Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi
2. «Materia
signata quantitate»
I
filosofi scolastici chiamano in generale materia
ciò che Aristotele aveva chiamato ύλη; come abbiamo già detto, questa materia non deve minimamente essere
identificata con la «materia» dei moderni, la cui nozione, complessa e per
certi lati contraddittoria, pare essere stata altrettanto estranea agli
Occidentali antichi quanto lo è agli Orientali; anche ammettendo che in certi
casi particolari essa possa assumere le caratteristiche di questa «materia», o
meglio, per essere più esatti, che si possa farvi rientrare a posteriori questa concezione più
recente, essa è contemporaneamente molte altre cose, e sono queste cose diverse
che bisogna anzitutto distinguere con cura; ma per designarle tutte con una denominazione comune del
genere di ύλη e di materia, non abbiamo niente di meglio nelle lingue occidentali
attuali del termine «sostanza».
Innanzitutto ύλη, in quanto principio universale, è la potenza pura in cui niente è distinto o «attualizzato», e che costituisce il «supporto» passivo di ogni manifestazione; in questo senso è quindi proprio Prakriti, o la sostanza universale, e tutto quanto abbiamo detto altrove a proposito di quest’ultima si applica ugualmente alla ύλη intesa a questo modo[1]. Quanto alla sostanza intesa in senso relativo, come quella che rappresenta analogicamente il principio sostanziale e ne svolge la funzione in rapporto ad un certo ordine di esistenza più o meno strettamente delimitato, si può pur sempre chiamarla secondariamente ύλη, in particolare nella correlazione di tale termine con εΐδος, per designare le due facce, essenziale e sostanziale, delle esistenze particolari.
Innanzitutto ύλη, in quanto principio universale, è la potenza pura in cui niente è distinto o «attualizzato», e che costituisce il «supporto» passivo di ogni manifestazione; in questo senso è quindi proprio Prakriti, o la sostanza universale, e tutto quanto abbiamo detto altrove a proposito di quest’ultima si applica ugualmente alla ύλη intesa a questo modo[1]. Quanto alla sostanza intesa in senso relativo, come quella che rappresenta analogicamente il principio sostanziale e ne svolge la funzione in rapporto ad un certo ordine di esistenza più o meno strettamente delimitato, si può pur sempre chiamarla secondariamente ύλη, in particolare nella correlazione di tale termine con εΐδος, per designare le due facce, essenziale e sostanziale, delle esistenze particolari.
Gli
Scolastici, dopo Aristotele, hanno fatto una distinzione tra questi due
significati parlando di materia prima
e di materia secunda; possiamo dunque
dire che la loro materia prima è la
sostanza universale, mentre la materia
secunda è la sostanza in senso relativo; ma dal momento che, se si entra
nel relativo, i termini divengono suscettibili di applicazioni molteplici a
gradi diversi, può essere che ciò che è materia
ad un certa livello possa diventare forma
ad un altro livello e inversamente, a seconda della gerarchia dei gradi più o
meno particolari presi in esame nell’esistenza manifestata. Benché in tutti i
casi una materia secunda costituisca
il lato potenziale di un mondo o di un essere, non è mai potenza pura; di
potenza pura non c’è che la sostanza universale, la quale non soltanto si situa
al di sotto del nostro mondo (substantia,
da substare, è letteralmente «ciò che
sta al di sotto», reso altrettanto bene dalle idee di «supporto» e di
«substrato»), ma al di sotto dell’insieme di tutti i mondi e di tutti gli stati
compresi nella manifestazione universale. Aggiungiamo che, per il fatto di non
essere se non potenzialità assolutamente «indistinta» ed indifferenziata, la
sostanza universale è il solo principio che possa dirsi propriamente
«inintelligibile», non perché si sia incapaci di conoscerlo, ma perché, in
effetti, in esso non vi è niente da conoscere; per quel che riguarda le
sostanze relative, esse, in quanto partecipano della potenzialità della sostanza
universale, partecipano anche della sua «inintelligibilità» in misura
corrispondente. Non è dunque dal lato sostanziale che bisogna cercare la
spiegazione delle cose, bensì al contrario dal lato essenziale, il che si può
tradurre, in termini di simbolismo spaziale, dicendo che qualsiasi spiegazione
deve procedere dall’alto verso il basso e non dal basso verso l’alto; questa
osservazione è per noi particolarmente importante perché fornisce la ragione
immediata per cui la scienza moderna è in realtà sprovvista di qualsiasi valore
esplicativo.
