"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

mercoledì 15 ottobre 2014

René Guénon, Iniziazione e realizzazione spirituale - XXXII - Realizzazione ascendente e realizzazione discendente

René Guénon 
Iniziazione e realizzazione spirituale 

XXXII - Realizzazione ascendente e realizzazione discendente

La realizzazione totale dell’essere si può vedere come l’unione di due aspetti, in qualche modo corrispondenti a due fasi di essa, l’una «ascendente», l’altra «discendente».
L’esame della prima fase, in cui l’essere partito da un certo stato di manifestazione si eleva fino all’identificazione con il suo principio non manifestato, non può sollevare difficoltà alcuna, in quanto è questo che, ovunque e sempre, viene espressamente indicato come il processo ed il fine essenziale di ogni iniziazione, quella che culmina nell’«uscita dal cosmo», e per conseguenza nella liberazione dalle condizioni limitative di qualsiasi stato particolare d’esistenza.
Della seconda fase per contro, quella che riguarda la «ridiscesa» nel manifestato, sembra si sia parlato molto più raramente ed in molti casi in maniera molto meno esplicita, talora anzi con una riserva od un’esitazione che le spiegazioni che qui ci proponiamo di dare permetteranno d’altronde di capire; e ciò senza dubbio perché essa facilmente dà luogo a malintesi, sia che si consideri, a torto, questo modo di considerare le cose come più o meno eccezionale, sia che si equivochi sul vero carattere della «ridiscesa» in questione.
Cominciamo a prendere in esame quello che si potrebbe chiamare il problema di principio, cioè la vera e propria ragione per cui ogni dottrina tradizionale, purché si presenti in forma veramente completa, non può in realtà considerare le cose altrimenti; e tale ragione si potrà comprendere senza difficoltà se ci si riporta all’insegnamento del Vêdânta sui quattro stati d’Âtmâ, quali in particolare sono descritti nella Mândûkya Upanishad[1]. In effetti non ci sono soltanto i tre stati rappresentati nell’essere umano dalla veglia, dal sogno e dal sonno profondo, rispettivamente corrispondenti alla manifestazione corporea, a quella sottile ed al non-manifestato; ma al di là di questi tre stati, dunque al di là dello stesso non-manifestato, ce n’è un quarto che può essere chiamato «né manifestato né non-manifestato», in quanto è il principio di entrambi, e che appunto per questa ragione comprende a un tempo manifestato e non manifestato. Orbene, quantunque l’essere raggiunga realmente il proprio «sé» nel terzo stato, quello del non-manifestato, non è tuttavia questo il termine ultimo, bensì, il quarto, nel quale solo è pienamente realizzata l’«Identità Suprema», in quanto Brahma è contemporaneamente «essere e non-essere» (sadasat), «manifestato e non-manifestato» (vyaktâvyaka), «suono e silenzio» (shabdâshabda), senza di che non sarebbe veramente la totalità assoluta; e se la realizzazione si arrestasse al terzo stato, implicherebbe soltanto il secondo dei due aspetti, quello che il linguaggio può esprimere esclusivamente in forma negativa. Così com’è detto da Ananda K. Coomaraswamy in un recente studio[2], «bisogna esser passati al di là del manifestato (il che è rappresentato dal passaggio “al di là del sole”) per raggiungere il non-manifestato (l’“oscurità” intesa nel senso superiore), ma il fine ultimo è ancora al di là del non-manifestato; non si è raggiunto il termine della via finché Âtmâ non viene conosciuto come manifestato e non-manifestato ad un tempo»; per pervenirvi occorre dunque passare ancora «al di là dell’oscurità» oppure, come lo esprimono certi testi, «vedere l’altra faccia dell’oscurità». Altrimenti, Âtmâ può «brillare» in se stesso, ma non «irraggia»; è identico a Âtmâ, ma in una sola natura, non nella duplice natura che è compresa nelle sua unica essenza[3].
