza un movente
economico), ma deriva da una inconscia e profondamente radicata invidia di una
serenità di vita che noi dobbiamo limitarci a riconoscere nei popoli che
abbiamo definiti «non ancora saccheggiati». Noi ci sentiamo urtati nel
constatare che questi altri, non industrializzati come noi, non «democratici»
come noi, sono tuttavia soddisfatti del loro stato; noi perciò ci sentiamo in
dovere di renderli insoddisfatti, di rendere insoddisfatte specialmente le loro
donne, che da noi potrebbero imparare a lavorare nelle fabbriche e a far
carriera.
Ho
usato deliberatamente il termine Kultur perché in realtà vi è pochissima
differenza tra la volontà dei tedeschi di imporre la loro cultura alle razze
«arretrate» del resto dell’Europa e la nostra determinazione di imporre la
nostra al resto del mondo.
Ovviamente,
i metodi possono anche non essere egualmente brutali, ma identica è la volontà
che sta alla base.[22] Come
ho già detto, «la miseria cerca compagnia», e qui sta la vera e inconfessata
spiegazione della nostra volontà di creare un meraviglioso nuovo mondo fatto di
meccanici tutti provvisti di una identica patente di istruzione. Queste cose
sono state di recente ripetute a un gruppo di giovani lavoratori americani, uno
dei quali concluse: «…E dire che siamo dei poveri diavoli!».
Il
nostro orgoglio per «la sapienza collettiva di un popolo alfabetizzato» ha
tutta l’apparenza di un fischio nel buio della notte, perché nessuno si prende
la briga di controllare nella realtà che cosa legge questo popolo
«alfabetizzato». Tuttavia, qui non intendo tanto sottolineare le deficienze e
gli errori della moderna educazione praticata in Occidente, quanto piuttosto
attirare l’attenzione sullo sbaglio di estendere ad altri popoli un’istruzione
di questo genere. Quello che mi preme mettere in risalto è l’errore insito nel
fatto di attribuire un valore assoluto all’alfabetismo, nonché le conseguenze
veramente pericolose che possono derivare dall’assumere l’«alfabetismo» come
norma in base alla quale misurare la cultura dei popoli analfabeti.
La
nostra cieca fede nell’alfabetismo ci nasconde l’importanza di altre capacità,
a tal punto da renderci insensibili alle condizioni subumane nelle quali un
individuo è talvolta costretto a vivere, perché per noi ciò che conta è che
egli sappia leggere, non importa cosa, nel suo tempo libero; in più, tale fede
diventa uno dei terreni più fertili su cui germoglia il pregiudizio razziale, nonché
una causa primaria dell’impoverimento spirituale di tutti quei popoli
«arretrati» che noi ci prefiggiamo di «civilizzare».
(Visto su: http://lavianascosta.forumfree.it/)
[1] Metafisica,
6, 2, 4; 11, 8, 12. «Per un uomo che non sia già dotato di una conoscenza
antecedente, leggere è come per un cieco mettersi davanti a uno specchio»
(Garuda Purana, XVI, 82).
[2] Reading, (w)ritingy (a)rithmetic: leggere, scrivere e far di conto (N.d.T.).
[3] W. Shewring, Literacy, in Dictionary of World Literature, 1943. «Il nostro progressivo analfabetismo culturale precorre gli sforzi di istruirci nell’uso delle potenzialità della cultura» (R.S. Lynd, Knowledge for What?). John U. Nef, un professore di Chicago, faceva osservare nel 1944, parlando all’Università Hamline: «A dispetto della conclamata larga diffusione dell’alfabetismo…, [in America] le persone in grado di comunicare con gli altri a un livello relativamente alto di discorso sono in numero molto più basso di quanto si verificasse in passato». Una recente ricerca effettuata dalla Carnegie Foundation for the Advancement of Teaching ha rivelato che «la media degli studenti più anziani in sei colleges conosceva soltanto il sessantun per cento delle parole che vengono usate comunemente dalle persone colte»! Di fronte a tutti questi fatti è perlomeno sorprendente quanto ha affermato lord Raglan: «Quando dico “selvaggio” intendo “analfabeta”» («Rationalist Annual», 1946, p. 43). Un tempo la borghesia inglese classificava i montanari scozzesi come «selvaggi»; però da un antropologo quale lord Raglan ci si poteva attendere una confutazione di simili «miti», non un loro recupero!
