"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

sabato 11 ottobre 2014

René Guénon, Iniziazione e realizzazione spirituale - XXX Spirito nel corpo o corpo nello spirito?

René Guénon
Iniziazione e realizzazione spirituale 

XXX - Spirito nel corpo o corpo nello spirito?

La concezione corrente, secondo cui lo spirito risiede in qualche modo nel corpo, non può che sembrare molto strana a chiunque possieda anche soltanto le più elementari nozioni di metafisica, non solo perché lo spirito non può essere «localizzato», ma perché, anche se si tratta solo di un «modo di dire» più o meno simbolico, è evidente in esso l’illogicità ed il capovolgimento dei rapporti normali.
In effetti, lo spirito non è altro che Âtmâ, il principio di tutti gli stati dell’essere in tutti i gradi della sua manifestazione; orbene, tutte le cose sono necessariamente contenute nel loro principio, e in realtà non possono in alcun modo esserne fuori, né tanto meno rinchiuderlo nei loro limiti; sono dunque tutti questi stati dell’essere, e per conseguenza anche il corpo che è semplicemente una modalità d’uno di questi, a dover essere in definitiva contenuti nello spirito, e non viceversa.
Il «meno» non può contenere il «più», né tanto meno produrlo, il che è d’altronde applicabile a diversi livelli, come vedremo in seguito; ma consideriamo per il momento il caso estremo, quello che concerne il rapporto tra il principio stesso dell’essere e la modalità più ristretta della sua manifestazione individuale umana. A tutta prima si potrebbe essere tentati di concludere che la concezione corrente sia dovuta unicamente ad ignoranza da parte della grande maggioranza degli uomini, e corrisponda ad un semplice errore di linguaggio ripetuto senza riflettere per la forza dell’abitudine; ma la questione non è così semplice, e questo errore, se errore esiste, ha ragioni ben più profonde di quanto a prima vista si potrebbe credere.
A queste considerazioni, bisogna premettere che l’immagine spaziale del «contenente» e del «contenuto» non deve essere presa alla lettera, poiché uno solo di questi due termini, il corpo, possiede effettivamente il carattere spaziale, lo spazio non essendo niente altro che una delle condizioni proprie dell’esistenza corporea. L’impiego del simbolismo spaziale e di quello temporale, come abbiamo ripetutamente spiegato, non solo è legittimo, ma anche inevitabile, in quanto necessariamente dobbiamo servirci d’un linguaggio il quale, essendo quello dell’uomo corporeo, è anch’esso sottoposto alle condizioni determinanti l’esistenza di quest’ultimo come tale: basta aver sempre presente che tutto quanto non appartiene al mondo corporeo non può essere, in realtà, né nello spazio né nel tempo.
Poco c’importa che certi filosofi abbiano creduto di doversi porre una questione come quella della «sede dell’anima», e di discuterne mostrando d’intenderla in senso prettamente letterale, quando poi ciò che essi chiamano «anima» può anche essere lo spirito, perlomeno nella misura in cui lo concepiscono, secondo l’abituale confusione del linguaggio occidentale moderno a questo proposito. Va da sé che, per noi, i filosofi profani non si differenziano minimamente dal volgo, e che le loro teorie non hanno più valore della semplice opinione corrente; non saranno dunque i loro pretesi «problemi» ad indurci a pensare che una specie di «localizzazione» dello spirito nel corpo non rappresenti unicamente un errore puro e semplice; ma sono le dottrine tradizionali stesse a mostrarci che sarebbe insufficiente limitarsi a ciò, e che questo soggetto richiede un esame più approfondito.
Secondo la dottrina indù, si sa infatti che jîvâtmâ, il quale è in realtà Âtmâ stesso, ma considerato nel suo rapporto con l’individualità umana, risiede nel centro di questa ed è rappresentato simbolicamente dal cuore; ciò non vuole affatto dire che jîvâtmâ sia racchiuso nell’organo corporeo che porta questo nome, o in un organo sottile corrispondente; implica invece che, in un certo senso, sia situato nell’individualità, e più precisamente nella parte più centrale di questa. Âtmâ non può essere veramente né manifestato né individualizzato e, a maggior ragione, non può essere incorporato; e tuttavia, in quanto jîvâtmâ, appare come se fosse individualizzato e incorporato; evidentemente questa apparenza non può essere che illusoria riguardo ad Âtmâ, e nondimeno ha una sua esistenza da un certo punto di vista, quello stesso punto di vista, proprio della manifestazione individuale umana, per cui jîvâtmâ sembra essere distinto da Âtmâ. È dunque da questo punto di vista che si può dire che lo spirito è situato nell’individuo; e inoltre si potrà dire che è situato nel corpo, a condizione di non scorgervi una «localizzazione» in senso letterale, se lo si considera dal punto di vista più particolare della modalità corporea di tale individualità; non si tratta dunque d’un vero e proprio errore, ma solamente dell’espressione d’una illusione che, pure essendo tale se riferita alla realtà assoluta, corrisponde tuttavia ad un certo grado della realtà, quello stesso degli stati di manifestazione ai quali detta illusione si riferisce, e che diventa errore solo quando si ha la pretesa di applicarla alla concezione dell’essere totale, come se il principio stesso di quest’ultimo potesse essere influenzato o modificato da uno dei suoi stati contingenti.