Prima
di procedere oltre, dobbiamo subito far osservare che la «materia» dei fisici
non può essere in ogni caso che una materia
secunda, in quanto essi la suppongono dotata di certe proprietà (sulle
quali d’altronde non sono interamente d’accordo), per cui in essa non vi è
soltanto potenzialità e «indistinzione»; del resto, dal momento che le loro
concezioni si riferiscono esclusivamente al mondo sensibile, e non vanno al di
là di questo, le loro considerazioni non possono aver a che fare con la materia prima. E tuttavia, per una
strana confusione, essi parlano continuamente di «materia inerte» senza
accorgersi che se tale essa fosse veramente, sarebbe sprovvista di qualsiasi
proprietà e non si manifesterebbe in alcun modo, addirittura non sarebbe
assolutamente niente di quanto i loro sensi possono percepire, mentre appunto
essi definiscono «materia» tutto ciò che cade sotto i loro sensi; in realtà,
l’inerzia non può convenire altro che alla sola materia prima, in quanto essa è sinonimo di passività e di
potenzialità pura. Parlare di «proprietà della materia», e affermare
contemporaneamente che «la materia è inerte», è una contraddizione insolubile;
e, curiosa ironia delle cose, lo «scientismo» moderno, che pretende eliminare
ogni «mistero», si richiama tuttavia nei suoi vani tentativi di spiegazione a
ciò che vi è di più «misterioso» nel senso volgare della parola, cioè di più
oscuro e di meno intelligibile!
Ci
si può chiedere ora, mettendo da parte la pretesa «inerzia della materia», la
quale in fondo non è nient’altro che un’assurdità, se questa stessa «materia»,
dotata di qualità più o meno definite che la renderebbero suscettibile di
manifestarsi ai nostri sensi, equivalga alla materia secunda del nostro mondo quale la intendono gli Scolastici.
Intanto si può dubitare dell’esattezza di una simile assimilazione già soltanto
osservando che, per svolgere rispetto al nostro mondo una funzione analoga a
quella della materia prima, o della
sostanza universale, nei confronti di tutta la manifestazione, la materia secunda in questione non deve
assolutamente essere manifestata in questo stesso mondo, ma soltanto servire da
«supporto» o da «radice» a ciò che vi si manifesta, e che, di conseguenza, le
qualità sensibili non possono esserle inerenti, bensì procedere da «forme»
accolte in essa, il che equivale ad affermare che tutto ciò che è qualità deve
in definitiva essere rapportato all’essenza. Ecco dunque apparire una nuova
confusione: i fisici moderni, nel loro sforzo di ridurre la qualità alla
quantità, sono arrivati, per una specie di «logica dell’errore», a confondere
l’una con l’altra, e per conseguenza ad attribuire la qualità stessa alla loro
«materia» in quanto tale, nella quale finiscono così per porre tutta la realtà,
o almeno tutto quanto essi sono capaci di riconoscere come tale, il che
costituisce il «materialismo» propriamente detto.
