René Guénon
Iniziazione e realizzazione spirituale
XXX - Spirito nel corpo o corpo nello spirito?
La concezione corrente, secondo cui lo spirito risiede in
qualche modo nel corpo, non può che sembrare molto strana a chiunque possieda
anche soltanto le più elementari nozioni di metafisica, non solo perché lo
spirito non può essere «localizzato», ma perché, anche se si tratta solo di un
«modo di dire» più o meno simbolico, è evidente in esso l’illogicità ed il
capovolgimento dei rapporti normali.
In effetti, lo spirito non è altro che Âtmâ, il principio di tutti gli stati dell’essere in tutti i gradi della sua manifestazione; orbene, tutte le cose sono necessariamente contenute nel loro principio, e in realtà non possono in alcun modo esserne fuori, né tanto meno rinchiuderlo nei loro limiti; sono dunque tutti questi stati dell’essere, e per conseguenza anche il corpo che è semplicemente una modalità d’uno di questi, a dover essere in definitiva contenuti nello spirito, e non viceversa.
Il «meno» non può contenere il «più», né tanto meno produrlo, il che è d’altronde applicabile a diversi livelli, come vedremo in seguito; ma consideriamo per il momento il caso estremo, quello che concerne il rapporto tra il principio stesso dell’essere e la modalità più ristretta della sua manifestazione individuale umana. A tutta prima si potrebbe essere tentati di concludere che la concezione corrente sia dovuta unicamente ad ignoranza da parte della grande maggioranza degli uomini, e corrisponda ad un semplice errore di linguaggio ripetuto senza riflettere per la forza dell’abitudine; ma la questione non è così semplice, e questo errore, se errore esiste, ha ragioni ben più profonde di quanto a prima vista si potrebbe credere.
In effetti, lo spirito non è altro che Âtmâ, il principio di tutti gli stati dell’essere in tutti i gradi della sua manifestazione; orbene, tutte le cose sono necessariamente contenute nel loro principio, e in realtà non possono in alcun modo esserne fuori, né tanto meno rinchiuderlo nei loro limiti; sono dunque tutti questi stati dell’essere, e per conseguenza anche il corpo che è semplicemente una modalità d’uno di questi, a dover essere in definitiva contenuti nello spirito, e non viceversa.
Il «meno» non può contenere il «più», né tanto meno produrlo, il che è d’altronde applicabile a diversi livelli, come vedremo in seguito; ma consideriamo per il momento il caso estremo, quello che concerne il rapporto tra il principio stesso dell’essere e la modalità più ristretta della sua manifestazione individuale umana. A tutta prima si potrebbe essere tentati di concludere che la concezione corrente sia dovuta unicamente ad ignoranza da parte della grande maggioranza degli uomini, e corrisponda ad un semplice errore di linguaggio ripetuto senza riflettere per la forza dell’abitudine; ma la questione non è così semplice, e questo errore, se errore esiste, ha ragioni ben più profonde di quanto a prima vista si potrebbe credere.
A queste considerazioni, bisogna premettere che l’immagine
spaziale del «contenente» e del «contenuto» non deve essere presa alla lettera,
poiché uno solo di questi due termini, il corpo, possiede effettivamente il
carattere spaziale, lo spazio non essendo niente altro che una delle condizioni
proprie dell’esistenza corporea. L’impiego del simbolismo spaziale e di quello
temporale, come abbiamo ripetutamente spiegato, non solo è legittimo, ma anche
inevitabile, in quanto necessariamente dobbiamo servirci d’un linguaggio il
quale, essendo quello dell’uomo corporeo, è anch’esso sottoposto alle
condizioni determinanti l’esistenza di quest’ultimo come tale: basta aver
sempre presente che tutto quanto non appartiene al mondo corporeo non può
essere, in realtà, né nello spazio né nel tempo.
Poco c’importa che certi filosofi abbiano creduto di doversi
porre una questione come quella della «sede dell’anima», e di discuterne
mostrando d’intenderla in senso prettamente letterale, quando poi ciò che essi
chiamano «anima» può anche essere lo spirito, perlomeno nella misura in cui lo
concepiscono, secondo l’abituale confusione del linguaggio occidentale moderno
a questo proposito. Va da sé che, per noi, i filosofi profani non si
differenziano minimamente dal volgo, e che le loro teorie non hanno più valore
della semplice opinione corrente; non saranno dunque i loro pretesi «problemi»
ad indurci a pensare che una specie di «localizzazione» dello spirito nel corpo
non rappresenti unicamente un errore puro e semplice; ma sono le dottrine
tradizionali stesse a mostrarci che sarebbe insufficiente limitarsi a ciò, e
che questo soggetto richiede un esame più approfondito.
