René Guénon
Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi
4. Quantità spaziale e spazio qualificato
Quanto
precede ha messo in luce che l’estensione non è un puro e semplice modo
d’essere della quantità, o in altri termini che, sebbene si possa parlare di
quantità estesa o spaziale, l’estensione stessa non è riducibile per questo
esclusivamente alla quantità; su tale punto è comunque doveroso insistere,
tanto più che esso è particolarmente importante per far risaltare
l’insufficienza del «meccanicismo» cartesiano, nonché delle altre teorie
fisiche da esso più o meno direttamente derivate nel succedersi dei tempi
moderni.
A questo proposito si può anzitutto osservare come lo spazio, per essere puramente quantitativo, dovrebbe essere interamente omogeneo, e tale che le sue parti non possano essere distinte tra loro per nessun carattere diverso dalle loro rispettive grandezze; sarebbe come supporre che esso sia un contenente senza contenuto, cioè qualcosa che, di fatto, non può esistere isolatamente nella manifestazione, ove il rapporto contenente-contenuto, per la sua stessa natura di correlazione, suppone necessariamente la presenza simultanea dei due termini.
Tuttavia ci si può porre, con qualche apparenza di ragione, il problema di sapere se lo spazio geometrico sia concepibile come dotato di una simile omogeneità, il che, in ogni caso, non può convenire allo spazio fisico, cioè a quello che contiene i corpi, la cui sola presenza, evidentemente, basta a determinare una differenza qualitativa fra le porzioni di questo spazio che essi rispettivamente occupano; orbene, è appunto dello spazio fisico che Cartesio intende parlare, perché altrimenti la sua stessa teoria non significherebbe niente, in quanto essa non potrebbe realmente applicarsi al mondo di cui pretende fornire la spiegazione.[1] Sarebbe inutile obiettare che ciò che si trova al punto di partenza di questa teoria è uno «spazio vuoto», perché, in primo luogo, ci si troverebbe ricondotti alla concezione di un contenente senza contenuto, e d’altronde il vuoto, non essendo una possibilità di manifestazione, non potrebbe avere alcun posto nel mondo manifestato;[2] in secondo luogo, dal momento che Cartesio riduce tutta intera la natura dei corpi all’estensione, deve per conseguenza supporre che la loro presenza non aggiunga effettivamente niente a quanto l’estensione è già di per se stessa, e, in effetti, le diverse proprietà dei corpi non sono per lui che semplici modificazioni dell’estensione; ma allora, da dove possono venire queste proprietà, se esse non sono in qualche modo inerenti all’estensione stessa e come potrebbero esserlo se la natura di quest’ultima fosse sprovvista di elementi qualitativi? Avremmo a che fare con qualcosa di contraddittorio e, per la verità, non oseremmo affermare che questa contraddizione, come pure molte altre, non sia implicita nell’opera di Cartesio; questi, come i materialisti più recenti, che a giusto titolo possono considerarsi suoi discepoli, pare in definitiva voler trarre il «più» dal «meno». In fondo, dire che un corpo non è altro che estensione, se la si intende quantitativamente, significa affermare che la sua superficie e il suo volume, misuranti la porzione d’estensione occupata, sono il corpo in se stesso, con tutte le sue proprietà, il che è manifestamente assurdo; oppure, per intenderla diversamente, bisogna ammettere che l’estensione in se stessa abbia qualcosa di qualitativo, ma allora essa non può più servire di base ad una teoria esclusivamente «meccanicistica».
A questo proposito si può anzitutto osservare come lo spazio, per essere puramente quantitativo, dovrebbe essere interamente omogeneo, e tale che le sue parti non possano essere distinte tra loro per nessun carattere diverso dalle loro rispettive grandezze; sarebbe come supporre che esso sia un contenente senza contenuto, cioè qualcosa che, di fatto, non può esistere isolatamente nella manifestazione, ove il rapporto contenente-contenuto, per la sua stessa natura di correlazione, suppone necessariamente la presenza simultanea dei due termini.