La
materia secunda del nostro mondo,
tuttavia, non può essere priva di qualsiasi determinazione, perché, se così
fosse, si confonderebbe con la stessa materia
prima nella sua completa «indistinzione»; d’altra parte, essa non può
essere una qualsiasi materia secunda,
ma deve essere determinata in accordo con le condizioni speciali del nostro
mondo, ed in modo tale da essere adatta a svolgere effettivamente le funzioni
di sostanza in rapporto a questo e non ad altro. Si tratta dunque di precisare
la natura di questa determinazione, ed è appunto quanto fa san Tommaso d’Aquino
definendo tale materia secunda come materia signata quantitate; ciò che le è
inerente, e che la fa essere quella che è, non è quindi la qualità, anche
considerata nel solo mondo sensibile, bensì la quantità, che si trova appunto ex parte materiae. La quantità è proprio
una delle condizioni dell’esistenza nel mondo sensibile o corporeo; anzi, fra
tali condizioni è una di quelle che gli sono più esclusivamente proprie, di
modo che, come ci si poteva aspettare, la definizione della materia secunda in questione non può
concernere altro che questo mondo, e anzi comprendervelo interamente, poiché
tutto ciò che esiste in esso è necessariamente sottomesso alla quantità; questa
definizione è dunque pienamente sufficiente, e non è il caso di attribuire a
questa materia secunda, come è stato
fatto per la «materia» dei moderni, proprietà che in realtà non possono
assolutamente appartenerle. Si può affermare che la quantità, costituendo
propriamente il lato sostanziale del nostro mondo, ne è per così dire la
condizione «di base» o fondamentale; ma bisogna assolutamente astenersi dall’attribuirle
per ciò una importanza diversa da quella che realmente ha, e soprattutto dal
volervi trovare la spiegazione di questo mondo, così come bisogna evitare di
confondere le fondamenta con la sommità di un edificio: finché ci sono soltanto
le fondamenta, non vi è ancora l’edificio, anche se queste fondamenta gli sono
indispensabili; non solo, ma finché c’è solo quantità, non vi è ancora
manifestazione sensibile anche se questa vi trova la sua stessa radice. La
quantità in quanto tale non è che un «presupposto» necessario, ma che non
spiega nulla: è una base e nient’altro, e non bisogna dimenticare che la base,
per definizione, è ciò che è situato al livello più basso. Anche il ridurre la
qualità alla quantità altro non è in fondo se non quella «riduzione del
superiore all’inferiore», mediante la quale taluni hanno giustamente voluto
caratterizzare il materialismo: pretendere di far venir fuori il «più» dal
«meno» è in effetti una delle più tipiche aberrazioni moderne!
Ma
c’è ancora un’altra questione: la quantità si presenta a noi in modi diversi,
e, in particolare, si ha la quantità discontinua, precisamente il numero,[2] e la
quantità continua, rappresentata principalmente dalle grandezze d’ordine
spaziale e temporale; quale fra questi modi può essere definito quantità pura?
Il problema è tanto più importante se si pensa che Cartesio, che troviamo al
punto di partenza di buona parte delle concezioni filosofiche e scientifiche
specificamente moderne, ha voluto definire la materia con l’estensione, nonché fare
di questa stessa definizione il cardine di una fisica quantitativa la quale, se
pur non era ancora «materialismo», era almeno «meccanicismo»; da ciò si
potrebbe esser tentati di concludere che è l’estensione, in quanto direttamente
inerente alla materia, a rappresentare il modo fondamentale della quantità. San
Tommaso d’Aquino per contro, con l’affermazione «numerus stat ex parte materiae», sembra piuttosto suggerire che sia
il numero a costituire la base sostanziale di questo mondo, e che per
conseguenza sia esso a dover essere riguardato veramente come la quantità pura;
questo carattere «di base» del numero d’altronde si accorda perfettamente con
il fatto che la dottrina pitagorica, per analogia inversa, lo prende a simbolo
dei principi essenziali delle cose. È opportuno peraltro osservare che la
materia di Cartesio non è più la materia
secunda degli Scolastici, ma già un esempio, forse il primo in ordine di
tempo, di una «materia» intesa al modo dei fisici moderni, benché egli non
abbia ancora posto in questa nozione tutto ciò che i suoi successori dovevano
introdurvi, a poco a poco, per giungere alle più recenti teorie sulla
«costituzione della materia». È dunque il caso di sospettare che nella definizione
cartesiana della materia possa esserci qualche errore o qualche confusione, e
che vi si sia introdotto, forse all’insaputa del suo autore, un elemento
d’ordine non strettamente quantitativo; in effetti, e lo vedremo in seguito,
l’estensione, pur avendo evidentemente un carattere quantitativo, come
d’altronde tutto quanto appartiene al mondo sensibile, non può essere
considerata come quantità pura. Si può osservare, inoltre, che le teorie più
avanzate nel senso della riduzione al quantitativo sono generalmente
«atomistiche» in una forma o nell’altra, cioè introducono nella loro nozione di
materia una discontinuità che le avvicina molto di più alla natura del numero
che non a quella dell’estensione; e il fatto stesso che la materia corporea non
possa, nonostante tutto, essere concepita se non come estensione è per ogni
«atomista» una fonte di contraddizione. In tutto ciò, un’altra ragione di
confusione, su cui avremo occasione di ritornare, è l’abitudine che si è presa
di considerare «corpi» e «materia» come pressoché sinonimi; in realtà, i corpi
non sono affatto la materia secunda,
la quale non può come tale trovare riscontro nelle esistenze manifestate in
questo mondo, ma da essa derivano soltanto come dal loro principio sostanziale.