A questo punto è opportuno prevenire una possibile obbiezione: si potrebbe in effetti far osservare che non v’è alcuna comune misura tra il manifestato ed il non-manifestato, tant’è che il primo è praticamente nullo di fronte al secondo, e inoltre che il non-manifestato, essendo già in sé stesso il principio del manifestato, deve necessariamente contenerlo in qualche modo. Tutto ciò è perfettamente vero, certo, ma non è men vero che il manifestato ed il non-manifestato, se così lì si considera, appaiono ancora in un certo senso come due termini fra i quali esiste un’opposizione; e anche se tale opposizione è soltanto illusoria (come lo è d’altronde qualsiasi opposizione), deve nondimeno alla fine essere risolta, cosa che non può avvenire se non si passa al di là di entrambi i suoi termini. D’altra parte, sebbene il manifestato non possa esser detto reale nel senso assoluto del termine, tuttavia anch’esso possiede una certa realtà, relativa e contingente senza dubbio, ma peraltro realtà ad un qualche livello, non potendo esso venire assimilato al nulla ed essendo anche inconcepibile che lo sia, in quanto ciò lo escluderebbe dalla Possibilità universale. In definitiva quindi, non si può dire che il manifestato sia strettamente trascurabile anche se appare tale nei confronti del non-manifestato; questa anzi, potrebbe essere una delle ragioni per cui ciò che ad esso si riferisce, nel corso della realizzazione, può talora trovarsi meno in evidenza e come respinto nell’ombra. Concludendo, se il manifestato è, in principio, compreso nel non-manifestato, lo è in quanto insieme di possibilità di manifestazione, ma non in quanto effettivamente manifestato; affinché sia compreso anche questo aspetto occorre, come abbiamo detto, risalire al principio comune del manifestato e del non-manifestato, il quale è veramente il Principio supremo da cui tutto procede e in cui tutto è contenuto; ed è necessario che sia così, come si vedrà ancor meglio in seguito, affinché vi sia realizzazione piena e totale dell’«Uomo Universale».
Ed ora si pone un’altra questione: quanto sopra riguarda tappe diverse nel corso d’una sola e stessa via o, più esattamente, di una tappa e del termine ultimo di essa; risulta evidente che debba essere effettivamente così, perché si tratta della realizzazione che continua fino alla sua conclusione ultima; ma allora come si può parlare in tutto ciò, come facevamo inizialmente, d’una fase «ascendente» e d’una fase «discendente»? Va da sé che, se queste due rappresentazioni sono entrambe legittime, esse devono riferirsi, per non essere contraddittorie, a punti di vista diversi; ma prima di vedere come esse possano effettivamente conciliarsi, possiamo già osservare che, in tutti i casi, tale conciliazione non è possibile se non alla condizione assoluta di non concepire la «ridiscesa» come una specie di «regressione» o di «ritorno all’indietro», il che, del resto, sarebbe incompatibile anche con il fatto che tutto quanto è acquisito per l’essere, nel corso della realizzazione iniziatica, lo è in modo permanente e definitivo. Si tratta dunque di qualcosa di assolutamente non paragonabile con quanto si produce nel caso di «stati mistici» passeggeri, come l’«estasi», dopo i quali l’essere si ritrova puramente e semplicemente nell’esistenza umana terrestre con tutte le limitazioni individuali che la condizionano, senza conservare di essi, nella sua coscienza attuale, altro che un riflesso indiretto e sempre più o meno imperfetto[4]. Non è neanche il caso di dire che la «ridiscesa» in questione non ha somiglianze di sorta con la cosiddetta «discesa agli Inferi»; questa, come si sa, occupa un suo posto preventivamente, all’inizio stesso del processo iniziatico propriamente detto, e, con l’esaurire certe possibilità inferiori dell’essere, svolge una funzione «purificatrice» che non avrebbe evidentemente più alcuna ragion d’essere nel seguito, soprattutto al livello cui si riferiscono le cose che presentemente stiamo trattando. Aggiungiamo ancora, per non passare sotto silenzio nessuno dei possibili equivoci, che in tutto ciò non v’è assolutamente niente in comune con quella che si potrebbe chiamare una «realizzazione a rovescio»; questa avrebbe senso solo se prendesse tale direzione «discendente» proprio a partire dallo stato umano, ma il suo significato sarebbe allora prettamente «infernale» o «satanico» e, di conseguenza. non potrebbe derivare altro che dal dominio della «contro-iniziazione»[5].