Abbiamo finora fatto una distinzione tra la modalità corporea dell’individualità e l’individualità integrale, quest’ultima comprendente anche tutte le modalità sottili; e, a questo proposito, possiamo aggiungere un’osservazione la quale, benché accessoria, aiuterà senza dubbio a comprendere ciò che principalmente abbiamo in vista. All’uomo ordinario, la cui coscienza è in qualche modo «sveglia» unicamente nella modalità corporea, tutto ciò che più o meno oscuramente viene percepito delle modalità sottili, appare come incluso nel corpo, perché questa percezione corrisponde solo al rapporto che quelle hanno con questo, piuttosto che a ciò che sono in se stesse; in realtà, le modalità sottili non possono essere contenute nel corpo e venir condizionate dai suoi limiti, anzitutto perché è proprio in esse che si trova il principio immediato della modalità corporea, e poi perché esse sono suscettibili d’una estensione incomparabilmente maggiore, per la natura stessa delle possibilità che comportano. Queste modalità, inoltre, se effettivamente sviluppate, appaiono come «prolungamenti» estendentisi in ogni senso al di là della modalità corporea, cosicché questa viene interamente a trovarsi, per così dire, «avvolta» da esse; sotto questo aspetto, per chi abbia realizzato l’individualità integrale, avviene una specie di «rivolgimento», se così ci si può esprimere, rispetto al punto di vista dell’uomo ordinario. In questo caso, del resto, le limitazioni individuali non sono ancora superate, ed è per ciò che all’inizio parlammo d’una possibile applicazione a diversi livelli; fin d’ora però si potrà comprendere, per analogia, che un «rivolgimento» si opera ugualmente, in un altro piano, quando l’essere sia passato alla realizzazione sopraindividuale. Fin quando l’essere non raggiungeva Âtmâ, altro che nei suoi rapporti con l’individualità, cioè come jîvâtmâ, questo gli appariva come incluso nell’individualità e non poteva di certo apparirgli altrimenti poiché era incapace di oltrepassare i limiti della condizione individuale; ma quando egli raggiunge Âtmâ direttamente ed in se stesso, l’individualità, e con essa tutti gli altri stati individuali e sopraindividuali, gli appaiono invece compresi in Âtmâ, com’è effettivamente dal punto di vista della realtà assoluta, poiché essi non sono nient’altro che le possibilità stesse di Âtmâ, al di fuori del quale niente può avere un grado qualsiasi di realtà.
Abbiamo così precisato i limiti entro i quali, da un punto di vista relativo, si può dire che lo spirito è contenuto sia nell’individualità umana che nel corpo; e, inoltre, ne abbiamo indicato la ragione, ragione che in definitiva è inerente alla condizione stessa dell’essere per il quale questa prospettiva è legittima e valida. Ma non è tutto: bisogna ancora tener presente che lo spirito si considera situato non solo nell’individualità in generale, ma in un suo punto centrale, al quale corrisponde il cuore nell’ordine corporeo; ciò richiede altre spiegazioni, le quali permetteranno di conciliare i due punti di vista, apparentemente opposti, riferentisi rispettivamente, alla realtà relativa e contingente dell’individuo ed alla realtà assoluta di Âtmâ. È facile rendersi conto che queste considerazioni devono basarsi essenzialmente su una applicazione del senso inverso dell’analogia, applicazione che nello stesso tempo dimostra, in modo particolarmente chiaro, le precauzioni che si richiedono nella trasposizione del simbolismo spaziale, in quanto, contrariamente a quello che avviene nell’ordine corporeo, cioè nello spazio inteso nel senso proprio e letterale, si può dire che nell’ordine spirituale è l’interno a comprendere l’esterno, ed il centro a contenere tutte le cose.
Una delle migliori «illustrazioni» dell’applicazione del senso inverso, è data dalla rappresentazione dei diversi cieli, corrispondenti agli stati superiori dell’essere, mediante altrettante circonferenze o sfere concentriche come se ne ha un esempio in Dante. In una simile rappresentazione sembra a tutta prima che i cieli siano tanto più vasti, cioè meno limitati, quanto più sono elevati e quindi anche più «esteriori», nel senso che figurano più distanti dal centro, quest’ultimo essendo allora costituito dal mondo terrestre; è questo il punto di vista dell’individualità umana, rappresentato precisamente dalla terra, punto di vista che corrisponde ad una verità relativa, la quale è tale nella misura in cui l’individualità è reale nel suo ordine, e per il fatto che bisogna necessariamente partire da quest’ultima per passare agli stati superiori. Ma quando l’individualità venga superata e si operi il «rivolgimento» di cui abbiamo parlato (che in realtà è un «raddrizzamento» dell’essere), tutto l’insieme della rappresentazione simbolica viene ad essere in qualche modo rovesciato; è allora il cielo più elevato ad essere nello stesso tempo il più centrale, poiché in esso risiede il centro universale stesso; e, per contro, il mondo terrestre viene in