A.K. Coomaraswamy
Tempo
ed Eternità. Cristianesimo e pensiero moderno*
Nel Cristianesimo l'importanza del
Presente è affermata dal Cristo con le parole: «Lascia i morti seppellire i
loro morti» (1) e «Non affannatevi per il domani» (Matteo, 8, 22 e 6, 34). Inoltre, si riconosce facilmente l'ἄτομος νῦν di Aristotele in S. Paolo, I Corinti, 15, 51-52: «Ecco io vi
annunzio un mistero: non tutti, certo, moriremo, ma tutti saremo trasformati,
in un istante, in un batter d'occhio (ἐν
τόμῳ, ἐν ῥιπῇ ὀφθαλμοῦ;
l'arabo al-sā'at), al suono
dell'ultima tromba...; e i morti risorgeranno incorrotti, e noi saremo
trasformati» (2); questa affermazione ci rammenta anche l'«Istante unico del
Risveglio» (eka-kṣana-sambodhi) del Buddhismo.
Infatti - come per Aristotele e
per i buddhisti - la corruzione è inseparabile dall'esistenza temporale, e
«risorgere incorrotti» implica necessariamente un passaggio dal flusso
dell'esistenza temporale all'eternità presente nella quale non ci sono né oggi
né domani, e nella quale il cristiano ha già vissuto nella misura in cui è
stato in grado di seguire i comandamenti del Cristo: abbandonare il passato e
non affannarsi per il domani. È senza dubbio partendo da questo punto di vista
che Bowman fa questa osservazione: «L'attenzione religiosa per la vita concerne
specificamente questa vita di esperienze che rinasce a ogni attimo fuggente» (3):
e sembra che si esiga dal vero cristiano ch'egli sia, o che divenga, proprio
come il Ṣūfī, un «figlio dell'istante», e, come
l'Arahant buddhista, un Liberato «per il quale non v'è né passato né futuro»
(S. I. 141) (4). La realtà dell'eterno presente è ugualmente connaturale a
quella dello Spirito Santo, la cui operazione è immediata - «Subitamente (ἄφνω) venne dal cielo un rumore come
di vento che soffia con forza» (Atti,
2:2) (5). S. Tommaso d'Aquino, a proposito della questione «Se la giustificazione
dell'empio si produca istantaneamente o progressivamente» (Sum. Theol. I-II. 113. 7), decide che una tale giustificazione «non
è successiva, bensì istantanea»6 (proprio ciò che un buddhista avrebbe chiamato
«risveglio in un unico istante»). Infatti una tale giustificazione dipende dall'infusione
della Grazia, che è subitanea, e dal libero arbitrio dell'uomo «il cui
movimento è, per natura, istantaneo» (7). La giustificazione non può essere
progressiva, poiché «i movimenti del libero arbitrio - di volere o di non
volere - non sono progressivi bensì istantanei» (8). In risposta all'obiezione successiva
- cioè che delle condizioni opposte non possono coincidere nello stesso istante
e che vi dev'essere perciò un ultimo istante nello stato di peccato e un altro
nello stato di grazia - egli risponde che «la successione dei contrari in uno
stesso soggetto differisce per le cose soggette al tempo e per quelle che sono
di là dal tempo. Perché per le cose temporali non esiste un "ultimo
istante" in cui la forma precedente persista nel soggetto; invece si dà un
ultimo tempo, e un primo istante in cui la forma seguente inerisce alla materia
o al soggetto. E la ragione di ciò è che non si può ammettere che un istante ne
preceda immediatamente un altro nel tempo; infatti gli istanti non si succedono
immediatamente l'un l'altro nel tempo, come nemmeno i punti in una linea, e ciò
è provato da Aristotele (Fis. VI. 1).
Ma il tempo è terminato dall'istante. Pertanto durante tutto il tempo
precedente, nel corso del quale una cosa
muta verso la sua forma, essa conserva la forma opposta, ma all'ultimo istante
di questo tempo, che è anche il primo istante del tempo successivo, essa
possiede la forma che è il termine del movimento. Ma è diverso per le cose che
sono al di sopra del tempo [...]
È la mente umana che è giustificata, ed
essa è al di sopra del tempo, benché sia accidentalmente soggetta al tempo
nella misura in cui conosce la continuità e il tempo (9)... Diremo dunque che
non si dà un ultimo istante in cui esiste la colpa, bensì un ultimo tempo;
mentre si dà un primo istante in
cui la grazia esiste, la colpa essendo
inerente per tutto il tempo precedente».
Si sarebbe forse potuto esprimere tutto
ciò più chiaramente usando l'immagine del cerchio (ὁ τροχὸς τῆς γενέσεως, bhavacakra)
e del suo (settimo) raggio; la successione temporale corrispondendo al movimento lungo la sua
circonferenza mentre il movimento ex tempore del libero arbitrio al moto centrifugo (caduta o discesa
nella materia) e al moto centripeto (ascensione o resurrezione).
Nella Summa
Contra Gentiles I. 14, 15, S. Tommaso discute dell'eternità di Dio. Egli
basa la sua argomentazione sulle asserzioni dell'immutabilità di Dio in Mal. 3:6, Giac. 1:17 e Num. 23:19;
e cita Aristotele: «Il tempo è l'enumerazione del moto» (Fis. IV. 11-5, 219 B), osservando che solo le cose che sono nel
tempo possono essere misurate, ma «Dio non si muove affatto, e perciò non può esser
misurato dal tempo; né Egli esiste "prima o dopo" né non esiste più
dopo esser esistito, né può trovarsi in Lui successione alcuna [...] ma Egli ha
l'intera Sua esistenza simultaneamente (simul);
e quella è la natura (ratio)
dell'eternità»; e conclude con Salmi
101:13 (102:12): «Ma tu, Signore, durerai per sempre», e 28 (27): «Ma tu sei lo
stesso, e i tuoi anni non hanno fine». Cfr. BG.
Il. 20: «Né essendo divenuto, cesserà mai di essere...».
Nella Summa
Theologica I. 10, «Sull'Immutabilità di Dio», S. Tommaso distingue più
pienamente tra tempo, eviternità ed
eternità. «L'idea del tempo consiste nella numerazione del prima e del dopo nel
moto: del pari, l'idea dell'eternità consiste nell'apprensione dell'uniformità
di ciò che è fuori dal moto. Inoltre, sono dette esser misurate dal tempo
quelle cose che hanno un inizio e una fine nel tempo [...] Ma siccome ciò che è
interamente immutabile non ha alcuna successione, così non ha né inizio né fine
[...] L'eternità è chiamata "intera" [tota], non perché abbia parti
bensì perché non manca di alcunché [...] L'espressione "tutta in una volta"
è usata per rimuovere l'idea del tempo, e la parola "perfetta" per
escludere l'ora del tempo [nunc temporis]... L'ora che sta [nunc stans] è detto
fare l'eternità (10)... L'eviternità [aevum] differisce dal tempo e
dall'eternità in quanto medio tra loro due... Gli angeli, che hanno un essere
immutabile quanto alla loro natura ma mutevolezza quanto alle loro scelte [...]
sono misurati dall'eviternità [...] Il tempo ha un prima e un poi; l'eviternità
non ha in se stessa né un prima né un poi, i quali, tuttavia, possono esserle
connessi; mentre l'eternità non ha né prima né poi, né è compatibile con essi
in alcun modo. (Ma) l'eviternità è talvolta presa come "secolo"
[saeculum], cioè il periodo di durata d'una cosa; e così diciamo" molti
evi" quando intendiamo "molti secoli"».
«Eviternità» è quindi un termine che
potrebbe applicarsi alla vita degli dèi indiani «nati con una vita (āyus,
cfr. αἰών) (11) di "mille
anni"; proprio come uno potrebbe vedere in lontananza l'altra "sponda",
così essi videro l'altra "sponda" della loro vita» (ŚB.
XI. 1. 6. 15, cfr. TS. V. 7. 3 sg.); la loro «non morte» (amṛtattva) contrasta, da un lato, con quella
dell'uomo che vive cent'anni – cioè «non muore» prematuramente - e, dall'altro,
con l'immortalità senza tempo di Brahma.
Inoltre (Sum. Theol. I. 10. 6) «il tempo è uno». Non perché sia un numero;
«infatti il tempo non è un numero astratto dalla cosa numerata (12), ma esiste
nella cosa numerata; altrimenti esso non sarebbe continuo; poiché dieci misure
di stoffa sono continue non in ragione del numero (dieci) bensì della cosa
numerata». La posizione è proprio aristotelica: il pezzo di stoffa non cessa di
essere tale alla fine di ciascuna misura di stoffa per poi iniziare di nuovo; è
un unico pezzo di stoffa: e così è nel caso di qualsiasi estensione di tempo o
di spazio. Il tempo e lo spazio sono continui. Entrambi,
come l'unità numerica, sono infinitamente
divisibili.