Ciò detto, non è difficile capire che il punto di vista secondo cui l’intera realizzazione appare come il percorso di una via in qualche modo «rettilinea», è quello dell’essere stesso che la compie, in quanto, per questo essere, è assolutamente fuori causa un ritorno all’indietro o un rientro nelle condizioni di qualcuno degli stati già superati. Quanto al punto di vista secondo cui questa stessa realizzazione prende l’aspetto di due fasi, «ascendente» e «discendente», si tratta in definitiva soltanto del modo in cui può apparire agli altri esseri che lo prendono in osservazione rimanendo essi stessi rinchiusi nelle condizioni del mondo manifestato; piuttosto ci si può chiedere come un movimento continuo possa rivestire, fosse pure esteriormente, l’apparenza di un insieme di due movimenti succedentisi in direzioni opposte. Orbene, esiste una rappresentazione geometrica che permette di farsene un’idea quanto mai chiara: se si considera un cerchio disposto verticalmente, il percorso d’una delle metà della circonferenza sarà «ascendente», e quello dell’altra metà sarà «discendente», senza peraltro che il movimento cessi minimamente d’essere continuo; per di più, nel corso di questo movimento non v’è alcun «ritorno all’indietro», in quanto non v’è un nuovo passaggio attraverso la parte della circonferenza già, percorsa. Si tratta nella fattispecie di un ciclo completo, ma se ci si ricorda che non possono esistere dei cicli realmente chiusi, come abbiamo spiegato in altre occasioni, ci si rende conto che, appunto per ciò, è solo in apparenza che il punto d’arrivo coincide col punto di partenza o, in altri termini che l’essere ritorna allo stato manifestato da cui era partito (apparenza che esiste per gli altri, ma che non è affatto la «realtà» di questo essere); d’altra parte, questa visione ciclica è qui tanto più naturale, in quanto ciò di cui si tratta ha un’esatta corrispondenza «macrocosmica» nelle due fasi di «aspirazione» ed «espirazione» della manifestazione universale. Si può osservare infine, che una linea retta è il «limite», nel senso matematico del termine, d’una circonferenza indefinitamente crescente; e poiché la distanza percorsa durante la realizzazione (o piuttosto ciò che è raffigurato con una distanza quando si impiega il simbolismo spaziale) è veramente al di là di qualsiasi misura definibile, non v’è in realtà alcuna differenza fra il percorso della circonferenza di cui abbiamo parlato e quello d’un asse che resta sempre verticale in tutte le sue parti successive, la qual cosa finisce col riconciliare le rappresentazioni rispettivamente corrispondenti ai due punti di vista «interiore» ed «esteriore», che precedentemente avevamo distinto.
Grazie a queste diverse considerazioni, pensiamo risulti abbastanza comprensibile, fin d’ora, il vero carattere della fase «discendente» o apparentemente tale; ma rimane ancora da chiedersi quale può essere, in relazione alla gerarchia iniziatica, la differenza fra la realizzazione arrestatasi alla fase «ascendente», e quella che comprende in più la fase «discendente», ed è questo soprattutto che ci accingiamo ad esaminare particolareggiatamente.