questo modo a situarsi all’estrema periferia. In questo «rivolgimento» di posizione, bisogna inoltre osservare che il cerchio corrispondente al cielo più elevato deve tuttavia rimanere il più ampio e comprendere tutti gli altri (infatti, secondo la tradizione islamica, il «Trono» divino abbraccia tutti i mondi); e deve essere così perché, nella realtà assoluta, è il centro che contiene tutto. L’impossibilità di raffigurare materialmente questo punto di vista, secondo cui il più vasto è nello stesso tempo il più centrale, non fa che esprimere le limitazioni alle quali il simbolismo geometrico è inevitabilmente sottoposto per il fatto stesso d’essere il linguaggio della condizione spaziale, cioè di una delle condizioni proprie del nostro mondo corporeo, e quindi esclusivamente inerenti all’altro punto di vista, quello dell’individualità umana.
Per quanto riguarda il centro, si vede nettamente qui che, per il rapporto inverso esistente tra il centro effettivo (quello dell’essere totale oppure dell’Universo, a seconda che si considerino le cose dal punto di vista «microcosmico» o «macrocosmico») e il centro dell’individualità o del suo particolare dominio d’esistenza, il primo, che è il più grande nell’ordine della realtà principiale, diventa in certo qual modo (senza venir per nulla alterato o modificato in se stesso) l’ultimo ed il più piccolo nell’ordine delle apparenze manifestate[1]. Si tratta dunque, continuando a servirci del simbolismo spaziale, del rapporto esistente tra il punto geometrico e ciò che potremmo analogicamente chiamare il punto metafisico: quest’ultimo è il vero centro primordiale, che contiene in sé tutte le possibilità, ed è quindi quanto v’è di più grande; non è assolutamente «situato», poiché nulla lo può contenere o limitare, mentre sono tutte le cose a situarsi rispetto ad esso (va da sé che anche ciò deve intendersi simbolicamente, perché qui non si tratta unicamente delle possibilità spaziali). Il punto geometrico poi, che come tale è situato nello spazio, è evidentemente ciò che v’è di più piccolo anche in senso letterale perché privo di dimensioni, il che vuol dire che non occupa rigorosamente nessuna estensione; ma questo «niente» spaziale corrisponde direttamente al «tutto» metafisico, e questi, si potrebbe dire, sono i due aspetti estremi dell’indivisibilità considerata rispettivamente nel Principio e nella manifestazione. Per quel che riguarda le considerazioni circa il «primo» e l’«ultimo», è sufficiente aver presente, come abbiamo già spiegato, che il punto più alto ha il suo diretto riflesso nel punto più basso; ed a questo simbolismo spaziale si può aggiungere un simbolismo temporale, per il quale ciò che è primo nel dominio principiale, e quindi nel «non-tempo», appare come ultimo nello sviluppo della manifestazione[2].
Tutto ciò è facilmente applicabile a quanto abbiamo preso in considerazione all’inizio: in effetti è proprio lo spirito (Âtmâ) il centro universale che contiene ogni cosa[3]; ma esso, riflettendosi nella manifestazione umana, appare appunto per ciò come «localizzato» al centro dell’individualità e, più precisamente ancora, al centro della sua modalità corporea, poiché quest’ultima, in quanto termine della manifestazione umana, ne è anche la modalità «centrale», ed è quindi appunto il suo centro, per quanto riguarda l’individualità, ad essere propriamente la rappresentazione ed il riflesso diretto del centro universale. Questo riflesso non è che un’apparenza, così come lo è la stessa manifestazione individuale; ma fintantoché l’essere è limitato dalle condizioni individuali, questa apparenza è per lui la realtà e non può essere altrimenti, perché è esattamente dello stesso ordine della sua coscienza attuale. Solo quando l’essere ha superato questi limiti, l’altro punto di vista diventa per lui reale, così com’è (ed è sempre stato) in modo assoluto; il suo centro è allora nell’universale, e l’individualità (ed a più forte ragione il corpo) non è più che una delle possibilità contenute in questo centro; per il «rivolgimento» che si è così effettuato, i veri rapporti tra tutte le cose si trovano ristabiliti, quali non hanno mai cessato d’essere per l’essere principiale. Aggiungeremo che questo «rivolgimento» è in stretta relazione con il così detto «spostamento delle luci» del simbolismo cabalistico, ed anche con la seguente espressione che la tradizione islamica attribuisce agli awliyâ: «I nostri corpi sono i nostri spiriti, ed i nostri spiriti sono i nostri corpi» (ajsâmnâ arwâhnâ, wa arwâhnâ ajsâmnâ), la quale, non solo indica che tutti gli elementi dell’essere sono completamente unificati nella «Identità Suprema», ma anche che il «nascosto» è diventato l’«apparente» ed inversamente. Sempre secondo la tradizione islamica, l’essere che è passato dall’altra parte del barzakh è in qualche modo l’opposto degli esseri ordinari (e questa è ancora una stretta applicazione del senso inverso dell’analogia tra l’«Uomo Universale» e l’uomo individuale): «se cammina sulla sabbia, non lascia tracce; se cammina sulla roccia, i suoi piedi vi lasciano l’impronta[4]. Se è al sole, non proietta ombra; nell’oscurità, una luce emana da lui»[5].