Secondo la dottrina indù, si sa infatti che jîvâtmâ, il quale è in realtà Âtmâ stesso, ma considerato nel suo
rapporto con l’individualità umana, risiede nel centro di questa ed è
rappresentato simbolicamente dal cuore; ciò non vuole affatto dire che jîvâtmâ sia racchiuso nell’organo
corporeo che porta questo nome, o in un organo sottile corrispondente; implica
invece che, in un certo senso, sia situato nell’individualità, e più
precisamente nella parte più centrale di questa. Âtmâ non può essere veramente né manifestato né individualizzato e,
a maggior ragione, non può essere incorporato; e tuttavia, in quanto jîvâtmâ, appare come se fosse
individualizzato e incorporato; evidentemente questa apparenza non può essere
che illusoria riguardo ad Âtmâ, e
nondimeno ha una sua esistenza da un certo punto di vista, quello stesso punto
di vista, proprio della manifestazione individuale umana, per cui jîvâtmâ sembra essere distinto da Âtmâ. È dunque da questo punto di vista
che si può dire che lo spirito è situato nell’individuo; e inoltre si potrà
dire che è situato nel corpo, a condizione di non scorgervi una
«localizzazione» in senso letterale, se lo si considera dal punto di vista più
particolare della modalità corporea di tale individualità; non si tratta dunque
d’un vero e proprio errore, ma solamente dell’espressione d’una illusione che,
pure essendo tale se riferita alla realtà assoluta, corrisponde tuttavia ad un
certo grado della realtà, quello stesso degli stati di manifestazione ai quali
detta illusione si riferisce, e che diventa errore solo quando si ha la pretesa
di applicarla alla concezione dell’essere totale, come se il principio stesso
di quest’ultimo potesse essere influenzato o modificato da uno dei suoi stati
contingenti.
Abbiamo finora fatto una distinzione tra la modalità
corporea dell’individualità e l’individualità integrale, quest’ultima
comprendente anche tutte le modalità sottili; e, a questo proposito, possiamo
aggiungere un’osservazione la quale, benché accessoria, aiuterà senza dubbio a
comprendere ciò che principalmente abbiamo in vista. All’uomo ordinario, la cui
coscienza è in qualche modo «sveglia» unicamente nella modalità corporea, tutto
ciò che più o meno oscuramente viene percepito delle modalità sottili, appare
come incluso nel corpo, perché questa percezione corrisponde solo al rapporto
che quelle hanno con questo, piuttosto che a ciò che sono in se stesse; in
realtà, le modalità sottili non possono essere contenute nel corpo e venir condizionate
dai suoi limiti, anzitutto perché è proprio in esse che si trova il principio
immediato della modalità corporea, e poi perché esse sono suscettibili d’una
estensione incomparabilmente maggiore, per la natura stessa delle possibilità
che comportano. Queste modalità, inoltre, se effettivamente sviluppate,
appaiono come «prolungamenti» estendentisi in ogni senso al di là della
modalità corporea, cosicché questa viene interamente a trovarsi, per così dire,
«avvolta» da esse; sotto questo aspetto, per chi abbia realizzato
l’individualità integrale, avviene una specie di «rivolgimento», se così ci si
può esprimere, rispetto al punto di vista dell’uomo ordinario. In questo caso,
del resto, le limitazioni individuali non sono ancora superate, ed è per ciò che
all’inizio parlammo d’una possibile applicazione a diversi livelli; fin d’ora
però si potrà comprendere, per analogia, che un «rivolgimento» si opera
ugualmente, in un altro piano, quando l’essere sia passato alla realizzazione
sopraindividuale. Fin quando l’essere non raggiungeva Âtmâ, altro che nei suoi rapporti con l’individualità, cioè come jîvâtmâ, questo gli appariva come
incluso nell’individualità e non poteva di certo apparirgli altrimenti poiché
era incapace di oltrepassare i limiti della condizione individuale; ma quando
egli raggiunge Âtmâ direttamente ed
in se stesso, l’individualità, e con essa tutti gli altri stati individuali e
sopraindividuali, gli appaiono invece compresi in Âtmâ, com’è effettivamente dal punto di vista della realtà assoluta,
poiché essi non sono nient’altro che le possibilità stesse di Âtmâ, al di fuori del quale niente può
avere un grado qualsiasi di realtà.