«Esamina», dice S. Agostino, «i mutamenti
delle cose e troverai dappertutto il "fu" e il "sarà". Pensa
a Dio e troverai l"'è" dove il "fu" e il "sarà"
non possono essere [...] Essere è un termine per l'immutabilità [...] Vi sono
una vita prima e assoluta, nella quale non si dà che una cosa sia l'esistere, un'altra
l'essere, bensì essere ed esistere sono la stessa cosa; e un'intelligenza prima
e assoluta, nella quale non si dà che una cosa sia il vivere, un'altra il
comprendere, bensì comprendere è vivere, ed è essere, e tutte le cose sono uno»
(In Joan. Evang. XXXVIII, 10; Sermo, VII. 7; De Trin. VI. 10. 11). Inoltre, in Dio «nulla è passato come se non
fosse più, nulla è futuro come se non fosse ancora.
Qualunque cosa sia lì, semplicemente è» (In Ps. 101, Sermo, II. 10). E: «Che cos'è [sempre] lo stesso, se non ciò che è?
[...] Nessuno ha [sempre] lo stesso per sé [...] il corpo che egli ha non è [sempre] lo stesso [...] Nemmeno l'anima umana
resta [la stessa] [...] La mente stessa dell'uomo, che è chiamata razionale, è
mutevole, non è [sempre] la stessa... "Ma Tu sei sempre lo stesso" (Salmi, 102. 27 sg.)... L'uomo in se
stesso non è, poiché muta e si altera se non partecipa di Colui "che è
[sempre] lo stesso". Egli è quando vede Dio. Egli è quando vede Colui CHE
È (13); e vedendo Colui CHE È, egli inizia, secondo la sua misura, a essere
[...] Ma come? [...] Attraverso la carità» (In
Ps. 121) (14).
Forse ancor più sorprendenti queste sue
espressioni: «Osserva che parliamo e diciamo: "in quest'anno"... Di'
piuttosto: "oggi", se vuoi parlare di qualcosa nel
"presente"... Questo, pure, correggi lo, e di': "in
quest'ora". Ma di "quest'ora" che cos'hai? Alcuni dei suoi
momenti sono passati, e quelli nel futuro devono ancora venire. Di': "in
questo momento". Ma in quale momento? [...] Che cos'abbiamo dunque di
questi "anni"?» (In Ps. 76.
8).
Il tempo e l'eternità sono stati
mirabilmente discussi da Boezio, il quale è spesso citato da S. Tommaso. Per
iniziare, in De Trin. I. 4 egli
osserva che «Dio è "sempre" (semper)
poiché "sempre" è con Lui un termine di tempo presente, e c'è questa
grande differenza tra l"'ora" che è il nostro presente e
(l"'ora" che è) il presente divino: il nostro "ora" connota
il tempo che cambia e la sempiternità; mentre l"'ora" di Dio
permanente, immobile e autosussistente fa l'eternità. Aggiungi semper a aeternitas
e otterrai l'"ora" che sempre fluisce, incessante, e pertanto il
corso perpetuo del tempo che è la "sempiternità"»; e dubita che il
"sempre" di Dio sia in qualche modo una forma di tempo.
In De
consol. V. 6 egli nota che il giudizio comune di coloro che vivono con la
ragione è che Dio è eterno (aeternum)
(15), e così «consideriamo ciò che è l'eternità [...] È il possesso totale e
perfetto di una vita interminabile tutta in una volta (tota simul) […] mentre non v'è nulla nel tempo che possa abbracciare
la totalità della vita in una volta […] Infatti una cosa è vivere una vita
interminabile (che è quanto Platone attribuisce al mondo) (16), altro
abbracciare la totalità di una vita interminabile presente in tutta la sua
complessità». Dei momenti transitori del tempo egli dice che in un certo modo essi
imitano l'ora che sta immutabile, cosicché a ogni momento una cosa «sembra
essere». E così, «seguendo Platone, chiamiamo Dio "eterno" e il mondo
"perpetuo" (perpetuum)».
Poi sottolinea che la (cosiddetta) «prescienza» di Dio dovrebbe chiamarsi «la
conoscenza di un istante che non viene mai meno (piuttosto) che una prescienza,
come se concernesse il futuro. Di conseguenza si chiama non previdenza
(praevidentia) bensì provvidenza (providentia) (17), poiché, posta lontano
dalle cose inferiori, essa sorveglia tutte le cose, per così dire, dalla vetta
più alta delle cose […] e così non disturba la qualità delle cose che rispetto a
Lui sono presenti, ma che rispetto al tempo sono future».
Su queste basi Boezio è in grado di
trattare efficacemente il problema del libero arbitrio e della «pre»-destinazione.
Infatti «Dio osserva le cose "future" che procedono dal libero
arbitrio (non come future bensì) come presenti»; e la libertà di volere o non
volere non è messa in dubbio da questa presente ispezione o sorveglianza più di
quanto gli atti di un uomo in un campo lontano siano controllati dal nostro
osservarlo mentre egli agisce.
Per comprendere ciò più appieno va
ricordato che, come Boezio ha già detto (V. 1), «la libertà di volere o non
volere» è l'opera della ragione; mentre il cosiddetto atto di scelta secondo il
quale «facciamo ciò che ci piace» non è affatto l'esercizio del libero arbitrio
bensì una reazione irrazionale
e passiva a stimoli esterni; e che, come
dice S. Tommaso, l'operazione della ragione o della mente (18) (nella misura in
cui quest'ultima agisce realmente) è «di là dal tempo». Discutendo del «fato»,
Boezio ha già (IV. 6) paragonato il tempo alla circonferenza di un cerchio il
cui centro (punctum medium) (19) è l'eternità (20), ed evidenziato che «ogni
cosa è tanto più libera dal fato, quanto più si avvicina al cardine (cardo) (21)
di tutte le cose; e se aderisce saldamente alla stabilità della Mente Superna,
essendo libera dal movimento, essa trascende anche la necessità del fato":
cioè, sfugge all'efficacia causale degli atti, i quali «hanno luogo" solo
nel mondo, al quale il Liberato non appartiene più, benché possa ancora essere
in esso. In altre parole, i movimenti del libero arbitrio sono reali, ma il loro
evento è ex tempore (22): e il fatto che ci sembrino essere passati o futuri è
solo l'effetto delle nostre posizioni relativamente all'Ora dell'eternità.
Meister Eckhart: «Dio crea l'intero mondo
ora, in questo stesso istante (nū alzamāle). Tutto ciò che Dio fece seimila e più anni fa quando creò
il mondo, Dio lo fa istantaneamente (alzamāle) ora […] dove il tempo non è
mai entrato, e nessuna forma è mai stata vista [...] Parlare del mondo come creato
da Dio ieri o domani sarebbe una follia in noi; Egli crea il mondo e tutte le
cose in questo Ora presente (gegewürtig
nū) […] ciò che era mille
anni fa e ciò che sarà fra mille anni da adesso, tutto questo è lì nel presente
- tutto ciò che è lì così come ciò che è qui» (Pfeiffer, pp. 190, 192, 207, 266,
297). Inoltre, «nell'eternità non c'è né prima né poi [...] Che si possa noi
vivere in quell'eternità, così aiutaci Dio!» (ivi pp. 190, 192). Con queste
parole Meister Eckhart riassume quanto più concisamente possibile la dottrina
del Tempo (tempo) e dell'Eternità (Tempo) che abbiamo già seguito attraverso
due millenni; ed egli ne afferma l'importanza per noi - «è per questo che io
sono nato" (Pfeiffer, p. 284).
Ancora, «c'è una potenza nell'anima, non
tocca dal tempo [...] poiché Dio stesso è in questa potenza come nell'Ora
eterno (in dem ēwigen nū). Se
lo spirito fosse sempre unito a Dio in questa stessa potenza, l'uomo non
potrebbe mai invecchiare. Poiché l'Ora in cui Dio fece il primo uomo, e l'Ora in
cui l'ultimo uomo trapasserà, e l'Ora in cui io sto parlando adesso, sono tutti
lo stesso in Dio nel quale non v'è che un solo Ora [...] un'unica e medesima
Eternità [...] Prendi le prime brevi parole (di Giov. 4:23) venit hora et nunc est. Chi vuole adorare il Padre (in
ispirito e verità) deve parlo nell'Eternità con le sue aspirazioni e le sue
speranze. C'è una parte dell'anima, quella più elevata, che sta sopra il tempo
e non conosce alcunché del tempo né del corpo. Tutto ciò che accadde mille anni
fa è, nell'Eternità, non più distante di quanto lo sia questa stessa ora in cui
sono ora; né è il giorno a venire fra mille o moltissimi anni da considerarsi
più distante di quanto lo sia questa stessa ora in cui sono ora» (Pfeiffer, pp.
44-5, 57).
Così anche quando parla del mondo come di
un «cerchio» (23), centrato in Dio, le cui opere sono la sua circonferenza:
«Questo è il cerchio sul quale l'anima gira in tondo, tutto ciò che la Santa
Trinità ha operato [...] e, com'è detto nel Libro dell'Amore, "Quando
scopro che è sempre senza fine, allora mi lancio verso il centro del cerchio (daz punt des zirkels)"... Quel
punto è la potenza della Trinità, dove essa ha compiuto tutte le sue opere
restando essa stessa immota. Lì, l'anima diventa onnipotente [...] così
uni-ficata (geeiniget), essa è capace
di ogni cosa [...] il punto essenziale, dove Dio è tanto lontano quanto è
vicino a tutte le sue creature (24)... lì essa in-siste eternamente" (ēwiklīche dar bestētiger wirt, Pfeiffer, pp. 503-504). È di questo punto che
parla S. Bonaventura, quando paragona Dio a una sfera il cui centro è
dappertutto (Itin. mentis, V); è il
punto, a cui la prima rota va dintorno di Dante; e il bindu, che segna il centro di ogni maṇḍala e yantra
indiano.