[1] Vedere i testi delle Upanishad che abbiamo citato diverse volte a questo proposito, ed anche la parabola evangelica del «granello di senape». 
[2] Nella tradizione islamica, il Profeta è contemporaneamente «il primo della creazione di Dio» (awwal Khalqi’Llâh) quanto alla sua realtà principiale (en-nûr el-mohammedî), ed «il sigillo (cioè l’ultimo) degli inviati di Dio» (Khâtam rusuli’Llâh) quanto alla sua manifestazione terrestre; è così «il primo e l’ultimo» (el-awwal wa el-akber) rispetto alla creazione (bin-nisbati lil-Khalq), così come Allâh è «il Primo e l’Ultimo» in senso assoluto (mutlaqan). Analogamente, nella tradizione cristiana, il Verbo è «l’Alfa e l’Omega, l’inizio e la fine» di tutte le cose. 
[3] Ricorderemo, a questo proposito, che nella tradizione islamica la Luce primordiale (en-nûr el-mohammedî, secondo quanto è stato detto nella nota precedente) è anche lo Spirito (Er-Rûh), nel senso totale ed universale della parola; è noto, d’altra parte, che la tradizione cristiana identificata la Luce al Verbo stesso. 
[4] Ciò ha un evidente rapporto con il simbolismo delle «impronte di piedi» sulle rocce, che risale alle epoche «preistoriche» e che si ritrova in quasi tutte le tradizioni; senza abbordare considerazioni troppo complesse su questo soggetto, possiamo dire che, in generale, queste impronte rappresentano la «traccia» degli stati superiori nel nostro mondo. 
[5] Ricorderemo ancora che lo spirito corrisponde alla luce, ed il corpo all’ombra o alla notte; è dunque lo spirito stesso ad avvolgere tutte le cose nel suo proprio irraggiamento.

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