Abbiamo così precisato i limiti entro i quali, da un punto
di vista relativo, si può dire che lo spirito è contenuto sia
nell’individualità umana che nel corpo; e, inoltre, ne abbiamo indicato la
ragione, ragione che in definitiva è inerente alla condizione stessa
dell’essere per il quale questa prospettiva è legittima e valida. Ma non è
tutto: bisogna ancora tener presente che lo spirito si considera situato non
solo nell’individualità in generale, ma in un suo punto centrale, al quale
corrisponde il cuore nell’ordine corporeo; ciò richiede altre spiegazioni, le
quali permetteranno di conciliare i due punti di vista, apparentemente opposti,
riferentisi rispettivamente, alla realtà relativa e contingente dell’individuo
ed alla realtà assoluta di Âtmâ. È
facile rendersi conto che queste considerazioni devono basarsi essenzialmente
su una applicazione del senso inverso dell’analogia, applicazione che nello
stesso tempo dimostra, in modo particolarmente chiaro, le precauzioni che si
richiedono nella trasposizione del simbolismo spaziale, in quanto,
contrariamente a quello che avviene nell’ordine corporeo, cioè nello spazio
inteso nel senso proprio e letterale, si può dire che nell’ordine spirituale è
l’interno a comprendere l’esterno, ed il centro a contenere tutte le cose.
Una delle migliori «illustrazioni» dell’applicazione del
senso inverso, è data dalla rappresentazione dei diversi cieli, corrispondenti
agli stati superiori dell’essere, mediante altrettante circonferenze o sfere
concentriche come se ne ha un esempio in Dante. In una simile rappresentazione
sembra a tutta prima che i cieli siano tanto più vasti, cioè meno limitati,
quanto più sono elevati e quindi anche più «esteriori», nel senso che figurano
più distanti dal centro, quest’ultimo essendo allora costituito dal mondo
terrestre; è questo il punto di vista dell’individualità umana, rappresentato
precisamente dalla terra, punto di vista che corrisponde ad una verità
relativa, la quale è tale nella misura in cui l’individualità è reale nel suo
ordine, e per il fatto che bisogna necessariamente partire da quest’ultima per
passare agli stati superiori. Ma quando l’individualità venga superata e si
operi il «rivolgimento» di cui abbiamo parlato (che in realtà è un
«raddrizzamento» dell’essere), tutto l’insieme della rappresentazione simbolica
viene ad essere in qualche modo rovesciato; è allora il cielo più elevato ad
essere nello stesso tempo il più centrale, poiché in esso risiede il centro
universale stesso; e, per contro, il mondo terrestre viene in questo modo a
situarsi all’estrema periferia. In questo «rivolgimento» di posizione, bisogna
inoltre osservare che il cerchio corrispondente al cielo più elevato deve
tuttavia rimanere il più ampio e comprendere tutti gli altri (infatti, secondo
la tradizione islamica, il «Trono» divino abbraccia tutti i mondi); e deve
essere così perché, nella realtà assoluta, è il centro che contiene tutto.
L’impossibilità di raffigurare materialmente questo punto di vista, secondo cui
il più vasto è nello stesso tempo il più centrale, non fa che esprimere le
limitazioni alle quali il simbolismo geometrico è inevitabilmente sottoposto per
il fatto stesso d’essere il linguaggio della condizione spaziale, cioè di una
delle condizioni proprie del nostro mondo corporeo, e quindi esclusivamente
inerenti all’altro punto di vista, quello dell’individualità umana.
Per quanto riguarda il centro, si vede nettamente qui che,
per il rapporto inverso esistente tra il centro effettivo (quello dell’essere
totale oppure dell’Universo, a seconda che si considerino le cose dal punto di
vista «microcosmico» o «macrocosmico») e il centro dell’individualità o del suo
particolare dominio d’esistenza, il primo, che è il più grande nell’ordine
della realtà principiale, diventa in certo qual modo (senza venir per nulla
alterato o modificato in se stesso) l’ultimo ed il più piccolo nell’ordine
delle apparenze manifestate[1]. Si
tratta dunque, continuando a servirci del simbolismo spaziale, del rapporto
esistente tra il punto geometrico e ciò che potremmo analogicamente chiamare il
punto metafisico: quest’ultimo è il vero centro primordiale, che contiene in sé
tutte le possibilità, ed è quindi quanto v’è di più grande; non è assolutamente
«situato», poiché nulla lo può contenere o limitare, mentre sono tutte le cose
a situarsi rispetto ad esso (va da sé che anche ciò deve intendersi
simbolicamente, perché qui non si tratta unicamente delle possibilità
spaziali). Il punto geometrico poi, che come tale è situato nello spazio, è
evidentemente ciò che v’è di più piccolo anche in senso letterale perché privo
di dimensioni, il che vuol dire che non occupa rigorosamente nessuna
estensione; ma questo «niente» spaziale corrisponde direttamente al «tutto»
metafisico, e questi, si potrebbe dire, sono i due aspetti estremi
dell’indivisibilità considerata rispettivamente nel Principio e nella
manifestazione. Per quel che riguarda le considerazioni circa il «primo» e
l’«ultimo», è sufficiente aver presente, come abbiamo già spiegato, che il
punto più alto ha il suo diretto riflesso nel punto più basso; ed a questo
simbolismo spaziale si può aggiungere un simbolismo temporale, per il quale ciò
che è primo nel dominio principiale, e quindi nel «non-tempo», appare come
ultimo nello sviluppo della manifestazione[2].