E, ancora, per quanto concerne questo
Punto, che è il Punto del Tempo, «per conoscerlo dobbiamo essere in esso, di là
dalla mente e al di sopra del nostro essere creato; in quel Punto Eterno dove iniziano
e terminano tutte le nostre linee, quel Punto dove esse perdono il loro nome e
ogni distinzione, e diventano uno con lo stesso Punto, e con quello stesso Uno
che il Punto è, eppure restano sempre in se stesse nient'altro che linee che
giungono al termine» (Ruysbroeck, De
septem custodiis, cap. 19).
Tutto questo simbolismo è legato alla
dottrina che identifica le persone della «pluralità di Dèi» (Viśve
Devāḥ, cioè la gerarchia
degli Angeli, Intelligenze o Potenze), e parimenti i Giusti Deceduti, con i
raggi del Sole Intelligibile (25): come, per esempio, in RV. I. 109. 7: «Ecco quegli stessi raggi con i quali gli Antenati
si unirono»; X. 64. 13: «Ci siamo incontrati nel centro, dove Aditi conferma la
nostra parentela»; ŚB. I. 9. 3. 10: «I raggi di Colui
che splende là sono i Perfetti (sukṛtaḥ) (26) e la luce che lì è più alta, quella è Prajāpati», e II. 3. 1. 7: «I raggi,
invero, sono i Molti Dèi, e la luce che lì è più alta, quella è realmente Prajāpati, o Indra» (27); «Secondo la
teoria della processione per mezzo delle potenze, le anime sono descritte come
raggi» (Plotino, Enneadi, VI. 4. 3),
e «Lì tu ricadrai nel tuo Centro, un Raggio cosciente di quell'eterno Tutto» (Manṭiqu'ṭ Ṭair). Si osserverà che ciò,
insieme al concetto di «movimento a volontà» (entrare e uscire), preclude
qualsiasi interpretazione panteista nel senso eretico della parola (28); se non
vi fosse molteplicità nell'unità, «entrare e uscire» sarebbero privi di
significato: ciò che la dottrina implica è una «fusione senza confusione» o
«distinzione senza differenza» (bhedābheda) - un'estremità di
qualunque raggio è confusa col suo centro, l'altra è distinta da esso, e i
Perfetti sono entrambe.
Dante, quando parla dell'Eternità, fa
spesso riferimento a questo «punto (o momento) essenziale». Tutti i tempi sono
presenti a Esso («il punto a cui tutti li tempi son presenti», Paradiso, XVII. 17); là «dove s'appunta
ogni ubi e ogni quando, Par. XXIX.
12). «La natura del mondo, che quieta il mezzo e tutto l'altro intorno move,
quinci comincia come da sua meta» (Par.
XXVII. 106) (29); e «Da quel punto depende il cielo e tutta la natura» (XXVIII.
41). È un punto di luce fiammeggiante, e «distante intorno al punto un cerchio
d'igne si girava sì ratto, ch'avria vinto quel moto che più tosto il mondo
cigne» (XXVIII. 25) (30), e questo cielo «non ha altro dove che la mente
divina» (XXVII. 109) (31); «Ivi è perfetta, matura e intera ciascuna disianza;
in quella sola è ogne parte là ove sempr'era, perché non è in loco e non
s'impola […] onde così dal viso ti s'invola» (XXII. 64). Dice, inoltre, «né
prima né poscia procedette lo discorrer di Dio sovra quest'acque» (XXIX. 20) -
e, per citare Filone, «allora si esclude la nozione che l'universo sia venuto
all'esistenza "in sei giorni"» (LA.
I. 20): «A ogni istante il mondo è rinnovato, la vita giunge sempre nuova» (Rūmī, Mathnawī, I. 1142). «Non s'impola», cioè
non ha contrari, o coppie di opposti: questo è «il Paradiso in cui Tu, Dio, dimori»,
e il cui muro, come dice Nicola Cusano, «è costruito con i contrari» - fra i
quali il passato e il futuro sono, dal presente punto di vista, la coppia più
significativa, «velandoci dalla visione di Dio» (Rūmī) - e chiunque
voglia entrare deve prima vincere l'altissimo Spirito della Ragione che custodisce
l'angusto passaggio che li distingue (De
vis. Dei, cap. 9) (32). Questi contrari, di cui è fatto il mondo creato,
sono le Simplegadi, che devono essere oltrepassate da ogni vi andante diretto a
casa.
Inoltre, Nicola Cusano dice: «Qualunque
cosa sia da noi vista nel tempo, tu, Signore Iddio, non la preconcepisti così
com'è. Poiché nell'eternità in cui tu concepisci33, tutta la successione
temporale coincide in un unico e medesimo Ora Eterno. Così non vi è nulla di
passato o futuro là dove passato e futuro coincidono nel presente [...] Invero
Tu, mio Signore, che sei Tu stesso Eternità assoluta, sei, e pronunci (la Tua
Parola) di là dal tempo» (De vis. Dei, cap. 10). E così: «Attraimi, o Signore, ché
nessuno può raggiungerti se non viene attratto da Te; liberami da questo mondo
e congiungimi (jungar, rad. sanscr. yuj, sāyuja) a Te, Dio assoluto, nell'Eternità della Vita Gloriosa.
Amen» (De vis. Dei, cap. 25).
A questo punto sarà opportuno considerare
brevemente la curiosa resistenza che la mentalità contemporanea oppone al
concetto di un essere statico che sia definibile solo negando ogni ì affermazione
limitante, ogni procedere da una esperienza all'altra. L'aspetto che più
colpisce in questa resistenza è il fatto che sia quasi sempre basata su
sentimenti: la questione della verità o della falsità di una dottrina tradizionale
non viene quasi mai sollevata, e tutto ciò che sembra importare è se la dottrina
piaccia o meno. Questa è la sentimentalità di coloro che piuttosto che arrivare
a una mèta preferirebbero procedere non sino a raggiungerla ma «per tutto il
tempo», e che confondono la loro attività, che è solo un procedere non finito
dalla potenzialità all'atto, con l'essere in atto.
Così R.A. Nicholson dichiara che «per le
nostre menti gli atomi, che non hanno estensione alcuna nello spazio o nel
tempo, sembrano alquanto insostanziali» (Studies
in Islamic Mysticism, 1921, p. 154). L'obiezione può riferirsi specialmente
agli atomi ash'ariti come costituenti delle grandezze reali, ma si applica
altresì all'unico Tempo Atomico o Ora dell'Eternità che abbiamo considerato.
Come osserva W.H. Sheldon: «Gli uomini
sentono che ciò che non è esprimibile in termini temporali è privo di
significato»: ma, continua, «la nozione di un essere statico e immutabile
andrebbe compresa piuttosto come un processo così intensamente vivo, in termini
temporali estremamente veloce, da comprendere insieme inizio e fine» (Modern Schoolman, XXI. 133). Non
possiamo né dobbiamo, in effetti, ignorare che coloro che parlano di un essere
statico, immutabile e senza tempo essendo al di sopra della parzialità del
tempo, ne parlano anche come di un'immediata esperienza beatifica e del
possesso di tutte le cose che sono state o che saranno nel tempo (per non
menzionare la realizzazione di altre possibilità che non sono possibilità di
manifestazione nel tempo): non è una «vita» minorata bensì una vita più grande
che sussiste nel «nulla» che abbraccia tutte le cose, senza essere «nessuna» di
loro. Allo stesso modo gli uomini si ritraggono di fronte al Nirvāṇa (lett. «despirazione»), benché sia
proprio alla definizione di Nirvāṇa
dire che «colui che lo trova, trova tutto» 6 (sabbam etena labbhati, KhP. 8) e che esso è la «beatitudine
suprema» (paramaḥ sukham, Nikāya,
passim)!
«Il tempo eterno» (il Tempo, distinto dal
tempo che fugge), come dice Boezio, «è il possesso totale e perfetto della vita
interminabile nella sua simultaneità». La risposta a ciò che gli uomini
«sentono» quando rifuggono dall'«eternità» - proprio come rifuggono dalla
«negazione di sé», che li impressiona solo perché non hanno distinto, in loro
stessi, tra il Sé che «non divenne mai alcuno» e l'incostante Ego di
«quest'uomo, il Tal dei Tali» - si trova in parole come quelle di Meister
Eckhart: «Possedere tutto ciò che ha essere, che è ardentemente da desiderare e
che porta gioia; possederlo simultaneamente e totalmente (zemāle ungeteilet) nell'anima intera, e
ciò in Dio, rivelato nella sua perfezione svelata, dove dapprima sboccia (34),
e nel fondo della sua essenza, interamente colto lì dove lo coglie Dio stesso -
questa è la felicità. Ancora un'altra Pienezza del Tempo: se qualcuno avesse l'arte
e il potere di raccogliere il tempo e tutto ciò che accadde in seimila anni o
che accadrà sino alla fine del mondo (35), tutto ciò sintetizzato in un unico
Ora presente (ein gegenwertic nū), questo sarebbe la
"pienezza del Tempo". Quello è l'Ora dell'Eternità (daz nū
der ēwikeit), quando l'anima
conosce tutte le cose come sono in Dio, nuove e fresche e care, come io le
trovo ora» (Pfeiffer, p. 105).