Tuttavia ci si può porre, con qualche apparenza di ragione, il problema di sapere se lo spazio geometrico sia concepibile come dotato di una simile omogeneità, il che, in ogni caso, non può convenire allo spazio fisico, cioè a quello che contiene i corpi, la cui sola presenza, evidentemente, basta a determinare una differenza qualitativa fra le porzioni di questo spazio che essi rispettivamente occupano; orbene, è appunto dello spazio fisico che Cartesio intende parlare, perché altrimenti la sua stessa teoria non significherebbe niente, in quanto essa non potrebbe realmente applicarsi al mondo di cui pretende fornire la spiegazione.[1] Sarebbe inutile obiettare che ciò che si trova al punto di partenza di questa teoria è uno «spazio vuoto», perché, in primo luogo, ci si troverebbe ricondotti alla concezione di un contenente senza contenuto, e d’altronde il vuoto, non essendo una possibilità di manifestazione, non potrebbe avere alcun posto nel mondo manifestato;[2] in secondo luogo, dal momento che Cartesio riduce tutta intera la natura dei corpi all’estensione, deve per conseguenza supporre che la loro presenza non aggiunga effettivamente niente a quanto l’estensione è già di per se stessa, e, in effetti, le diverse proprietà dei corpi non sono per lui che semplici modificazioni dell’estensione; ma allora, da dove possono venire queste proprietà, se esse non sono in qualche modo inerenti all’estensione stessa e come potrebbero esserlo se la natura di quest’ultima fosse sprovvista di elementi qualitativi? Avremmo a che fare con qualcosa di contraddittorio e, per la verità, non oseremmo affermare che questa contraddizione, come pure molte altre, non sia implicita nell’opera di Cartesio; questi, come i materialisti più recenti, che a giusto titolo possono considerarsi suoi discepoli, pare in definitiva voler trarre il «più» dal «meno». In fondo, dire che un corpo non è altro che estensione, se la si intende quantitativamente, significa affermare che la sua superficie e il suo volume, misuranti la porzione d’estensione occupata, sono il corpo in se stesso, con tutte le sue proprietà, il che è manifestamente assurdo; oppure, per intenderla diversamente, bisogna ammettere che l’estensione in se stessa abbia qualcosa di qualitativo, ma allora essa non può più servire di base ad una teoria esclusivamente «meccanicistica».
Ora queste
considerazioni, pur dimostrando che la fisica cartesiana non può essere valida,
non sono peraltro ancora sufficienti a stabilire nettamente il carattere
qualitativo dell’estensione; si potrebbe dire, in effetti, che, se non è vero
che la natura dei corpi si riduce all’estensione, la ragione ne è che, appunto,
essi non prendono di quest’ultima se non gli elementi quantitativi. Ma qui si
presenta immediatamente la seguente osservazione: fra le determinazioni
corporee che sono incontestabilmente d’ordine puramente spaziale, e che quindi
possono veramente essere considerate come modificazioni dell’estensione, non
c’è soltanto la grandezza dei corpi, ma anche la loro situazione: ma
quest’ultima è ancora qualcosa di puramente quantitativo? I sostenitori della
riduzione alla quantità diranno senza dubbio che la situazione dei diversi
corpi è definita dalle loro distanze, e che la distanza è appunto una quantità:
la quantità d’estensione, cioè, che li separa, così come la loro grandezza è la
quantità d’estensione che essi occupano; ma basta veramente questa distanza a
definire la situazione dei corpi nello spazio? Di un’altra cosa bisogna tener
conto, ed è la direzione secondo cui questa distanza deve essere calcolata; ma,
poiché dal punto di vista quantitativo la direzione deve essere indifferente;
in quanto, sotto questo rapporto, lo spazio non può essere considerato se non
come omogeneo, ne deriva che le diverse direzioni non possono essere distinte
le une dalle altre; se dunque la direzione interviene effettivamente nella
situazione, e se essa, proprio come la distanza, è un elemento puramente
spaziale, ne consegue che, nella natura stessa dello spazio, vi è qualcosa di qualitativo.
Per
esserne ancor più certi, lasceremo da parte lo spazio fisico ed i corpi per
prendere in esame soltanto lo spazio propriamente geometrico, il quale, se così
si può dire, è certamente lo spazio ridotto a se stesso; per studiare questo
spazio, è certo che la geometria faccia appello soltanto a nozioni strettamente
quantitative? Questa volta, beninteso, si tratta semplicemente della geometria
profana dei moderni, ma se, diciamolo subito, si trova anche qui qualcosa di
irriducibile alla quantità, non ne risulterà immediatamente che nel campo della
scienza fisica è ancor più impossibile e più illegittimo pretendere di tutto
ricondurre ad essa? Qui non intendiamo nemmeno parlare della situazione, poiché
quest’ultima svolge una funzione di qualche rilievo solo in talune branche
particolari della geometria che a rigore si potrebbe anche rifiutare di
considerare come parte integrante della geometria pura;[3] ma,
nella geometria più elementare, non c’è soltanto la grandezza delle figure da
considerare, bensì anche la loro forma; o forse qualche studioso di geometria
più compenetrato dalle concezioni moderne oserebbe sostenere che, per esempio,
un triangolo ed un quadrato di uguale superficie sono una stessa ed unica cosa?