Tutto ciò è facilmente applicabile a quanto abbiamo preso in
considerazione all’inizio: in effetti è proprio lo spirito (Âtmâ) il centro universale che contiene
ogni cosa[3]; ma
esso, riflettendosi nella manifestazione umana, appare appunto per ciò come
«localizzato» al centro dell’individualità e, più precisamente ancora, al
centro della sua modalità corporea, poiché quest’ultima, in quanto termine
della manifestazione umana, ne è anche la modalità «centrale», ed è quindi
appunto il suo centro, per quanto riguarda l’individualità, ad essere
propriamente la rappresentazione ed il riflesso diretto del centro universale.
Questo riflesso non è che un’apparenza, così come lo è la stessa manifestazione
individuale; ma fintantoché l’essere è limitato dalle condizioni individuali,
questa apparenza è per lui la realtà e non può essere altrimenti, perché è
esattamente dello stesso ordine della sua coscienza attuale. Solo quando
l’essere ha superato questi limiti, l’altro punto di vista diventa per lui
reale, così com’è (ed è sempre stato) in modo assoluto; il suo centro è allora
nell’universale, e l’individualità (ed a più forte ragione il corpo) non è più
che una delle possibilità contenute in questo centro; per il «rivolgimento» che
si è così effettuato, i veri rapporti tra tutte le cose si trovano ristabiliti,
quali non hanno mai cessato d’essere per l’essere principiale. Aggiungeremo che
questo «rivolgimento» è in stretta relazione con il così detto «spostamento
delle luci» del simbolismo cabalistico, ed anche con la seguente espressione
che la tradizione islamica attribuisce agli awliyâ:
«I nostri corpi sono i nostri spiriti, ed i nostri spiriti sono i nostri corpi»
(ajsâmnâ arwâhnâ, wa arwâhnâ ajsâmnâ),
la quale, non solo indica che tutti gli elementi dell’essere sono completamente
unificati nella «Identità Suprema», ma anche che il «nascosto» è diventato
l’«apparente» ed inversamente. Sempre secondo la tradizione islamica, l’essere
che è passato dall’altra parte del barzakh
è in qualche modo l’opposto degli esseri ordinari (e questa è ancora una
stretta applicazione del senso inverso dell’analogia tra l’«Uomo Universale» e
l’uomo individuale): «se cammina sulla sabbia, non lascia tracce; se cammina
sulla roccia, i suoi piedi vi lasciano l’impronta[4]. Se è
al sole, non proietta ombra; nell’oscurità, una luce emana da lui»[5].
[1] Vedere
i testi delle Upanishad che abbiamo
citato diverse volte a questo proposito, ed anche la parabola evangelica del
«granello di senape».
[2] Nella
tradizione islamica, il Profeta è contemporaneamente «il primo della creazione
di Dio» (awwal Khalqi’Llâh) quanto
alla sua realtà principiale (en-nûr
el-mohammedî), ed «il sigillo (cioè l’ultimo) degli inviati di Dio» (Khâtam rusuli’Llâh) quanto alla sua
manifestazione terrestre; è così «il primo e l’ultimo» (el-awwal wa el-akber) rispetto alla creazione (bin-nisbati lil-Khalq), così come Allâh è «il Primo e l’Ultimo» in senso assoluto (mutlaqan). Analogamente, nella
tradizione cristiana, il Verbo è «l’Alfa e l’Omega, l’inizio e la fine» di
tutte le cose.
[3] Ricorderemo,
a questo proposito, che nella tradizione islamica la Luce primordiale (en-nûr el-mohammedî, secondo quanto è
stato detto nella nota precedente) è anche lo Spirito (Er-Rûh), nel senso totale ed universale della parola; è noto,
d’altra parte, che la tradizione cristiana identificata la Luce al Verbo
stesso.
[4] Ciò
ha un evidente rapporto con il simbolismo delle «impronte di piedi» sulle
rocce, che risale alle epoche «preistoriche» e che si ritrova in quasi tutte le
tradizioni; senza abbordare considerazioni troppo complesse su questo soggetto,
possiamo dire che, in generale, queste impronte rappresentano la «traccia» degli
stati superiori nel nostro mondo.
[5] Ricorderemo
ancora che lo spirito corrisponde alla luce, ed il corpo all’ombra o alla
notte; è dunque lo spirito stesso ad avvolgere tutte le cose nel suo proprio
irraggiamento.
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