Mentre l’essere che rimane nel non-manifestato ha compiuto la realizzazione unicamente «per sé stesso», colui che in seguito «ridiscende», nel senso da noi prima precisato, ha da quel momento, in rapporto alla manifestazione, una funzione che è esprimibile con il simbolismo dell’«irraggiamento» solare, mediante il quale tutte le cose vengono illuminate. Nel primo caso, come già abbiamo detto, Âtmâ «brilla» senza «irraggiare»; ma, a questo proposito, v’è un altro equivoco da chiarire: troppo spesso infatti si parla di una realizzazione «egoista», cosa veramente priva di senso poiché, per dar modo all’essere di «stabilirsi» nel non-manifestato, l’ego, cioè l’individualità, non deve più esistere, essendo state necessariamente e definitivamente abolite le limitazioni che la costituiscono come tale. Un simile equivoco implica evidentemente una grossolana confusione fra il «Sé» e l’«io»; abbiamo detto che quell’essere ha realizzato «per se stesso» e non «per lui stesso», e questo non è un semplice problema di linguaggio, ma una distinzione del tutto essenziale, che riguarda proprio il fondo della questione di cui stiamo occupandoci. Fatta questa osservazione, rimane tuttavia fra i due casi una differenza, la cui portata vera è più comprensibile se ci si riferisce al modo di considerare gli stati che vi corrispondono da parte delle diverse tradizioni; infatti, anche se la realizzazione «discendente», in quanto fase del processo iniziatico, non è generalmente indicata se non in modo più o meno involuto, si possono però facilmente trovare degli esempi che molto nettamente la suppongono senza possibilità di dubbio.
Per rifarsi subito all’esempio forse più noto, anche se di solito non altrettanto ben compreso, la differenza in questione è in definitiva quella che esiste fra il Pratyêka-Buddha e il Bodhisattwa[6]; e a questo proposito, è particolarmente importante osservare che la via avente per termine il primo di questi due stati è definita come una «piccola via» o, se si preferisce, una «via minore» (hînayâna), il che implica ch’essa non sia esente da un certo carattere restrittivo, mentre quella che conduce al secondo viene veramente considerata come la «grande via» (mahâyâna), quindi come completa e perfetta sotto tutti i rapporti. Questo permette di rispondere all’obbiezione che si potrebbe trarre dal fatto che in generale lo stato di Buddha è ritenuto superiore a quello di Bodhisattwa; nel caso del Pratyêka-Buddha tale superiorità non può essere che apparente, e dovuta sopratutto al carattere di «impassibilità» che, anche apparentemente, il Bodhisattwa non ha; diciamo apparentemente, perché nella fattispecie bisogna distinguere tra la «realtà» dell’essere e la funzione ch’egli deve svolgere nei rapporti del mondo manifestato o, in altri termini, tra quel che è in sé stesso e quel che sembra agli esseri ordinari; ritroveremo d’altronde un’analoga distinzione in casi appartenenti ad altre tradizioni. È vero che, exotericamente, il Bodhisattwa viene rappresentato come colui il quale ha ancora un’ultima tappa da fare per raggiungere lo stato di Buddha perfetto; ma se diciamo exotericamente è appunto perché ciò corrisponde al modo in cui le cose appaiono quando sono viste dal di fuori; ed è necessario che sia così affinché il Bodhisattwa possa svolgere la sua funzione, in quanto questa implichi di indicare la via ad altri esseri: egli è «colui che ha proceduto così» (tathâ-gata), e così devono procedere coloro che, come lui, possono giungere al fine supremo; in effetti, occorre dunque che l’esistenza nella quale egli svolge la sua «missione», per essere veramente «esemplare», si presenti in certo qual modo come una ricapitolazione della via. Quanto a pretendere che questo sia uno stato ancora imperfetto, o un grado minore di realizzazione, equivale a perdere completamente di vista il lato «trascendente» dell’essere del Bodhisattwa, cosa che sarà forse conforme a certe interpretazioni «razionali» correnti, ma rende perfettamente incomprensibile tutto il simbolismo concernente la via del Bodhisattwa, simbolismo che le conferisce, fin dal suo inizio, un carattere propriamente «avatârico», cioè la fa effettivamente apparire come una «discesa» (è il significato proprio del termine avatâra) mediante la quale un principio, od un essere che lo rappresenta essendo identificato con questo, è manifestato nel mondo esteriore, il che, evidentemente, non può in alcun modo alterare l’immutabilità del principio come tale[7].