[4] Nella introduzione a: F.G. Childe, English and Scottish Copular Ballads; cfr. W.W. Comfort, Chrétien de Troyes, introduzione: la poesia di Chrétien «si rivolgeva a una società che era ancora omogenea, e senza dubbio essa era ascoltata con eguale interesse da tutte le classi della popolazione». Niente di tutto questo è o può essere ottenuto dai sistemi educativi organizzati e forzati di oggi, che costituiscono un «compartimento chiuso in se stesso, avulso dalla vita», con la sua «atmosfera di pesante noia che smorza la vitalità dei giovani, per cui questi non conoscono niente realmente bene»; anzi, «sarebbe più esatto dire che i giovani non sanno più che cosa sia in realtà conoscere», il che «spiega perché la pubblicità goda di una così pericolosa credulità» (Meissner cit., pp. 47, 48).
[2] Reading, (w)ritingy (a)rithmetic: leggere, scrivere e far di conto (N.d.T.).
[3] W. Shewring, Literacy, in Dictionary of World Literature, 1943. «Il nostro progressivo analfabetismo culturale precorre gli sforzi di istruirci nell’uso delle potenzialità della cultura» (R.S. Lynd, Knowledge for What?). John U. Nef, un professore di Chicago, faceva osservare nel 1944, parlando all’Università Hamline: «A dispetto della conclamata larga diffusione dell’alfabetismo…, [in America] le persone in grado di comunicare con gli altri a un livello relativamente alto di discorso sono in numero molto più basso di quanto si verificasse in passato». Una recente ricerca effettuata dalla Carnegie Foundation for the Advancement of Teaching ha rivelato che «la media degli studenti più anziani in sei colleges conosceva soltanto il sessantun per cento delle parole che vengono usate comunemente dalle persone colte»! Di fronte a tutti questi fatti è perlomeno sorprendente quanto ha affermato lord Raglan: «Quando dico “selvaggio” intendo “analfabeta”» («Rationalist Annual», 1946, p. 43). Un tempo la borghesia inglese classificava i montanari scozzesi come «selvaggi»; però da un antropologo quale lord Raglan ci si poteva attendere una confutazione di simili «miti», non un loro recupero!
[4] Nella introduzione a: F.G. Childe, English and Scottish Copular Ballads; cfr. W.W. Comfort, Chrétien de Troyes, introduzione: la poesia di Chrétien «si rivolgeva a una società che era ancora omogenea, e senza dubbio essa era ascoltata con eguale interesse da tutte le classi della popolazione». Niente di tutto questo è o può essere ottenuto dai sistemi educativi organizzati e forzati di oggi, che costituiscono un «compartimento chiuso in se stesso, avulso dalla vita», con la sua «atmosfera di pesante noia che smorza la vitalità dei giovani, per cui questi non conoscono niente realmente bene»; anzi, «sarebbe più esatto dire che i giovani non sanno più che cosa sia in realtà conoscere», il che «spiega perché la pubblicità goda di una così pericolosa credulità» (Meissner cit., pp. 47, 48).
[6] Op. cit., p. 633.
[7] L’americano è ormai «una lingua unidimensionale, una lingua orientata a descrivere gli aspetti esteriori del comportamento, debole negli ipersuoni… Le nostre parole… mancano di quella precisione formale che deriva dalla coscienza del passato e dalla molteplicità dell’uso» (Margaret Mead, And Keep Your Powder Dry, 1942, p. 82). Ogni autore che usi le parole con proprietà rischia di essere frainteso.
«Forse in nessuna epoca come nella nostra l’uomo ha
conosciuto tante cose pur rimanendo ignorante; mai si è preoccupato tanto dei
fini ed è rimasto senza un suo fine; mai è stato così disilluso e insieme così
vittima delle illusioni. Questo strano conflitto pervade tutta la nostra
cultura moderna, scienza e filosofia, letteratura e arte» (W.M. Urban, The Intelligible World, 1929, p. 172).
In queste condizioni, la capacità di leggere una pagina stampata si riduce a un
giochetto di prestigio e non garantisce affatto la capacità di captare o di
comunicare le idee.