Tale è quella Pienezza, che, come dicono
le Upaniṣad, «togliendole la
Pienezza, Essa resta nondimeno Piena» (BD.
V. 1). Nessun Ṣūfī, nessuno in samādhi (36), nessun
mistico occidentale, raptus, si è mai
sentito sminuito dal suo «momento d'illuminazione». Vedere «il mondo in un
granello di sabbia, e l'eternità in un'ora» - se fosse concesso - per chi non
sarebbe abbastanza? La libertà di essere come e dove e quando si vuole, o
dappertutto, o in nessun luogo - una simile libertà implica forse una privazione
solo perché la parola indipendente enuncia un bene positivo nei termini di una libertà
da tutte le limitazioni, l'esistenza delle quali è inseparabile da qualsiasi
forma di esistenza nel tempo e nello spazio? Come si fa a «sentire» che
qualcosa manca in un'«eternità» che, per definizione, «di nulla è manchevole»?
In questo «onni-conseguimento» (sarvāpti) (37) non resta alcun
desiderio insoddisfatto; né si può immaginare di essere «senza desideri» se non
quando tutti i desideri sono soddisfatti, poiché allora il desiderio riposa nel
suo oggetto. È una questione d'esperienza per coloro che ne parlano con tale
certezza, e coloro che vivranno come essi hanno vissuto, vedranno ciò che essi
hanno visto; ma quanto agli altri, una tale esperienza è da evitare o da
desiderare? (38)
Qui, dato che «il cambiamento è una
morte» - come riconoscono Platone (Eutidemo,
283 D, cfr. Parmenide, 163 A, B),
Meister Eckhart e l'intera nostra tradizione - ogni incontro è il primo
incontro, e ogni distacco è per sempre. Gli incontri e i distacchi (di cui
nascita e morte sono null'altro che casi speciali) sono possibili solo nel
tempo, e ci rallegrano o addolorano solo perché «noi» siamo o, meglio, ci
identifichiamo erroneamente con i tabernacoli psico-fisici e mutevoli che il
nostro Sé assume, e riteniamo così di essere creature del tempo. È in quanto
creature del tempo che ci addolora l'appassire dei fiori e la morte degli
amici. Gli uomini provano tali e tal altri desideri o amori (kāmāḥ) ed essi «sono reali (o veri),
ma coperti da falsità (o irrealtà) [...] Poiché, invero, se muore uno dei suoi
cari, non potrà più vederlo qui. Ma coloro che qui sono ancora vivi, e quelli
deceduti, e qualunque altra cosa uno desideri senza ottenerla, tutto ciò egli
lo trova quando entra lì» (CV. VIII. 3.
1, 2). Ciò non significa che «qui» e «lì» siano semplicemente, da un lato, qui
e ora, e, dall'altro, lì e dopo (post mortem); poiché l'universo stesso, «tutti
gli esseri e tutti i loro desideri sono contenuti (samāhitāḥ) (39) in questa "Città di
Dio» (il corpo vivente), nell'etere del cuore (40). Ma cosa resta (atiśiṣyate) (41) della
"città" quando è vinta e distrutta dalla vecchiaia?" Ciò che ne
resta è la vera (o reale) "Città di
Dio" (43) - il Sé (44) senza angoscia, senza età, immortale, il cui
desiderio è vero (o reale), i cui concetti sono reali (45)... Coloro che se ne
vanno via avendo già trovato (o conosciuto) qui il loro Sé e quei desideri (o
amori) veri, "si muovono a volontà" in ogni mondo» (CU. VIII. I. 1-6)46. E questo concetto
delle «due città» e dei desideri veri e falsi si trova in S. Agostino, ma prima
di lui, in Platone: infatti «ci sono nelle anime degli uomini falsi piaceri,
imitazioni o caricature di quelli veri» (Filebo;
40 C), dei quali i falsi piaceri (ψευδεῖς
ἡδονάι) sono affezioni, mescolate con il dolore, e quelli veri (ληθεῖς) (47) sono quelli che vengono
colti nella bellezza, soprattutto come manifesti nelle forme matematiche, e
quelli dell'apprendimento (48), nei quali non c'è commistione di dolore (Filebo; 51). Secondo Platone e S.
Agostino, nel mentre pensiamo alle cose eterne, alle cose che non mutano,
partecipiamo dell'eternità. L'eternità non è distante da noi, ma più vicina del
tempo, le estremità del quale sono invece realmente lontane, una molto davanti
e l'altra molto dietro a noi: ciò che è vero, tuttavia, è sempre stato vero e
sempre lo sarà. «Verità», nel Brahmanesimo, Buddhismo, Islam e Cristianesimo è,
così come Eternità, uno dei nomi di Dio, ed è solo la nostra dimenticanza che
ci fa pregare così: «O tu che non muti mai, dimora con me», come un Ṣūfī che desidera rendere ḥāl il suo waqt. Se il fondamento eterno dell'esistenza - dhamma - è sia qui e ora (diṭṭhe dhamme) che senza tempo (akāliko),
sarebbe meglio vedere cosa si prova a «sentirlo» qui e ora, prima di «sentirsi»
così spaventati da esso. Se, invero, non partecipiamo dell'eternità ora, forse
non lo faremo mai (49).
Esiste un altro modo in cui si può
suggerire la natura dell'esperienza dell'eternità. Si può assumere che una data
mente non possa pensare a più di una cosa alla volta. Ma ciò non significa che
la vita dell'intelletto sia solamente aritmetica. Anche il dare nomi alle cose,
che è un potere intellettuale, è l'attribuzione a molti eventi successivi di un
tipo di identità permanente (in realtà una pseudoidentità) al di fuori del
tempo; senza di ciò, la comunicazione dei sentimenti sarebbe possibile ma non
la comunicazione dei pensieri; la qual cosa indica già che il mondo
intelligibile ha più a che fare con l'eternità che con il tempo. E allo stesso
modo spazialmente, si consideri la complessità dell'arte nell'artista, cioè
della forma nella mente dell'artista, nella quale questa forma singola, benché una,
è la forma di molte cose che potrebbero essere e saranno in seguito pensate
separate. Per esempio, nel pensare a una «casa», si pensa anche a molte altre
cose, almeno al pavimento, alle pareti e al soffitto. Un esempio più complesso
è offerto dal ben noto, benché affatto unico, esempio di Mozart, che udiva le
sue composizioni non frase per frase, ma dapprima come un totum simul, e riteneva che questa «audizione reale di tutto
insieme» fosse migliore della successiva audizione di tutto per esteso.
L'esempio più complesso è quello della visione di Dante della «forma universal»
del quadro del mondo (50), della quale egli dice: «Nel suo profondo vidi che
s'interna legato con amore in un volume (51), ciò che per l'universo si
squaderna: sustanze e accidenti e lor costume, quasi conflati insieme (52) per
tal modo che ciò ch'i' dico è un semplice lume [...] A quella luce cotal si
diventa, che volgersi da lei per altro aspetto è impossibil che mai si
consenta» (Paradiso, XXXIII. 85-100).
Si può pensare anche all'operazione immediata di un «genio matematico»; e alla
visione di un Buddha, che «non opera in
termini di composti» ma si posa dove vuole, «proprio come uno potrebbe saltare la
sequenza di un testo, giungendo subito direttamente al punto» (Vism. 411). C'è anche il mistero della
possibilità della comunicazione delle idee da una mente apparentemente
circoscritta a un'altra, difficilmente
comprensibile se non assumendo un qualche elemento trascendente comune a
entrambe (53).
E, infine, c'è il fatto che esiste «una
conoscenza singola di cose contrarie», delle quali l'intelletto può essere
consapevole allo stesso tempo, quando, per esempio, considera l'idea di
«temperatura», nella quale sono incluse le nozioni di caldo e freddo (54). Da
ciò si può avere un indizio su ciò che potrebbe significare essere «liberati
dalle coppie di opposti», per esempio, da una conoscenza in termini di passato
e futuro, che, come abbiamo visto, «velano da Dio». E benché l'onniscienza non sia
affatto quantitativa, e nemmeno una mera accumulazione di conoscenza di cose,
resta comunque valido che la potenza sinottica e sintetica dell'intelletto
meramente umano ci fornisce un'analogia di ciò a cui potrebbe assomigliare il
vedere e conoscere tutte le cose in una volta, senza contrapposizione di
soggetto e oggetto, anzi, là dove «conoscere ed essere sono un'unica cosa» (55).
Non si immagina che l'Intelletto Divino sia una sorta di dizionario, ma
piuttosto una Parola o una Forma che è la forma di molte cose differenti, per
usare il linguaggio dell'esemplarismo (56).