Quanto stiamo dicendo ha una vasta equivalenza, tenuto conto della differenza di punti di vista propri a ciascuna forma tradizionale, nella distinzione fra il caso del walî e quello del nabî, nella tradizione islamica. Un essere può essere walî soltanto «per sé», se così ci si può esprimere, senza manifestarne niente all’esterno; un nabî invece, non è tale se non in quanto ha una funzione da svolgere nei riguardi degli altri esseri: la stessa cosa, e a maggior ragione, è vera per il rasûl il quale è anche nabî, ma la cui funzione riveste un carattere d’universalità, mentre quella del semplice nabî può essere più o meno limitata quanto ad estensione e finalità proprie[8]. Potrebbe anche sembrare che qui non ci sia l’apparente ambiguità che abbiamo visto testé a proposito del Bodhisattwa, in quanto generalmente si ammette la superiorità del nabî nei confronti del walî e la si considera anche come evidente; e peraltro si è sostenuto talvolta che la «stazione» (maqâm) del walî è in se stessa più elevata di quella del nabî in quanto essa implica essenzialmente uno stato di «prossimità» divina, mentre il nabî, per la sua stessa funzione, è necessariamente rivolto verso la creazione; ma, anche qui, ciò significa non vedere se non una delle due facce della realtà, la faccia esteriore, e non capire ch’essa rappresenta un aspetto che si aggiunge all’altro, senza distruggerlo minimamente ed anche in verità senza infirmarlo[9]. In effetti la condizione del nabî in se stessa implica prima di tutto quella di walî, ma anche, allo stesso tempo, qualcosa di più; nel caso del walî c’è dunque una specie di «mancanza» sotto un certo aspetto, non per quanto riguarda la sua natura intima, ma quanto a quello che si potrebbe chiamare il suo grado di universalizzazione, «mancanza» che corrisponde a quanto abbiamo detto a proposito dell’essere che si ferma allo stadio del non-manifestato senza «ridiscendere» verso la manifestazione; e l’universalità raggiunge la sua effettiva pienezza nel rasûl, il quale è così veramente e totalmente l’«Uomo Universale».
In casi simili a quelli citati, è chiaro che l’essere che «ridiscende» ha, nei confronti della manifestazione, una funzione il cui carattere, in certo qual modo eccezionale, dimostra chiaramente ch’egli non si trova affatto in una condizione paragonabile a quella degli esseri ordinari; si tratta cioè di esseri che si possono definire «missionati» nel vero senso della parola. In un certo senso si può affermare che ogni essere manifestato ha la sua «missione», se con ciò si vuole semplicemente intendere ch’egli deve occupare il suo posto nel mondo, e anche ch’egli è un elemento necessario dell’insieme di cui fa parte; ma va da sé che non è in questo modo che noi l’intendiamo qui, e che si tratta di una «missione» di tutt’altra portata, la quale procede direttamente da un ordine trascendente e principiale, ed esprime nel mondo manifestato qualcosa di questo stesso ordine. Come la «ridiscesa» presuppone una preventiva «ascesa», una «missione» di questo genere presuppone necessariamente la perfetta realizzazione interiore; su questo non è inutile insistere, specie in un’epoca in cui tanta gente troppo facilmente immagina di avere «missioni» più o meno straordinarie, le quali, in mancanza di questa condizione essenziale, non possono essere che pure e semplici illusioni.
Fatte queste considerazioni, dobbiamo ancora insistere su un aspetto della «ridiscesa» che ci pare spieghi, in molti casi, per qual motivo questo soggetto sia passato sotto silenzio e circondato di reticenze, quasi ci fosse in esso qualcosa di cui ripugna parlare nettamente: ci riferiamo a quello che si potrebbe chiamare il suo aspetto «sacrificale». Sia ben chiaro, innanzi tutto, che se impieghiamo qui la parola «sacrificio», non è affatto nel significato semplicemente «morale» volgarmente attribuitogli; quest’ultimo non è che uno dei tanti esempi di degenerazione del linguaggio moderno, il quale sminuisce e snatura tutte le cose per abbassarle ad un livello puramente umano e per farle rientrare nei quadri convenzionali della «vita ordinaria». Prendiamo al contrario questo termine nel suo vero ed originale significato, con tutto ciò ch’esso comporta di effettivo e anche di essenzialmente «tecnico»; va da sé, in effetti, che la funzione di esseri quali quelli in causa nei casi da noi citati in precedenza non può aver niente in comune con l’«altruismo», l’«umanitarismo», la «filantropia» ed altri piatti «ideali» celebrati dai moralisti, che non soltanto sono fin troppo evidentemente sprovvisti di qualsiasi carattere trascendente o sovrumano, ma sono anche perfettamente alla portata del primo venuto fra i profani[10].
