René Guénon
Iniziazione e realizzazione spirituale
XXVII - Follia apparente e saggezza nascosta
Alla fine del capitolo precedente, facevamo allusione a
certi modi d’agire più o meno straordinari, i quali, a seconda dei casi,
possono procedere da ragioni molto diverse: in linea generale si può dire che
tali ragioni rivelano una diversa considerazione dell’azione esteriore da
quella accettata dalla maggioranza degli uomini, e che, a questa azione presa
in se stessa, non viene accordata l’importanza che ordinariamente le si
attribuisce; ma a questo proposito è opportuno stabilire delle distinzioni.
A tutta prima dobbiamo precisare che il distacco nei confronti dell’azione, di cui parlavamo a proposito del «non-agire», è innanzitutto una perfetta indifferenza per quel che riguarda i risultati che se ne possono ottenere, poiché questi risultati, di qualunque genere siano, non influenzano più realmente l’essere che è giunto al centro della «ruota cosmica». È evidente inoltre, che un tale essere non agirà mai per bisogno d’agire, e che d’altronde, se deve agire per un motivo qualsiasi, pur essendo pienamente cosciente che quest’azione è soltanto apparenza contingente e come tale illusoria dal suo punto di vista (non diciamo, ben inteso, dal punto di vista degli altri esseri che ne sono testimoni), non è detto che debba compierla in modo esteriormente diverso da quello degli altri uomini, a meno che ciò, in casi determinati, non sia richiesto da motivi particolari. Si capirà senza difficoltà che un comportamento del genere è qualcosa di completamente diverso dall’atteggiamento dei quietisti o di altri mistici più o meno «irregolari»; costoro, nella pretesa di tenere l’azione in non cale (quando invece sono ben lungi dall’essere arrivati al punto in cui essa appare come puramente illusoria), trovano soprattutto un pretesto per fare indifferentemente qualsiasi cosa secondo gli impulsi della parte istintiva o «subcosciente» del loro essere, e ciò rischia evidentemente di portare ad ogni genere di abusi, di disordini, e di deviazioni, ed in ogni caso ha almeno il grave pericolo di consentire alle possibilità inferiori uno sviluppo libero e senza controllo, quando invece si dovrebbe giungere al loro dominio mediante uno sforzo, che del resto sarebbe incompatibile con l’estrema passività caratteristica dei mistici di questo genere.
A tutta prima dobbiamo precisare che il distacco nei confronti dell’azione, di cui parlavamo a proposito del «non-agire», è innanzitutto una perfetta indifferenza per quel che riguarda i risultati che se ne possono ottenere, poiché questi risultati, di qualunque genere siano, non influenzano più realmente l’essere che è giunto al centro della «ruota cosmica». È evidente inoltre, che un tale essere non agirà mai per bisogno d’agire, e che d’altronde, se deve agire per un motivo qualsiasi, pur essendo pienamente cosciente che quest’azione è soltanto apparenza contingente e come tale illusoria dal suo punto di vista (non diciamo, ben inteso, dal punto di vista degli altri esseri che ne sono testimoni), non è detto che debba compierla in modo esteriormente diverso da quello degli altri uomini, a meno che ciò, in casi determinati, non sia richiesto da motivi particolari. Si capirà senza difficoltà che un comportamento del genere è qualcosa di completamente diverso dall’atteggiamento dei quietisti o di altri mistici più o meno «irregolari»; costoro, nella pretesa di tenere l’azione in non cale (quando invece sono ben lungi dall’essere arrivati al punto in cui essa appare come puramente illusoria), trovano soprattutto un pretesto per fare indifferentemente qualsiasi cosa secondo gli impulsi della parte istintiva o «subcosciente» del loro essere, e ciò rischia evidentemente di portare ad ogni genere di abusi, di disordini, e di deviazioni, ed in ogni caso ha almeno il grave pericolo di consentire alle possibilità inferiori uno sviluppo libero e senza controllo, quando invece si dovrebbe giungere al loro dominio mediante uno sforzo, che del resto sarebbe incompatibile con l’estrema passività caratteristica dei mistici di questo genere.