In conclusione, benché molto possa aggiungersi
a ciò che è già stato detto (57), seguirò soltanto la persistenza del concetto
tradizionale di tempo ed eternità in alcuni poeti metafisici inglesi. Per
esempio, Herrick:
O Anni! e Secoli!
Addio, guardate, io vado
là dove so
dimorare l'Infinito
e lì i miei occhi vedranno
tutti i tempi, e come
si perdono nel Mare
della Vasta Eternità
dove mai la Luna inghiottirà
le Stelle; ma Lei,
e la Notte, saranno
annegate in un Giorno senza fine (58).
La seconda strofa di Herrick combina il
pensiero di Joshua Sylvester -
Oggi, Domani, Ieri
presso di Te non sono che un istante
con Angelo Silesio:
Wenn du das Tröpflein wirst im grossen
Meere nennen,
Denn wirst du meine Seel'im grossen Gott
erkennen (59);
E anche il magnifico Testamento di
Labadie:
«Consegno con tutto il cuore la mia anima
a Dio, restituendola come una goccia d'acqua alla sua fonte, e mi rimetto a Lui
con fiducia, pregando Dio, la mia origine e il mio oceano, che egli mi prenda
in Se stesso e mi inghiotta eternamente nell'Abisso dell'Essere (60)».
Questo tema ben noto - «la rugiada
scivola nel mare splendente» - ha, come l'analogo concetto delle scintille del
fuoco divino che sorgono da esso e a esso ritornano, e come quello dell'esule
che ritorna a casa, un lungo παράδοσις,
rintracciabile attraverso Ruysbroeck (61), Meister Eckhart (62) e Dante (63), sino
alle fonti greche in Occidente, e, in Oriente, ai Sufi, particolarmente
Shams-i-Tabrīẓ (64) e Rūmī (65) e alle fonti buddhiste (66), vediche (67) e anche cinesi (68).
Per esempio, nella Praśna Upaniṣad VI.5 (di cui si trova una versione buddhista che ne è un
equivalente quasi letterale nell'Aṅguttara Nikāya, IV. 198) troviamo:
«Proprio come i fiumi che scorrono verso
il mare, raggiungendolo tornano a casa, e i loro nomie- forme sono distrutti, e
si parla solo del "Mare", proprio così le sedici parti (kalā)
del Testimone (paridraṣṭṛ) che procedono verso la
Persona (puruṣa) (69) allorché raggiungono la Persona, tornano a casa: i
loro nomi-e-forme sono distrutti, e si parla solo della "Persona". Colui
(che comprende ciò) diventa allora senza parti (akalā), immortale
[...] Colui sul quale le parti sono stabilite, come i raggi infissi nel mozzo
della ruota, è Lui che io conosco come la Persona che va conosciuta - che la
morte non vi tormenti!»
Come ultima illustrazione
dell'universalità delle idee che abbiamo discusso sopra citerò Jan Ruysbroeck: «Poiché
se possediamo Dio nell'immersione dell'amore - cioè se siamo persi a noi stessi
- Dio è nostro e noi siamo suoi: e affondiamo eternamente e irrimediabilmente
nel nostro unico possesso che è Dio [...] E questo affondare è come un fiume
che senza pausa né ritorno sempre si versa nel mare; poiché è questo il suo
proprio luogo di riposo» (The Sparkling
Stone, cap. 9). «E ciò avviene di là dal tempo; cioè senza prima né poi, in
un Eterno Ora [...] la casa e l'inizio di ogni vita e di ogni divenire. E così
tutte le creature sono lì dentro, di là da se stesse, un unico Essere e
un'unica Vita con Dio, come nella loro Origine Eterna» (The Book of Supreme Truth, cap. 10).
Abbiamo seguito, per quanto possibile, la
storia dei significati dei concetti di tempo ed eternità: l'uno, nel quale
tutte le cose vengono e vanno, e l'altra, in cui tutto sta immutabile. Possiamo
accettare questi significati come stabiliti, senza metterli in discussione,
solo se vogliamo preservare l'integrità di questa trasmissione. Fuorché per chi
sceglie di vivere in un mondo meramente esistenziale e senza significato, essi
sono sempre stati, e sempre saranno, parte integrante dell'esistenza umana.
Poiché «l'intuizione non spaziale e non
temporale è la condizione dell'interpretazione dello stesso mondo
spazio-temporale» (70); «tutti gli stati d'esistenza, visti in principio, sono
simultanei nell'eterno ora [...] (e) chi non riesce a sfuggire al punto di
vista della successione temporale per vedere tutte le cose nella loro
simultaneità è incapace della minima concezione d'ordine metafisico» (71): e
nell'«esperienza unificata della realtà l'intero processo dclla creazione - dal
Patto Primordiale sino alla Resurrezione - è un unico istante intemporale di
automanifestazione divina» (72).
Note
* Da: Coomaraswamy
A. K., Tempo ed Eternità, traduzione
di Robert Rajko, Luni Editrice, Milano, 1996, pp. 95-120.
1 Chi sono
«i morti»? «Morto è l'uomo di ieri, poiché è morto nell'uomo di oggi, e l'uomo
di oggi muore nell'uomo di domani» (Plutarco, Moralia, 392 D).
2 Questa
«trasformazione» non si applica per nulla in maniera esclusiva alla
resurrezione dei corpi in un lontano futuro, ma (come nell'Islam) all'istante
presente dell'illuminazione, quando «l'anima, che si trovava morta in un corpo
vivente, risorge» (S. Agostino, Sermo,
LXXXVIII. 3. 3) o, come lo esprime S. Tommaso, al «primo istante al quale
inerisce la grazia».
3 A. Bowman,
Studies in the Philosophy of Religion,
1938, II, p. 346. Cfr. René Guénon: «Colui che non riesce a sfuggire al punto
di vista della successione temporale è incapace della minima concezione
d'ordine metafisico» (La Métaphysique
orientale, Parigi, 1929, p. 17).
4 «Pensa a
Dio e troverai l' ''è'' là dove l' ''è stato" e il "sarà" non
possono essere» (S. Agostino, In Joan. Evang.,
XXXVIII, 10).
5
«Subitamente (ἐξαίφνης)
risplendette una viva luce dal cielo» (Atti,
22,6); «Ecco, ora è il tempo favorevole, ecco, ora è il giorno della salvezza»
(ἰδοὺ, νῦν καιρὸς εὐπρόσδεκτος, ἰδοὺ
νῦν ἡμέρα σωτηρίας, II Cor. 6,2).
«Subitaneo» (sub-it-aneus) significa letteralmente «che va furtivamente»; e ἄφνω ha anche il senso di «misteriosamente».
Ritroviamo queste idee anche in India in relazione alla processione e
all'immanenza divine; per esempio, in RV.
I. 145. 4, dove Agni sadyo jātas
tatsāra, che Grassmann traduce
«kaum geboren schleicht» (appena nato, egli s'insinua furtivamente) - si
potrebbe dire anche «come un ladro nella notte»; cfr. Muṇḍ. Up. l. 1. 6 e
Il. 2. 16: adreśyam agrāhyam [...] sūsūkṣmam [...] guhācara [...] antaścarate
bahudhā jāyamānaḥ, e MU. II. 5: sa va eṣa sūkṣmo' grāhyodṛśyaḥ [...] ihaivāvartate. Inoltre, a proposito di
questa rapidità: «Nello stesso momento in cui lo (Dio) sono presente qui, sono
anche là» (Filone d'Alessandria, Sacr.
68); «Esso (il νοῦς) non si è
spostato come ci si sposta da un luogo a un altro, ma è là» (Ermete
Trismegisto, XVI. 2. 19); «Uno, immobile, è più rapido della mente [...]
quello, stando immobile, supera quelli che corrono» (Īśā Up., 4).
6
L'«istante» di S. Tommaso è rigorosamente atomico, e il suo argomento poggia
sul fatto che questi istanti non sono delle parti del tempo.
7 Nelle cose
sovratemporali nessun intervallo separa la causa dall'effetto e l'inizio dalla
fine. Sarebbe interessante - dal punto di vista dell'hermeneia non
dell'etimologia, evidentemente - collegare «pentimento» a repente.
8 «Il
viaggio dello spirito non è condizionato dallo spazio e dal tempo» (Rūmī, Mathnawī, III.
1980).
9 In altre
parole, «eviterna», come gli angeli, o, in quanto ragione, mortale, in quanto
intelletto, immortale (benché il termine «ragione» sia talvolta usato nel senso
di «intelletto» - del resto esso aveva in origine questo senso più elevato).
Sulle «due menti» (mortale e immortale), cfr. A.K. Coomaraswamy, On Being in One's Right Mind in «Review
of Religion», 7, 1942, pp. 32-40: «Metanoia» è un cambiamento, una
trasformazione della mente.
10 «L'ora
del tempo è lo stesso, per quanto concerne il suo soggetto, nell'intero corso
del tempo, ma differisce in un aspetto [...] in quanto è qui e lì [...]
Similmente il flusso dell'ora in quanto alternante nell'aspetto è il tempo. Ma
l'eternità resta la stessa sia secondo il soggetto che secondo l'aspetto.