L’essere che ha realizzato l’identità con Âtmâ e la «ridiscesa» nella manifestazione, o ciò che appare tale dal punto di vista di questa, e che rappresenta quindi la piena universalizzazione di questa stessa identità, non è a questo punto che «l’Âtmâ incorporato nei mondi», il che equivale a dire che, per tale essere, la «ridiscesa» non è in realtà niente di diverso dal processo stesso della manifestazione universale. Ora, questo processo è spesse volte descritto tradizionalmente appunto come un «sacrificio»: nel simbolismo vêdico si tratta del sacrificio del Mahâ-Purusha, cioè dell’«Uomo Universale», al quale, secondo quel che abbiamo esposto, l’essere in questione è effettivamente identico; e non soltanto questo sacrificio primordiale deve intendersi in senso strettamente rituale e non in un’accezione più o meno vagamente «metaforica», ma il suo significato è essenzialmente quello di prototipo di tutti i riti sacrificali[11].
Il «missionato», nel senso da noi precisato in precedenza, è dunque letteralmente una «vittima»; è fuori causa comunque che, in linea generale, ciò non significa affatto che la sua vita debba terminare di morte violenta, in quanto, in realtà, è questa stessa vita in tutto il suo insieme ad essere già la conseguenza di un sacrificio[12]. Si potrà immediatamente osservare che è questa la spiegazione profonda delle esitazioni e delle «tentazioni» che in tutti i racconti tradizionali, e nelle diverse forme da essi rivestite secondo i casi, vengono attribuite ai Profeti ed anche agli Avatâra, quando in qualche modo vengono messi di fronte alla «missione» da compiere. Queste esitazioni in fondo, non sono altro che quelle di Agni ad accettare di divenire il conduttore del «carro cosmico»[13], com’è descritto da Coomaraswamy nello studio da noi citato, per cui tutti questi casi si riallacciano a quello dell’«Avatâra eterno», con il quale, nella loro «verità» interiore, formano una cosa sola; e, certamente, la tentazione di rimanere nella «notte» del non-manifestato si capisce senza difficoltà, in quanto nessuno potrebbe contestare che, in questo senso superiore, «la notte è migliore del giorno»[14]. Mediante questo esempio, Coomaraswamy spiega altresì, e con giusta ragione, perché Shankarâchârya faccia sempre visibili sforzi per evitare di prendere in considerazione la «ridiscesa», anche quando commenta dei testi il cui significato la implica assai chiaramente; in un caso come il suo sarebbe effettivamente assurdo attribuire una tale attitudine a difetto di conoscenza o ad incomprensione della dottrina; non si può dunque capire se non come una specie di indietreggiamento di fronte alla prospettiva del «sacrificio» e, per conseguenza, come una volontà cosciente di non sollevare il velo che dissimula «l’altra faccia dell’oscurità»; e, generalizzando, possiamo vedervi anche, come dicevamo prima, la ragione principale della riserva che abitualmente viene osservata su tale questione[15]. Si può d’altronde aggiungervi, a titolo di ragione secondaria, il pericolo che la scarsa comprensione di tale argomento serva da pretesto a certuni per giustificare, illudendosi sulla sua vera natura, un desiderio di «restare nel mondo», allorché non si tratta affatto di restarvi, ma, ben diversamente, di ritornarvi dopo esserne già usciti, e che tale «uscita» preliminare è possibile soltanto per l’essere in cui non sussiste più alcun desiderio, né alcun’altra qualsiasi attrazione a carattere individuale; bisogna far bene attenzione a non equivocare su questo punto essenziale, perché altrimenti si rischia di non vedere alcuna differenza fra la realizzazione ultima ed un semplice inizio di realizzazione rimasta ad uno stadio che non supera nemmeno i limiti dell’individualità.