Potrà soltanto dire che queste due figure sono «equivalenti» sottintendendo
evidentemente «dal punto di vista della grandezza»; ma sarà obbligato a
riconoscere che, sotto un altro rapporto, cioè quello della forma, c’è qualcosa
che li differenzia, e se l’equivalenza di grandezza non implica la similitudine
di forma, è perché quest’ultima non è riducibile alla quantità. E andremo anche
più lontano: c’è tutta una parte della geometria elementare a cui le
considerazioni quantitative sono estranee, cioè la teoria delle figure simili;
la similitudine, in effetti, si definisce esclusivamente mediante la forma ed è
del tutto indipendente dalla grandezza delle figure, il che implica che essa è
d’ordine puramente qualitativo.[4] Se
ora ci domandiamo che cosa sia essenzialmente questa forma spaziale, osserveremo
che essa è definibile mediante un insieme di tendenze in direzione: in ogni
punto di una linea la tendenza in questione è determinata dalla sua tangente, e
l’insieme delle tangenti definisce la forma di quella linea; lo stesso dicasi
per le superfici, nella geometria a tre dimensioni, se si sostituisce la
considerazione delle rette tangenti con quella dei piani tangenti; è evidente
che ciò è valido tanto per i corpi quanto per le semplici figure geometriche,
poiché la forma di un corpo non è altro che la superficie stessa da cui è
delimitato il suo volume. Arriviamo dunque, e ciò che abbiamo detto a proposito
della situazione dei corpi permetteva già di prevederlo, a questa conclusione:
è la nozione di direzione quella che in definitiva rappresenta il vero elemento
qualitativo inerente alla natura stessa dello spazio, così come la nozione di
grandezza ne rappresenta l’elemento quantitativo; e così lo spazio, tutt’altro
che omogeneo, ma determinato e differenziato dalle sue direzioni, è ciò che
possiamo chiamare spazio «qualificato».
Orbene,
non soltanto dal punto di vista fisico, ma, come abbiamo visto, anche dal punto
di vista geometrico, è proprio questo spazio «qualificato» il vero spazio; lo
spazio omogeneo, in effetti, non ha alcuna esistenza, a voler parlare
propriamente, in quanto non è nient’altro che una semplice virtualità. Per
poter essere misurato, cioè, secondo le nostre precedenti spiegazioni, per
poter essere effettivamente realizzato, lo spazio deve necessariamente essere
riferito a un insieme di direzioni definite; queste direzioni, d’altronde,
appaiono come raggi emanati da un centro, a partire dal quale formano la croce
a tre dimensioni, e non è nemmeno il caso di ricordare una volta ancora la
funzione considerevole che esse svolgono nel simbolismo di tutte le dottrine
tradizionali.[5] Si potrebbe forse anche
suggerire che è proprio restituendo alla considerazione delle direzioni dello
spazio la sua importanza reale che sarebbe passibile restituire alla geometria,
in gran parte almeno, il senso profondo da essa perduto; ma una cosa del
genere, non possiamo nasconderlo, richiederebbe un lavoro che potrebbe condurre
molto lontano, come è facile convincersene se si pensa all’influenza effettiva
esercitata da questa considerazione, a diversi riguardi, su tutto ciò che si
riferisce alla costituzione stessa delle società tradizionali.[6]
Lo spazio,
così come il tempo, è una delle condizioni che definiscono l’esistenza
corporea, condizioni che sono però diverse dalla «materia», o meglio dalla
quantità, benché con questa si combinino naturalmente; esse sono meno
«sostanziali», quindi più vicine all’essenza, ed è questo in effetti ciò che implica
l’esistenza in esse di un aspetto qualitativo; l’abbiamo visto per lo spazio e
lo vedremo anche per il tempo. Prima di arrivare a questo, sottolineeremo
ancora che l’inesistenza di uno «spazio vuoto» è sufficiente a dimostrare
l’assurdità di una delle troppo famose «antinomie» cosmologiche di Kant:
chiedersi «se il mondo è infinito, o se è limitato nello spazio», è una
questione assolutamente priva di senso: è impossibile che lo spazio si estenda
al di là del mondo per contenerlo, perché si tratterebbe allora di uno spazio
vuoto ed il vuoto non può contenere alcunché; è invece lo spazio ad essere nel
mondo, cioè nella manifestazione, e, se ci si limita a prendere in esame il
solo ambito della manifestazione corporea, si potrà dire che lo spazio è coestensivo