Pertanto l'eternità non è la stessa cosa dell'ora del tempo» (I. 10. 4 ad 2).
Ciò è, ovviamente, aristotelico, oltreché in accordo con Boezio.
11
Etimologicamente affini, entrambe le parole possono significare sia «vita» che
«evo». La radice di IE è I, «andare» (presente anche in αἰών, εί, aevum,
aeternus, ewig, ever e aye); nel suo senso frequentativo, quello della
continuazione in un dato stato, essa implica «esistere» o «essere». Quando Agni
è contrapposto agli altri Dèi, quale «l'unico immortale», egli può esser
chiamato anche viśvāyus, «la totalità della vita», e questa
totalità è analoga alla pienezza dell'«intera vita» (sarvam āyus) d'un
uomo che non muore prematuramente. Su αἰών
(come āyus) quale periodo completo, di ogni vita particolare o di
tutta l'esistenza, vedi Aristotele, De coelo I. 9. 15; su αἰών e χρόνος, cfr. Filone, I. 496, 619 (Liddell and Scott).
12 Questo
sembra esser stato il punto di vista di Guglielmo di Ockham: «Il suo fine
precipuo nel Tractatus de Successivis è di mostrare che il movimento, il luogo
e il tempo non sono entità separate dalle rispettive realtà, cioè il corpo
mosso, il corpo localizzato e il corpo mosso nel tempo. Ockham pensa che questa
sia anche la vera opinione di Aristotele» (P. Boehner, The Tractatus de Successivis attributed to William of Ockham, St.
Bonaventura, N.Y. 1944, p. 30.
13 «Io sono
ciò che Io sono» è la versione greca di ciò che in ebraico faceva in realtà:
«Io divengo ciò che Io divengo»: il greco Lo considera come: «Lui è in Se
stesso», l'ebraico come: «Lui è in rapporto a noi», essendo divenuto «il Dio di
Isacco e il Dio di Giacobbe». Entrambi i concetti sono comuni nella tradizione
vedica; da un lato, «"Egli è", solo così può esser colto» (KU. VI. 13), dall'altro, «Tu, Agni, alla
nascita sei Varuṇa, e diventi (bhavasi) Mitra allorché acceso» (RV. V. 3. l) e «Egli divenne (abhavat) il Sole degli Uomini» (RV. l. 146. 4, cfr. Giov. 1:4).
14
«Attraverso la carità»; per esempio, la pratica di maitrī, karuṇā,
muditā, upekkhā nei brahma-vihāra buddhisti (cfr. il mio Figures of Speech or Figures of Thought,
pp. 147-48); poiché, come dice Meister Eckhart: «Dio ama tutte le creature allo
stesso modo, e le colma del suo essere; e allo stesso modo noi dovremmo estendere
il nostro amore a tutte le creature; e questo troviamo spesso tra i pagani:
l'aver raggiunto questo stato di pace ricca d'amore in virtù della loro
comprensione naturale» (Pfeiffer, p. 273).
15
Nell'edizione inglese curata da Loeb, malamente tradotto con «everlasting»
(perpetuo). Per Boezio l'eternità è in-finita, cioè senza principio né fine, ma
certo non una durata: essa non «dura»: è il tempo che «dura».
16 Non
sembra necessario discutere il problema dell'«eternità del mondo» nel presente
contesto. Farò notare solamente che il «mondo senza fine» del Cristianesimo
sembra riferirsi in un senso al mondo (quello in cui il tempo può esser detto
«interminabile»), e in un altro senso a questo mondo (quello in cui un dato
tempo ha un inizio e una fine). Proprio come nella dottrina tradizionale, vi
sono cicli che iniziano e finiscono, ma la serie dei cicli non ha né inizio né
fine.
17 Il
sanscr. prajnā, etimologicamente greco προνοία e latino pro-gnosis,
è attribuito all'onniveggente e onnisciente Sole e Sé spirituale: è la
conoscenza di tutte le cose, non derivata dall'osservazione dei loro eventi.
18 Entrambe
qui nel senso di νοῦς, intellectus vel spiritus, come in S. Agostino, De ordine, II. 19.50: «Se la ragione è immortale [...] e se io sono
la ragione, allora ciò per cui sono chiamato mortale non è mio»; non la ragione
talvolta distinta dall'intelletto, come in S. Agostino, De Trin. XII. 15.25: «Una cosa è la cognizione intellettuale delle
cose eterne, un'altra è la cognizione razionale delle cose temporali», o come
in Boezio, De consol. I. 6, dove egli
parla di se stesso come di un «animale razionale e mortale», ciò significando
che ha dimenticato che cosa egli stesso sia.
19 La «punta
de lo stelo a cui la prima rota va dintorno [...] da quel punto depende il
cielo e tutta la natura» (Dante, Paradiso,
XIII. Il, XXVIII. 41); «apri gli occhi [...] e vedrai il tuo credere [...] nel
vero farsi come centro in tondo» (Dante, Paradiso,
XIII. 49).
20 «Ad id quod est id quod gignitur, ad
aeternitatem tempus, ad punctum medium circulus, ita est fati series mobilis ad
providentiae stabilem simplicitatem».
21 Il punctum medium, chiamato sopra
«indivisibile", cioè ἄτομος.
22 Né nel
tempo né nell'eternità, ma fra i due; poiché il movimento deve cessare allorché
la mèta, il centro, è stato raggiunto; e così il movimento sarà,
figurativamente, spirale. Persino gli angeli decaduti non avrebbero potuto
cadere sino a che fossero sussistiti nella vita increata: senza una
«creazione», che necessariamente implica un qualche grado di «Separazione» dal
centro, né la Caduta né la Redenzione sono concepibili. Queste sono le due
«metà» del ciclo dell'esistenza; ma nell'eternità l'«estroversione» e
l'«introversione» coincidono: e ciò garantisce realmente l'apocatastasi finale
di ogni «scintilla caduta».
23 L'ὁ τροχὸς τῆς γενέσεως di S. Giacomo e
il bhava-cakra indiano, il ciclo del
tempo. Sul simbolismo del cerchio, cfr. Dionigi, De div. nom. V. 6; S. Tommaso d'Aquino, De principio scientiae Dei, 14; René Guénon, Le symbolisme de la croix; e il mio Vedic Exemplarism in HJAS, I, 1936, p. 45.
24 Śatapatha
Brāhmaṇa, X. 5. 2. 17: «Sia vicino che lontano; poiché in quanto
Egli è qui sulla terra, nella carne, Egli è vicino, e in quanto Egli è
Quell'Uno in quel mondo, Egli è parimenti distante».
25 «Non il
sole che tutti gli uomini vedono, ma Lui che pochi conoscono con la mente», AV. X. 8. 14; per altri paralleli, vedi
Psychiatry, VIII, 1945, p. 288, nota 7.
26 «Quale Sé
Perfetto (sukṛta = τέλος),
passai nell'increato mondo-di-Brahma» (CU.
VIII. 13).
27 Cioè il
Sole stesso, rappresentato dal disco solare, la Porta del Sole.
28 Nel senso
proprio, naturalmente, un «panteismo» è inevitabile: ché se Dio fosse meno del
Tutto, allora vi sarebbe qualcosa di esterno alla sua essenza, e pertanto egli
sarebbe non infinito, ma limitato.
29 In questa
metafora della corsa dei carri, un «circo», io credo che meta non sia
letteralmente il punto di partenza bensì il palo attorno al quale si compie la
svolta.
30
«L'imperituro Brahmā, fiamma,
più sottile del sottile, sul quale sono fondati i mondi e tutte le cose in essi»
(Muṇḍ. Up. II. 2. 2), «come una
sfolgorante ruota fiammeggiante» (MU.
VI. 24).
31 È solo in
questo senso che Dio può essere pensato come un «luogo»: τόπος nei testi gnostici, loka nelle Upaniṣad.
32 Il Logos:
«Io sono la porta, per me...»
33 Di questa
concezione Meister Eckhart parla altrove come de «l'atto di fecondazione
latente nell'eternità». Esso coincide con la nascita eterna del Verbo «per
mezzo del quale tutto è stato fatto».
34 In dem ērsten
üzbruche (al primo sboccio): così, non ancora manifestato (futuro) né
ancora nascosto (passato), bensì non manifesto-manifesto (vyakyāvyakta). Su questo stato di promessa
perfetta ed eterno sboccio, lo stato di più alta tensione concepibile, che è
anche il paradigma dell'arte ideale,
vedi il mio Theory and Practice of Art in India in «Technical Studies», III.
1934, p. 75. Questo momento perfetto avviene all' «Alba», cfr. Mayūra,
Sūryaś ataka XXVI: «Invero, al tempo
dell'inizio, quando lo splendor del Sole, come il pennello del pittore,
dischiude, come fosse (un occhio aperto o un fiore), il quadro dell'intero
universo». È come la posizione dell'arciere al momento dello scocco, quando la
freccia è sul punto di partire; e come nell'arte cinese, «l'istante
rappresentato è la pausa prima che inizi l'azione, quando il corpo è (ancora)
teso» (H. Fernald nel Burlington Magazine,
gennaio 1936, p. 26). È notevole che anche gli Shaker sostenessero che la bellezza
più elevata sia quella «peculiare ai fiori», non quella «che appartiene al
frutto maturo».