Ci si può anche chiedere fino a che punto l’indifferenza,
che in simili casi si affetta, sia proprio reale (ma può esserlo veramente per
chi non sia giunto al centro, e perciò non sia effettivamente affrancato da
tutte le contingenze «periferiche»?), in quanto talora si vedono questi stessi
mistici darsi a stravaganze perfettamente volute: è così che i quietisti
propriamente detti, quelli della fine del XVII secolo, avevano formato tra loro
una associazione detta «Santa Infanzia», in cui si applicavano ad imitare tutti
i modi d’agire e di parlare dei bambini. Nelle loro intenzioni si trattava di
mettere in pratica, per quanto possibile alla lettera, il precetto evangelico
di «diventare come bambini»; ma questa è veramente la «lettera che uccide», e
ci si può stupire che un uomo come Fénelon non abbia provato ripugnanza a
prestarsi ad una simile parodia, dato che è quasi impossibile qualificare
diversamente l’imitazione esteriore dei bambini da parte degli adulti,
imitazione che ha inevitabilmente un carattere artificiale e forzato, e per
conseguenza qualcosa di caricaturale. In ogni caso questa simulazione, che
altro non era in definitiva, non si accordava granché con la concezione
quietista secondo la quale l’essere deve tener la sua coscienza in qualche modo
separata dall’azione, dunque mai applicarsi a compiere quest’ultima in un modo
piuttosto che in un altro. Con ciò non vogliamo dire che una certa simulazione,
fosse pur quella della follia (e quella dell’infanzia dopo tutto non ne è molto
lontana quanto alle apparenze), non possa talora essere giustificata anche in
semplici mistici; ma questa giustificazione è valida soltanto alla condizione
di porsi da un punto di vista diverso da quello del quietismo. In particolare,
abbiamo in mente qui certi casi che di frequente si incontrano nelle forme
orientali del Cristianesimo (ove d’altronde lo stesso misticismo, è bene
notarlo, non ha lo stesso significato della sua forma occidentale): in effetti,
l’agiografia orientale conosce vie di santificazione strane ed insolite, come
quella dei «folli in Cristo», i quali commettono atti stravaganti sia per
nascondere i loro doni spirituali, agli occhi di quelli che li circondano,
sotto l’orrida apparenza della follia, sia piuttosto per liberarsi dei legami
di questo mondo, nella loro espressione più intima ed imbarazzante per lo
spirito, quella del nostro «io sociale»[1].
Si può capire che tale apparenza di follia rappresenti effettivamente un mezzo,
benché forse non sia il solo, per sfuggire ad ogni curiosità indiscreta così
come a qualsiasi obbligo sociale difficilmente compatibile con lo sviluppo
spirituale; ma è importante osservare che si tratta allora di un atteggiamento
atto a costituire una specie di «difesa» nei confronti del mondo esteriore, e
non come nel caso dei quietisti di cui parlavamo testé, di un mezzo che
dovrebbe di per se stesso condurre all’acquisizione di certi stati interiori.
Una simulazione del genere è però molto pericolosa, perché soprattutto il
mistico, il quale, per definizione stessa, non è mai interamente padrone dei
suoi stati, può essere facilmente condotto, a poco a poco, ad una follia reale;
d’altronde, fra la simulazione pura e semplice, e la follia propriamente detta,
ci possono essere diversi gradi di squilibrio più o meno accentuato, ed ogni
squilibrio è necessariamente un ostacolo che, fin quando sussiste, si oppone
allo sviluppo armonioso e completo delle possibilità superiori dell’essere.