[9] Popular Tales of the West Highìands, 1890, pp. V, XXIII, XXII.
[10] Carmina Gaelica, I, 1900, pp. XXIII, XXIX; cfr. J.G. Manckay, More West Highland Tales, 1940, prefazione: «Le classi più povere parlano in genere una lingua meravigliosa… Alcuni sono in grado di recitare migliaia di versi da antichi poemi eroici… Un’altra causa della frammentarietà dei racconti è rintracciabile nell’effetto abrasivo della civiltà moderna». E J. Watson, nell’introduzione della stessa opera: «Questa eredità intellettuale…, questa antica cultura si estendeva su tutta la parte settentrionale e centrosettentrionale della Scozia. Coloro che ne erano in possesso potevano benissimo essere e generalmente ^ erano analfabeti. Questo, però, non significa affatto che fossero ignoranti. È triste constatare come la loro decadenza sia da imputare alle scuole e alla Chiesa!». E di fatto, in tutto il mondo il decadimento delle culture negli ultimi cento anni è stato accelerato proprio «dalle scuole e dalla Chiesa».
H.J. Massingham (in This
Plot of Earth, 1944, p. 233) parla di «un vecchio, Seonardh Coinbeul, che
non sapeva né leggere né scrivere ma ricordava a memoria una sua composizione
poetica di 4.500 versi, oltre a innumerevoli altri canti e racconti di ogni
genere».
A. Solonylsin («Asiatic
Review», 41, gennaio 1945, p. 86) afferma che la produzione epica dei
Kirghisi non è stata ancora tutta raccolta, nonostante che l’istituto di
Ricerche del Kirghizistan abbia già raccolto più di un milione di versi: «I
bardi che recitano i mana (o manashi) sono dotati di una memoria prodigiosa,
oltre che di talento poetico. Solo così si può spiegare come centinaia di
migliaia di versi abbiano potuto essere tramandati oralmente». Uno scrittore,
recensendo (sul «Journal of American Folklore», 58, 1945, p. 65) l’opera Manas,
Kirghiski Narodni Epos, osserva che
«la generalizzazione dell’istruzione ha già contribuito molto a togliere al
cantastorie ogni significato nella vita delle tribù… Quando l’acculturazione
diventa un luogo comune, non ci si deve meravigliare se i resti del canto epico
degenerano presto in una trovata pubblicitaria artificialmente e pomposamente nazionale».
[12] The Blue Grove, 1940, prefazione; e in JBORS, vol. XXIX, p. 68.
[13] E. Schroder Prior e A. Gardner, An Account of Medieval Figure Sculpture in England, 1912, p. 25.
[14] P. Radin, Primitive Man as Philosopher, 1927.
[15] J. Strzygowski, Spuren indogermanischen Glaubens in der bildenden Kunst, 1936, p. 344.
[16] Tom Harrison, Savage Civilization, cit., pp. 45, 344, 351, 353.
[17] Platone, Fedro, 27; cfr. H. Gauss, Plato's Conception of Philosophy, 1937, pp. 262265.
[18] Latta Vakyani, 1920, p. 3
[19] On the Edge of the Primeval Forest (trad, it.: Dove comincia la foresta vergine, Edizioni di Comunità, Milano 1959).
[20] De reductione artium ad theologiam, 14.
[21] N.K. Chadwick, Poetry and Prophecy, 1942, prefazione. «L’esperienza delle comunità che mirano esclusivamente all’istruzione è troppo ristretta»: «…sempre intenti a istruirsi, ma incapaci di giungere alla perfetta conoscenza della verità» (2Tim. 3, 7).
[22] La moderna «educazione» imposta a culture tradizionali (come quelle gaelica, indiana, polinesiana, amerinda) è meno deliberatamente ma, di fatto, altrettanto deleteria della distruzione delle biblioteche polacche operata dai nazisti per cancellare le loro memorie nazionali. I nazisti operavano consapevolmente; noi invece quando anglicizziamo o americanizziamo o francesizziamo i popoli siamo spinti da un rancore che non abbiamo il coraggio di riconoscere né di confessare. Questo rancore è in realtà la nostra reazione di fronte a una superiorità riconosciuta e che vorremmo perciò distruggere.
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