35 Cioè
attraverso tutto il tempo, nel senso allora generalmente accettato: o meglio,
come potrebbe esprimerlo un Indù, attraverso tutti i tempi, dei quali la
presente età del mondo è solo una. Lo stesso sarebbe valso per Origene.
36
Letteralmente ed etimologicamente, «sintesi».
37 «Lo
Spirito Vitale (prāṇa) è il Sé Presciente (prajnātman), insieme Vita e Immortalità [...] Chiunque si avvicini a Me
quale Vita e Immortalità, vive interamente la sua vita in questo mondo, e
ottiene l'immortalità inesauribile (akṣiti)
nel mondo della luce celeste [...] Questo è 1"'Onni-ottenimento"
nello Spirito Vitale» (Kauṣ. Up. III. 2. 3).
38 So che vi
sono uomini moderni per i quali la soddisfazione di tutti i possibili desideri
non sarebbe sufficiente; di là da ciò, essi vogliono nutrire e cercare altri
desideri non ancora soddisfatti. Sono coloro che non hanno mai compreso cosa
significhi accontentarsi di poco, e non riescono a immaginare uno stato di
contentezza anche se fosse provvisto di tutto ciò che si può desiderare; sono
uomini «che non vorrebbero vivere senza fame né sete se non potessero anche
soffrire le conseguenze naturali di queste passioni" (Platone, Filebo, 54
E); uomini che dimenticano che non si può aggiungere altro all'infinito.
39 Samāhita,
«in samādhi»: lett. ed etimologicamente, «sintetizzato».
40 «Il regno
di Dio è in voi».
41 La stessa
domanda è posta in KU. IV. 3, V. 4, e
si risponde: «Quello» cioè Brahma, Dio. Se S. Paolo potè dire: «Vivo, non già
io, ma Cristo in me», che cosa sarà «rimasto» quando quest'uomo, Paolo, morì?
«Il corpo dell'uomo è soggetto alla morte dominatrice, ma l'immagine
dell'Eternità (αἰῶνος εἴδωλον)
resta (λείπεται = atiśiṣyate) viva», Pindaro, Dirge, 131.
42 «Perché
non abbiamo quaggiù una città stabile, ma cerchiamo quella futura» (Ebrei, 13:14).
43 «Due
amori hanno creato queste due città [...] la terrena [...] e la celeste [...]
Pertanto lascia che ogni uomo si interroghi su ciò che egli ama; ed egli
scoprirà di quale [delle due] è il cittadino» (S. Agostino, De civ. Dei, XIV. 28 e In Ps. LXIV. 2);
e «Bene è che sanza termine si doglia chi, per amor di cosa che non duri, etternalmente
quello amor si spoglia [...] l'amor che drittamente spira» (Dante, Paradiso, XV. 10-13 + 2)
44 «[...] il
Sé autosussistente, senza desideri, giovane, che non invecchia e non muore, chi
lo conosce più non teme la morte» (AV.
X. 8. 44). Sulla «Città di Dio» (brahmapura),
vedi AV. X. 2. 28-33.
45 Le ultime
parole, che descrivono il Sé, vengono ripetute e sviluppate ulteriormente in MU. VII. 7. «Gli oggetti degli amori
terreni sono mortali, dolorosi, amori di ombre che cambiano e passano, poiché non
sono questi quelli che amiamo in realtà, né il bene che in realtà cerchiamo. Ma
l'oggetto vero del nostro amore è là dove possiamo essere con esso, coglierlo e
realmente possederlo, dove non esiste copertura della carne che ci escluda [da
esso]», Plotino, Enneadi, VI. 9. 9.
46 Come in Giov. (10:9): «Entrerà e uscirà e
troverà pascoli»; TU. III. 10.5: «Su
e giù per questi mondi, mangiando ciò che vuole e assumendo l'aspetto che
vuole»; RV. IX. 113. 9: "Dove il
movimento è a piacere»; The Cloud of
Unknowing, cap. 59: «[...] allora ci troveremo così rarefatti nel corpo e
nello spirito, che saremo in grado di andare fisicamente in qualunque posto
vorremo, con la stessa velocità con cui ora ci muoviamo da un posto all'altro
con il pensiero».
47 Ὁ γε τὸ ὄν λέγων καὶ τὰ ὄντα τ ληθῆ λέγει,
(Parlare di ciò che è e delle cose che sono significa dire la verità),
Eutidemo, 284 A; «Verum mihi videtur esse
id quod est» (Mi sembra che sia vero ciò che è), S. Agostino, Soliloq. lib. II, c. V, n. VIII. Ma la
verità dei fatti e la verità dei princìpi riguardano livelli diversi di
riferimento. Il sanscr. satyam (rad. as, «essere»), «verità» o «realtà», può predicarsi
tanto relativamente delle cose temporali quanto assolutamente dell'essere
immutabile. Per una discussione più piena vedi sopra nota 36 del capitolo sul
Buddhismo.
48
Naturalmente non una mera erudizione, bensì «l'apprendimento che conduce
l'anima dal divenire all'essere», conoscenza dell'«essenza che è per sempre, e
non è fatta vagare tra generazione e distruzione» (Platone, Repubblica, 485 B, 521 D): «Ogni vera
conoscenza concerne ciò che non ha colore, non ha forma ed è intangibile [...]
non una conoscenza che ha un inizio e varia a seconda che sia associata con
l'una o l'altra delle cose che noi ora chiamiamo "realtà", ma quella
che è realmente reale» (Fedro, 247):
«realmente reale» corrisponde a satyasya satyam, paramārtha-satyam, ens realissimum, τὸ ὄντως ὄν. 49 BU. I.
4.15, IV. 4.14; CU. VII. 25. 2, VIII.
1. 6; BG. XVIII. 58.
50 Il
«paradigma eterno» di Platone sul quale è modellato il mondo sensibile, Timeo, 29; «Il quadro-delmondo (jagac-citra)
dipinto dallo Spirito (il Sé di tutti gli esseri) sulla tela dello Spirito, e
nella quale esso prova gran diletto» (Śaṅkarācārya, Svātmanirūpaṇam, 95) - per Empedocle (Diels fr. 23) e per Platone (Timeo, 55 C) il Creatore dipinge, e
nell'Islam è chiamata pittore (muṣawwir, Qur'ān, LIX. 24).
Per dirla con Filone, il modello ideale della cosa che dev'esser è, per così
dire, "incisa» nella mente dell'artefice (Opif. XVI. 22).
51 Cfr.
Empedocle (Diels, fr. 26): «Portato tutto insieme in un unico ordine
dall'Amore».
52 Insieme,
ingl. «in-same», in quanto riguarda sia il tempo che lo spazio. «Il centro del
vortice, dove tutte le cose vengono insieme, in modo da essere una sola»
(Empedocle, Diel, fr. 35, 36); «Lì tutte le cose sono lo stesso e nondimeno
distinte; allo stesso modo in cui l'anima possiede la conoscenza di molte cose
senza confusione, ciascuna portando a termine il proprio compito quando risulta
necessario», com'è nel caso delle «potenze» che ineriscono a un seme (Plotino, Enneadi, VI. 9. 6): «Nū sint alliu dine gelīch in gote unde sint got selber» (Ora
tutte le cose sono uguali a Dio e identiche a Dio), (Meister Eckhart, Pfeiffer,
p. 311). Si potrebbe dire: plures, non
tamen multa, sed unum.
53 «Tutte le
proprietà umane procedono dall'Uno [...] altrimenti un uomo non potrebbe
comprendere un altro che parla» Jacob Boehme, Sig. Rer. I. 3). «In tutte le conversazioni tra due persone si fa
tacito riferimento a una natura comune. Quella terza parte, o natura comune,
non è sociale, è impersonale: essa è Dio» (William James, Varieties of Religious Experience); «Il Sé (del sé), che controlla
la parola dall'interno [...] Colui che conosce ma non è conosciuto» (BU. III.
7. 17, 23). «La coscienza è un singolare che non ha plurale» (Erwin
Schrödinger, What is life?, 1945, p.
90). Più in generale, W.M. Urban, The
Intelligible World (1929) e Language
and Reality (1939).
54 Cfr. S.
Tommaso d'Aquino, Sum. Theol. I. 75.
6, dove ciò fornisce un argomento a favore dell'incorruttibilità (immortalità)
dell'anima intellettiva.
55 A
differenza di ciò che si suppone generalmente, ciò non fu enunciato per primo
da Parmenide, fr. V. Il suo τὰ γὰρ αὺτο
νοεῖν ἔστιν τε καὶ εἶνας significa semplicemente che «ciò che può esser
pensato è la stessa cosa che può essere» (vedi Burnet, Early Greek Philosophy, 19304 p. 173, nota 2). Plotino (Enneadi, V. 9. 6) cita le parole di
Parmenide, ma benché a quel tempo era possibile che l'infinitivo fosse soggetto
di una frase (e difatti Plotino usa τὸ
εἶναι come soggetto, Enneadi,
III. 7. 6), la sua citazione intende mostrare che «nell'immateriale, conoscenza
e conosciuto sono lo stesso»: e mentre ciò implica che lì il conoscitore, la
conoscenza e il conosciuto sono lo stesso, ciò che è effettivamente predicato
difficilmente potrebbe esser altro che l'adequatio rei et intellectus della
Scolastica - o, per dirla con Platone, «il render ciò che in noi pensa simile agli
oggetti del suo pensiero», i quali, se eterni e divini, reintegreranno il
nostro essere nella sua «natura originale» (Timeo, 90). Sembra che sia stato S.