Questo ci conduce a prendere in esame un altro caso, che
esteriormente può sembrare assai simile al succitato, mentre invece è assai
diverso sotto molti rapporti; è il caso di quelli che nell’Islâm sono
dichiarati i majâdhîb; costoro
presentano in effetti un aspetto stravagante, che ricorda molto quello dei
«folli in Cristo» di cui abbiamo parlato, benché qui non si tratti più di
simulazione, né tanto meno di misticismo, anche se ad un osservatore
superficiale può molto facilmente darne l’illusione. Il majdhûb appartiene normalmente ad una tarîqah, e quindi ha seguito una via iniziatica almeno ai suoi
primi stadi, il che, come abbiamo detto sovente, è incompatibile con il
misticismo; ad un certo momento però, si è esercitata su di lui, dal lato
spirituale, un’«attrazione» (jadhb da
cui il nome majdhûb) la quale, in
mancanza di una preparazione adeguata e di un’attitudine sufficientemente
«attiva», ha provocato uno squilibrio e come una «scissione», si potrebbe dire,
fra i diversi elementi del suo essere. La parte superiore, invece di attrarre a
sé la parte inferiore e di farla partecipare nella misura del possibile al
proprio sviluppo, se ne distacca e la lascia per così dire indietro[2];
da ciò non può che risultare una realizzazione frammentaria e più o meno
disordinata. In effetti, dal punto di vista di una realizzazione completa e
normale, nessuno dei componenti dell’essere è veramente trascurabile, nemmeno
quelli che, appartenendo ad un ordine inferiore, devono perciò esser
considerati come dotati di una minore realtà (ma mai come completamente privi
di essa); pertanto bisogna saper sempre mantenere tutte le cose al posto che
loro conviene nella gerarchia dei gradi dell’esistenza; e ciò è valido anche
per l’azione esteriore la quale, in definitiva, è appunto l’attività propria ad
alcuni di questi elementi. Ma, incapace di «unificare» il suo essere, il majdhûb perde terreno e va come «fuori
di sé»; e per il fatto che non è più padrone dei suoi stati, ma solamente per
questo, è paragonabile ai mistici; e benché non sia in realtà né un folle né un
simulatore (quest’ultima parola non dovendo qui necessariamente esser presa in
senso sfavorevole, come già si sarà potuto comprendere da quel che precede),
egli presenta spesso tuttavia le apparenze della follia[3].
Per quanto riguarda la via iniziatica, si ha, nella fattispecie, una deviazione
incontestabile, come ve n’è anche, quantunque d’un genere un po’ diverso,
presso i produttori «di fenomeni» più o meno straordinari, quali s’incontrano
specie in India; per di più, oltre al fatto che sia gli uni e sia gli altri
hanno in comune uno sviluppo spirituale che non potrà mai arrivare alla
perfezione, vedremo subito un’ulteriore ragione per accostare questi due casi.
Quanto abbiamo detto è naturalmente applicabile ai veri majâdhîb; ma accanto a questi, possono
esserci anche dei falsi majâdhîb, che
ne prendono volontariamente le apparenze senza esserlo realmente; ed è
soprattutto qui che bisogna fare molta attenzione per osservare le distinzioni
essenziali, in quanto questa stessa simulazione può essere di due specie del
tutto opposte. Da un lato ci sono in effetti i simulatori volgari, che si
potrebbero anche chiamare i «contraffattori», i quali trovano comodo farsi
passare per majâdhîb al fine di
condurre un’esistenza in certo qual modo «parassitaria»; costoro non presentano
evidentemente il minimo interesse e non sono in definitiva che semplici
mendicanti, i quali, allo stesso modo dei falsi infermi o di altri simulatori
del genere, danno prova di una certa speciale abilità nell’esercizio del loro
mestiere. Ma da un altro lato può anche succedere, per ragioni diverse, tra cui
anzitutto quella di passare inosservato e di non lasciar vedere alla folla ciò
che in realtà è, che un uomo, il quale abbia raggiunto un alto grado di
sviluppo spirituale, si dissimuli tra i majâdhîb;
perfino un Walî, nei suoi rapporti
con il mondo esteriore (rapporti la cui natura e i cui motivi necessariamente
sfuggono all’apprezzamento degli uomini ordinari), può talvolta rivestire
l’apparenza di un majdhûb.
D’altronde, tranne per l’intenzione di rimanere nascosti, che si ritrova da una
parte e dall’altra, questo caso non può essere paragonato a quello dei «folli
in Cristo», i quali non hanno affatto raggiunto un simile grado e non sono che
mistici di genere particolare; va da sé che i pericoli che segnalavamo a questo
proposito non esistono minimamente qui, perché si tratta di esseri il cui stato
reale non può più essere infirmato da queste manifestazioni esteriori.
A questo punto, è opportuno far osservare che la stessa cosa
si verifica anche per i produttori di «fenomeni» cui facevamo allusione più
indietro; e questo ci conduce direttamente al caso dei «giocolieri», i cui modi
di fare sono spesso serviti da «travestimento», in tutte le forme tradizionali,
ad iniziati d’alto rango, soprattutto quando questi dovevano svolgere
all’esterno qualche speciale «missione». Per giocoliere in effetti, non bisogna
intendere soltanto una specie di «prestigiatore», nell’accezione assai
ristretta che i moderni hanno dato a questo termine; dal punto di vista da cui
ci poniamo noi qui, l’uomo che fa mostra di «fenomeni» d’ordine psichico più
autentici rientra esattamente nella categoria, in quanto il giocoliere, in
realtà, è colui che diverte la folla facendo cose bizzarre, od anche
semplicemente affettando modi di fare stravaganti[4].