In definitiva è appunto il numero, anch’esso non percepibile mai direttamente e
allo stato puro nel mondo corporeo, che deve essere considerato per primo,
nell’ambito della quantità, come quello che ne costituisce il modo
fondamentale; gli altri modi sono esclusivamente derivati, cioè non sono
quantità se non per partecipazione al numero, cosa riconosciuta del resto come
implicita quando si pensa, come di fatto avviene sempre, che tutto ciò che è
quantitativo deve potersi esprimere numericamente. In questi altri modi, la
quantità, anche se elemento predominante, appare sempre più o meno combinata
con la qualità, ed è per questo che le concezioni di spazio e di tempo, a
dispetto di tutti gli sforzi dei matematici moderni non potranno mai essere
esclusivamente quantitative, a meno di ridurle a nozioni interamente vuote,
senza contatti di sorta con una realtà qualsiasi; ma, per la verità, la scienza
attuale non è forse fatta in gran parte di queste nozioni vuote che hanno
unicamente il carattere di «convenzioni» senza la minima portata effettiva? Su
quest’ultima questione daremo maggiori chiarimenti in seguito, specie per
quanto concerne la natura dello spazio, poiché questo punto è in stretto
rapporto coi principi del simbolismo geometrico e contemporaneamente fornisce
un eccellente esempio della degenerazione che conduce dalle concezioni
tradizionali a quelle profane; e ci arriveremo cominciando con l’esaminare come
l’idea di «misura», su cui riposa la stessa geometria, sia tradizionalmente
suscettibile d’una trasposizione che le dà un significato ben diverso da quello
che ha per gli scienziati moderni, i quali ultimi non vi vedono in definitiva
se non il mezzo per avvicinarsi il più possibile al loro «ideale» alla
rovescia, quello di operare, a poco a poco, la riduzione di tutte le cose alla
quantità.
[1] Si noti che il significato primitivo del termine ύλη si riferisce al principio vegetativo; in esso è
un’allusione alla «radice» (in sanscrito mûla,
termine applicato a Prakriti) a
partire dalla quale si sviluppa la manifestazione; si può anche vedervi una
certa relazione con quanto è detto nella tradizione indù della natura «asurica»
del vegetale, il quale effettivamente immerge le sue radici in ciò che
costituisce il supporto oscuro del nostro mondo; in certo qual modo la sostanza
è il polo tenebroso dell’esistenza, come si vedrà meglio in seguito.
[2] La pura nozione di numero è
essenzialmente quella del numero intero, ed è evidente che il succedersi dei numeri
interi costituisce una serie discontinua; tutte le estensioni che questa
nozione ha ricevuto, e che hanno dato luogo alla considerazione dei numeri
frazionari e dei numeri incommensurabili, sono vere e proprie alterazioni di
essa, e rappresentano soltanto degli sforzi fatti allo scopo di ridurre, per
quanto possibile, gli intervalli del discontinuo numerico, e per rendere meno
imperfetta la sua applicazione alla misura delle grandezze continue.
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