Agostino il primo a enunciare esplicitamente che in divinis vivere, conoscere
ed essere sono un'unica e medesima cosa (De
Trin. VI. 10. 11, In Joan. Evang.
XCIX. 4 e Conf. XIII. 11). Esser ciò
che si conosce non è uno status dato, ma da conquistare. Ciò che è vero nelle
condizioni presenti è che «come si pensa, così si diviene» (yac cittas tanmayo bhavati); ed è per
questo che il pensiero andrebbe purificato e trasformato, poiché se fosse
centrato su Dio così come è adesso centrato sulle cose sensibilmente
percettibili, "Chi non sarebbe liberato da questa schiavitù?» (MU. VI. 34.
4, 6).
56 Cfr. il
mio «Vedic Exemplarism» in HJAS, I,
1936, pp. 44-6. Gli Angeli, come dice Meister Eckhart, hanno meno idee e usano
meno mezzi degli uomini. Dio ha una sola idea ed è solo quella, e non ha
bisogno di alcun mezzo.
57 Ho fatto
solo un uso limitato del mirabile ed esauriente studio di F.H. Brabant, Time and Eternity in Christian Thought, 1937.
Lo studio di G.E. Mueller, «Experimental
and Existential Time» (Philosophy and
Phenomenological Research, 6, 1946, 424-35), tratta delle fonti greche e
cristiane. Io non capisco le sue parole: «Di contro a questa affermazione
assoluta dell'essere negli eventi del tempo naturale sta la negazione indù del
tempo»; poiché come potrebbe essere una «negazione del tempo» l'affermazione
che «il tempo e il senza tempo» sono entrambi forme di Dio, il Quale è «ad un
tempo dotato e privo di forma, udibile e silente» e così via; ed è certamente
vero per l'India così come la Grecia che «la bellezza e la sostanza della
cultura umana è resa manifesta nelle celebrazioni stagionali e feste annuali
dell'anima». Esiste una pregevole discussione del nostro soggetto da parte di
Alberto Rougés, nel suo Las Jerarqïas del
Ser y la Eternidad, Tucumàn, Argentina, 1943. Non ho potuto vedere Space, Time and Deity di Alexander.
Joseph Katz nel suo «Eternity - Shadow of
Time» (Review of Religion, 11,
1946, 36-45) cerca di capovolgere il concetto platonico e tradizionale
del
tempo come immagine o imitazione dell'eternità, e compie anche l'errore
molto
frequente di supporre che, essendo la soddisfazione di tutti i desideri
possibile solamente «di là dal tempo», una tale soddisfazione debba
essere
«posposta», dimenticando che il nunc aeternitatis è presente qui e ora
come
sempre è stato e sempre sarà. Di fatto, è l'utopista secolare che crede
nella
perfettibilità della società umana e ne pospone la felicità, mentre il
Ṣūfī, «figlio dell'Istante», «prende i contanti e dimentica i
crediti». Katz, inoltre, pensa che la soddisfazione di tutti i desideri
sarebbe
«priva di significato» poiché mancherebbero i bisogni che li hanno
suscitati.
Traherne fornisce la risposta: ammettendo che «non può esservi gioia
dove non
c'è desiderio», dice che «Egli (Dio) vuole infinitamente tutte le Sue
gioie
[...] e tutte quei piaceri desiderati Egli li possiede infinitamente
[...] La
sua vita in desideri e gioie è infinita, ed entrambi sono sentiti come
la Sua
Beatitudine Suprema»!
58 «Un solo
giorno, che dura e non passa», Agostino, Ps.
LXXXIX. 15. A proposito del «giorno perpetuo», vedi sopra p. 17. Cfr. anche
Meister Eckhart: «Tùffati, questo è l'annegamento». Non dovrebbe esser necessario
dire che l'«annegare», l'«anonimità», il «diventare nessuno», possono essere di
due tipi completamente diversi, a seconda che ci si tuffi nelle Acque superiori
o in quelle inferiori. Ci si ritrae dalle Acque superiori solo a causa
dell'attaccamento per l'Ego empirico e transeunte che «non è il mio Sé»: si
dovrebbe rifuggire dal tuffarsi nelle acque inferiori, poiché ciò significa la
perdita anche della propria individualità, di modo che non si possiede più,
parlando propriamente, un nome bensì solo un numero, come un prigioniero condannato,
o, come nelle società proletarie, si diventa un'unità statistica e non più una
persona. «Essersi perduti» nell'infinito, ed essersi perduti nell'indeterminato
sono, letteralmente, mondi a parte, proprio come sono a parte cielo e inferno.
«Quando tornerò nuovamente in Varuṇa?»,
RV. VII. 86. 2; «l'Unico Oceano» (RV. X. 5.1).
59 (Se tu
nel grande mare darai nome alla goccia, allora potrai nel grande Iddio
riconoscer la mia anima), Angelus Silesius, Cherubinische
Wandersmann, VI. 172 (cfr. IV. 137).
60 Citato da
Dean Inge, Philosophy of Plotinus,
seconda ediz., I. 121.
61 Vedi
sotto: Ruysbroeck fa costantemente uso del termine «immersione», un esatto
equivalente del pali ogadha, nella comune espressione amat'ogadha «immersione,
o tuffo, nel Senza Morte», pensato come un «insondabile mare».
62 «Come la
goccia diventa l'oceano, così l'anima è deificata, perdendo il proprio nome e
la propria opera, ma non la sua essenza», Pfeiffer, p. 314.
63 «Nostra
pace è quel mare, al qual tutto si move», Dante, Par., III. 85-6.
64 «Entra
nell'Oceano, che la tua goccia possa diventare un Mare che è come cento
"mari di Omān"», Dīwān (Nicholson, Ode 12).
65 Mathnawī, IV. 2612 e passim.
66 A. IV.
202; Udāna 55; M. I. 487.
67 CD. VI. 10. 1, Muṇḍ. Up. III. 2. 8, e Praśna Up. VI. 5.
Cfr. RV. VII. 86. 2: «Quando tornerò in Varuṇa?» (il Mare) = Brahma «il cui mondo sono le Acque», Kauṣ.
Up. I. 7.
68 Tao Te Ching, 32: «Al Tao giungerà tutto
ciò che è sotto il cielo, come ruscelli e torrenti confluiscono in un grande
fiume o mare». Nella presente opera ho omesso le fonti cinesi perché non le
conosco a sufficienza.
69 Il
«Testimone» e la «Persona» sono uno, ma considerati rispettivamente sub specie
temporis e sub specie aeternitatis. «Testimone (upadraṣṭṛ),
confermatore, supporto, fruitore, Grande Signore, e anche il Sé Supremo, così è
chiamata la Suprema Persona quando è in questo corpo» (BG. XIII. 22); «La Persona immanente, fruitrice» (MU. VI. IO). Quegli è «colui che guardò
fuori attraverso gli esseri» (KD. IV.
6); il «Veggente (draṣṭṛ) invisibile [...] oltre al
quale non v'è altri che veda» (BU.
III. 7. 23 e III. 8. Il). Questa persona è anche Agni in quanto upadraṣṭṛ, JB. III. 26, a somiglianza del quale il Purohita funge da auriga e
upadraṣṭṛ del re per vedere che
egli non agisca male, JB. III. 94.
Così, allora, il Testimone è il nostro «Uomo interiore», dal quale nulla che
sia fatto dall'«uomo esteriore» può esser celato. Ancora, «la Persona qui,
Colui che comprende, è egli stesso quel Progenitore (Prajāpati) che è
l'Anno, le cui quindici parti sono le sue ricchezze, la sedicesima, quella che
resta (kṣiyate, κτίξω),
paragonata al mozzo d'una ruota, è rappresentata dalla notte di luna nuova attorno
alla quale girano le quindicine crescenti e quelle calanti» (BU. I. 5.14,15): è con questa sedicesima
parte residua (atisiṣṭā), quando le altre parti sono
state eliminate, che si comprendono i Veda (CU.
VI. 7). Questa è la «Persona» residua la cui unità (ekatvam) è raggiunta trascendendo tutti i suoi aspetti (MD. IV. 6), e di là dalla quale non v'è
altro (KU. III. Il). Questo è anche
il Residuo (ucchiṣṭam) che A V. XI. 7 descrive come la «sintesi (samādhi)
di tutte le cose» e l'«origine di tutto»: questa è la Fons Vitae, e non conosco alcun altro testo in cui la pienezza del
contenuto dell'Eternità sia così adeguatamente espressa.
70 Wilbur M.
Urban, The Intelligible World, 1929,
p. 268.
71 René
Guénon, La métaphysique orientale,
1939, pp. 15, 17.
72
R.A. Nicholson, Commento a Rūmī, Mathnawī, I, 2110-11.