Ed ora, per ritornare all’idea del sacrificio, dobbiamo dire ch’essa comporta ancora un altro aspetto, proprio quello direttamente espresso dall’etimologia del termine; «sacrificare» significa propriamente sacrum facere cioè «render sacro» l’oggetto del sacrificio. Questo aspetto non è meno indicativo di quello ordinariamente considerato, e che inizialmente avevamo in vista parlando della «vittima» come tale; è il sacrificio in effetti a conferire ai «missionati» un carattere «sacro» nel senso più completo di questa parola. Non soltanto tale carattere è evidentemente inerente alla funzione di cui il loro sacrificio è veramente l’investitura, ma, per di più, poiché ciò è anche implicito nel significato originale del termine «sacro», è questo che fa di essi degli esseri «a parte», cioè essenzialmente diversi, sia dai comuni esseri manifestati, sia da coloro che, essendo giunti alla realizzazione del «Sé», rimangono puramente e semplicemente nel non-manifestato. La loro azione, anche se esteriormente simile a quella degli esseri ordinari, non ha in realtà con essa alcun rapporto che vada più in là di questa semplice apparenza esteriore; nella sua «verità» essa è necessariamente incomprensibile alle facoltà individuali, in quanto procede direttamente dall’inesprimibile. Questo carattere, come abbiamo già detto, dimostra ancor meglio che si tratta di casi eccezionali, e di fatto, nello stato umano, i «missionati» non sono certamente se non un’infima minoranza nei confronti dell’immensa moltitudine degli esseri i quali non possono aver pretese ad una simile funzione; ma, d’altra parte, essendo gli stati dell’essere in moltitudine indefinita, quale ragione può impedire di ammettere che, in uno stato o in un altro, qualsiasi essere abbia la possibilità di giungere a questo grado supremo della gerarchia spirituale?



[1] Vedere L’homme et son devenir selon le Vêdânta, cap. XII e XVII. 
[2] Notes on the Katha Upanisbad, parte 3ª. 
[3] Vedere Brihad-Aranyaka Upanishad, II, 3.  
[4] A questo proposito è bene aggiungere che qualcosa di simile può anche aver luogo in un altro caso diverso dagli «stati mistici», come quello di una vera realizzazione metafisica rimasta però incompleta e ancora virtuale; la vita di Plotino ne offre l’esempio senza dubbio più noto. Si tratta allora, secondo la terminologia del tasawwuf islamico, di uno hâl, o stato transitorio, che non ha potuto esser fissato e trasformato in maqâm, cioè in una «stazione» permanente, acquisita una volta per tutte, qualunque sia d’altronde il grado di realizzazione a cui essa corrisponde. 
[5] Il percorso di una simile via «discendente», con tutte le conseguenze ad esso implicite, non può esser preso in effettiva considerazione, in tutta la misura del possibile, se non nel caso estremo degli awlyâ es-Shaytân. Cfr. Le Symbolisme de la Croix, pag. 186. (pag. 171 della tr. it.). 
[6] Il caso del Pratyêka-Buddha è uno di quelli a cui più volentieri gli interpreti occidentali applicano il termine «egoismo», del quale abbiamo appena segnalato l’assurdità.  
[7] Si potrebbe anche dire che un essere del genere, carico di tutte le influenze spirituali inerenti al suo stato trascendente, diviene il veicolo attraverso cui queste influenze sono dirette verso il nostro mondo; questa «discesa» delle influenze spirituali è indicata abbastanza esplicitamente dal termine Avalokitêshwara ed è anche uno dei significati principali e «benefici» del triangolo rovesciato. Aggiungiamo che è proprio con questo significato che il triangolo rovesciato è preso a simbolo dei più alti gradi della Massoneria scozzese; in questa d’altronde, il 30º grado, che è considerato come nec plus ultra, deve logicamente sottolineare, proprio per questa ragione, il termine della «salita», di modo che i gradi successivi non possono se non riferirsi propriamente ad una «ridiscesa», in virtù della quale vengono apportate a tutta l’organizzazione iniziatica le influenze destinate a «vivificarla»; ed i colori corrispondenti, rispettivamente il nero ed il bianco, sono a questo proposito particolarmente significativi. 