È così che lo si intendeva nel Medio Evo, quando il giocoliere veniva appunto
in certo qual modo identificato al buffone; e si sa, d’altronde, che il buffone
era anche chiamato «folle» benché in realtà non lo fosse, cosa che dimostra
l’assai stretto legame fra i diversi casi di cui abbiamo parlato. Se a ciò si
aggiunge che il giocoliere, come il majdhûb
d’altri lidi, è abitualmente un essere «errante», è facile capire i vantaggi
che la sua funzione offre quando si tratti di sfuggire all’attenzione dei
profani, o di distoglierla da quel che conviene ch’essi ignorino, sia per
ragioni di semplice opportunità, sia per altre d’ordine molto più profondo[5].
In effetti, la follia è una delle maschere più impenetrabili di cui può
rivestirsi la saggezza, proprio per il fatto di esserne l’estremo opposto; è
per questo che, nel Taoismo, gli «Immortali» stessi sono spesso descritti,
quando si manifestano nel nostro mondo, sotto un aspetto più o meno
stravagante, se non addirittura ridicolo, e per di più non esente da una certa
«volgarità»; ma quest’ultimo tratto si riferisce ancora ad un altro lato della
questione.
[1]
Vladimir Lossky, Essai sur la Théologie mystique de l’Église
d’Orient, pag. 17.
[2]
È fuori questione d’altronde che il legame non può mai essere del tutto
interrotto, perché allora ne seguirebbe immediatamente la morte; esso però è
estremamente affievolito e come «allentato», cosa che del resto si verifica
anche, ad un grado o ad un altro, in tutti i casi di squilibrio.
[3]
È per questo che, nel linguaggio ordinario, il termine majdhûb viene talvolta impiegato come una specie di «eufemismo» al
posto di majnûn, «folle».
[4]
Etimologicamente, il giocoliere (dal latino joculator)
è propriamente uno che «scherza», qualunque sia il genere di «scherzo» cui si
dedica.
[5]
A causa appunto di questi vantaggi, il giocoliere ed il majdhûb veri possono anche servire da «veicolo» di certe cose senza
esserne essi stessi coscienti; ma questa è un’altra questione che al momento
non ci riguarda.
L'azione di colui che è ormai al di là del dominio delle cause e degli effetti, è per ciò stesso un atto di misericordia, in quanto, come spiega R. Guénon,i risultati di essa, "di qualunque genere siano, non influenzano più realmente l’essere che è giunto al centro della «ruota cosmica".
RispondiEliminaBenché, per il grado di conoscenza dell'essere che la pone in atto, una tale azione sia quanto di più profondo ed efficace può aversi nel suo dominio, ed anzi, proprio per tale ragione, essa sarà tale da sfuggire totalmente ai più, non solo nella sua essenza, ma anche nei suoi aspetti esteriori e da passare per lo più totalmente inosservata. Potrà assumere anche, come è stato spiegato, forme tali da allontanare l'attenzione, o, addirittura provocare il disperzzo di coloro che non sono in grado di comprendere. Ciò corrisponde alla legge di analogia che vuole che ciò che è più importante ed elevato dal punto di vista principiale, appaia come il meno importante ed elevato dal punto di vista della manifestazione. D'altro canto, questa azione che, per l'essere che la realizza, rappresenterà allora una conseguenza del suo non agire interiore, piuttosto che un coinvolgimento, sia pure temporaneo nelle contingenze esteriori, costituirà per l'ambiente che la riceve, un effetto ri-velante, che svela e vela di nuovo l'attività non agente.
Le ragioni di una tale azione, quali che esse siano, saranno sempre qualcosa di molto diverso dagli scopi esteriori e parziali di un essere posto ancora nel dominio dell'illusione e non corrisponderanno mai, dunque, ad un "bisogno" o ad una necessità subita, ma esprimeranno la più profonda identità fra il fine e la volontà di chi la compie. L'assenza di un fine esteriore al suo autore, fa sì che una tale azione, sia perciò caratterizzata dal massimo grado di spontaneità, che corrisponde alla perfetta unità profonda fra autore, azione ed oggetto.