a tale mondo essendone una delle condizioni; ma questo mondo non è più infinito
dello spazio stesso, perché, come quest’ultimo, non contiene tutte le
possibilità, ma rappresenta soltanto un certo ordine di possibilità particolari
ed è limitato alle determinazioni costituenti la sua stessa natura. Diremo
ancora, per non dovere ritornare su questo argomento, che è ugualmente assurdo
chiedersi «se il mondo è eterno, o se è cominciato nel tempo»; per ragioni del
tutto analoghe, è in realtà il tempo che è cominciato nel mondo, se si tratta
della manifestazione universale, o con il mondo, se si tratta della
manifestazione corporea; ma il mondo non è affatto eterno per questo perché ci
sono anche inizi intemporali; il mondo non è eterno perché è contingente, o, in
altri termini, esso ha un inizio come avrà una fine perché non è il principio
di se stesso, o perché non contiene questo principio che gli è tuttavia
necessariamente trascendente. In tutto ciò non vi sono difficoltà di sorta, ed
è per questo che buona parte delle speculazioni dei filosofi moderni è fatta
solo di questioni mal impostate e di conseguenza insolubili, suscettibili
dunque di dar luogo a discussioni indefinite; esse, però, svaniscono del tutto
dal momento in cui, esaminate al di fuori di ogni pregiudizio, siano ridotte a
ciò che in realtà sono, cioè a semplici prodotti della confusione che
caratterizza la mentalità attuale. La cosa più curiosa è che anche questa
confusione sembra avere una sua «logica», poiché, durante molti secoli e in tutte
le diverse forme che ha rivestito, essa ha sempre costantemente teso in uno
stesso senso; ma questa «logica» altro non è, in fondo, che la conformità con
il percorso stesso del ciclo umano, a sua volta dettato dalle condizioni
cosmiche stesse; e ciò ci riporta direttamente alle considerazioni inerenti
alla natura del tempo, e a quelle che, per contrapposto alla concezione
puramente quantitativa che ne hanno i «meccanicisti», possiamo chiamare le sue
determinazioni qualitative.
[1] È vero che Cartesio, all’inizio della sua fisica, pretende soltanto di costruire un mondo ipotetico mediante certi dati riconducibili all’estensione e al movimento; ma, poiché in seguito si sforza di dimostrare che i fenomeni che si produrrebbero in un mondo del genere sono precisamente quelli stessi che si constatano nel nostro, è chiaro che, nonostante questa precauzione esclusivamente verbale, egli vuol concludere che quest’ultimo è effettivamente costituito come quello che egli aveva inizialmente supposto.
[2] Ciò vale ugualmente contro l’atomismo, poiché questo, non ammettendo per definizione alcuna esistenza positiva diversa da quella degli atomi e delle loro combinazioni, è necessariamente condotto a supporre che tra loro esista un vuoto nel quale essi possono muoversi.
[3] Quale per esempio la geometria descrittiva o la cosiddetta analysis situs secondo certi studiosi di geometria.
[4] Leibnitz l’ha espresso con questo aforisma: «Æqualia sunt ejusdem quantitatis; similia sunt ejusdem qualitatis».
[5] A questo proposito ci si dovrà riferire alle considerazioni da noi esposte, con tutti gli sviluppi ad esse connesse, nel Symbolisme de la Croix.
[6] Nella fattispecie, si dovrebbero esaminare qui tutte le questioni d’ordine rituale riferibili più o meno direttamente all’«orientazione»; evidentemente non possiamo insistervi, e ci limiteremo a menzionare come sia in tal modo che, tradizionalmente, vengono determinate non solo le condizioni per la costruzione degli edifici, si tratti di templi o di case, ma anche quelle per la fondazione delle città. L’orientazione delle chiese è l’ultimo vestigio che ne è rimasto in Occidente fino all’inizio dei tempi moderni, l’ultimo almeno dal punto di vista «esteriore», poiché, per quanto riguarda le forme iniziatiche, considerazioni di questo genere, benché oggi generalmente incomprese, vi hanno sempre conservato il loro posto simbolico, anche quando, nel presente stato di degenerazione di tutte le cose, si è creduto di potersi dispensare dall’osservare la realizzazione effettiva delle condizioni che esse implicano, e di contentarsi, a questo proposito, di una rappresentazione semplicemente «speculativa».
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