[8] Il rasûl manifesta l’attributo divino Er-Rahmân in tutti i mondi (rahmatan-lil-âlamîn) e non soltanto in un certo dominio particolare. Si può osservare d’altronde, che la designazione del Bodhisattwa come «Signore di compassione» si riferisce anche ad una funzione simile, dato che la compassione estesa a tutti gli esseri non è in fondo che un’altra espressione dell’attributo rahmah. 
[9] Rinviamo qui a quanto è stato detto sulla nozione di barzakh, che permette di comprendere senza difficoltà come devono intendersi queste due facce della realtà; la faccia interiore è rivolta verso El-Haqq e la faccia esteriore verso El-Khalq; e l’essere la cui funzione appartiene alla natura del barzakh deve necessariamente unire in sé questi due aspetti, stabilendo così un «ponte» o un «canale» attraverso il quale le influenze divine si comunicano alla creazione. 
[10] Teniamo a precisare che quanto stiamo dicendo si riferisce al punto di vista specificamente moderno della «morale laica»; anche quando questa, come spesso succede nonostante le sue pretese, non fa che «copiare alterandoli» precetti presi a prestito dalla religione, li svuota nondimeno di tutti quegli elementi che permettevano di riallacciarli ad un ordine superiore e, al di là dell’exoterismo semplicemente letterale, di trasporli come segni delle verità principiali; talvolta poi, pur sembrando conservare quella che si potrebbe chiamare la «materialità» di tali precetti, questa morale, con l’interpretazione che ne dà, arriva fino a «rovesciarli» in senso veramente antitradizionale. 
[11] A questo proposito possiamo incidentalmente fare un’osservazione non priva di significato: la vita di certi esseri, considerata secondo le apparenze individuali, presenta dei fatti che sono in corrispondenza con quelli dell’ordine cosmico e che, dal punto di vista esteriore, sono in qualche modo un’immagine od una riproduzione di questi; ma, da un punto di vista interiore, questo rapporto deve essere invertito, in quanto, essendo questi esseri realmente il Mahâ-Purusha, sono i fatti cosmici ad essere veramente modellati sulla loro vita, o, per parlare più esattamente, ad essere ciò di cui tale vita rappresenta un’espressione diretta, mentre i fatti cosmici, in se stessi, non ne sono che un’espressione per riflesso. Aggiungeremo che è anche questo che dà un fondamento reale e rende valevoli i riti istituiti da esseri «missionati», mentre un essere che non sia niente più di un individuo umano non potrà mai, di propria iniziativa, se non inventare «pseudo-riti» sprovvisti di qualsiasi reale efficacia. 
[12] Bisogna anche notare che ciò di cui si tratta non ha alcun rapporto con l’uso fatto volentieri da certi mistici dei termini «vittima» o «immolazione»; anche nei casi in cui ciò ch’essi intendono con questi termini abbia una realtà propria, e non si riduca a semplici illusioni «soggettive», sempre possibili data la «passività» inerente alla loro attitudine, si tratta di una realtà la cui portata non supera minimamente l’ordine delle possibilità individuali. 
[13] Rig-Vêda, X, 51.
[14] Questa espressione si applica anche, in un altro ordine, al «rifiuto dei poteri»; ma mentre questa attitudine è, non soltanto giustificata, ma anche la sola del tutto legittima per un essere che, non avendo alcuna «missione» da svolgere non ha da comparire all’esterno, è evidente che, al contrario, una «missione» sarebbe inesistente come tale se non fosse manifestata esteriormente.
[15] Ricordiamo, a titolo di «illustrazione» di quanto abbiamo detto, un fatto il cui carattere storico o leggendario importa poco dal nostro punto di vista, in quanto intendiamo dargli un valore esclusivamente simbolico: si racconta che Dante non sorridesse mai, e che la gente attribuisse quest’apparente tristezza al fatto che egli «ritornava dall’Inferno»; non bisognava piuttosto vederne la vera ragione nel fatto ch’egli era «ridisceso dal Cielo?».

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