Iniziazione e realizzazione spirituale
XXXII - Realizzazione ascendente e realizzazione discendente
La realizzazione totale dell’essere si può vedere come
l’unione di due aspetti, in qualche modo corrispondenti a due fasi di essa,
l’una «ascendente», l’altra «discendente».
L’esame della prima fase, in cui l’essere partito da un certo stato di manifestazione si eleva fino all’identificazione con il suo principio non manifestato, non può sollevare difficoltà alcuna, in quanto è questo che, ovunque e sempre, viene espressamente indicato come il processo ed il fine essenziale di ogni iniziazione, quella che culmina nell’«uscita dal cosmo», e per conseguenza nella liberazione dalle condizioni limitative di qualsiasi stato particolare d’esistenza.
Della seconda fase per contro, quella che riguarda la «ridiscesa» nel manifestato, sembra si sia parlato molto più raramente ed in molti casi in maniera molto meno esplicita, talora anzi con una riserva od un’esitazione che le spiegazioni che qui ci proponiamo di dare permetteranno d’altronde di capire; e ciò senza dubbio perché essa facilmente dà luogo a malintesi, sia che si consideri, a torto, questo modo di considerare le cose come più o meno eccezionale, sia che si equivochi sul vero carattere della «ridiscesa» in questione.
L’esame della prima fase, in cui l’essere partito da un certo stato di manifestazione si eleva fino all’identificazione con il suo principio non manifestato, non può sollevare difficoltà alcuna, in quanto è questo che, ovunque e sempre, viene espressamente indicato come il processo ed il fine essenziale di ogni iniziazione, quella che culmina nell’«uscita dal cosmo», e per conseguenza nella liberazione dalle condizioni limitative di qualsiasi stato particolare d’esistenza.
Della seconda fase per contro, quella che riguarda la «ridiscesa» nel manifestato, sembra si sia parlato molto più raramente ed in molti casi in maniera molto meno esplicita, talora anzi con una riserva od un’esitazione che le spiegazioni che qui ci proponiamo di dare permetteranno d’altronde di capire; e ciò senza dubbio perché essa facilmente dà luogo a malintesi, sia che si consideri, a torto, questo modo di considerare le cose come più o meno eccezionale, sia che si equivochi sul vero carattere della «ridiscesa» in questione.
Cominciamo a prendere in esame quello che si potrebbe chiamare
il problema di principio, cioè la vera e propria ragione per cui ogni dottrina
tradizionale, purché si presenti in forma veramente completa, non può in realtà
considerare le cose altrimenti; e tale ragione si potrà comprendere senza
difficoltà se ci si riporta all’insegnamento del Vêdânta sui quattro stati d’Âtmâ,
quali in particolare sono descritti nella Mândûkya
Upanishad[1]. In effetti non ci
sono soltanto i tre stati rappresentati nell’essere umano dalla veglia, dal
sogno e dal sonno profondo, rispettivamente corrispondenti alla manifestazione
corporea, a quella sottile ed al non-manifestato; ma al di là di questi tre
stati, dunque al di là dello stesso non-manifestato, ce n’è un quarto che può
essere chiamato «né manifestato né non-manifestato», in quanto è il principio
di entrambi, e che appunto per questa ragione comprende a un tempo manifestato
e non manifestato. Orbene, quantunque l’essere raggiunga realmente il proprio
«sé» nel terzo stato, quello del non-manifestato, non è tuttavia questo il termine
ultimo, bensì, il quarto, nel quale solo è pienamente realizzata l’«Identità
Suprema», in quanto Brahma è
contemporaneamente «essere e non-essere» (sadasat),
«manifestato e non-manifestato» (vyaktâvyaka),
«suono e silenzio» (shabdâshabda),
senza di che non sarebbe veramente la totalità assoluta; e se la realizzazione
si arrestasse al terzo stato, implicherebbe soltanto il secondo dei due
aspetti, quello che il linguaggio può esprimere esclusivamente in forma
negativa. Così com’è detto da Ananda K. Coomaraswamy in un recente studio[2],
«bisogna esser passati al di là del manifestato (il che è rappresentato dal
passaggio “al di là del sole”) per raggiungere il non-manifestato (l’“oscurità”
intesa nel senso superiore), ma il fine ultimo è ancora al di là del
non-manifestato; non si è raggiunto il termine della via finché Âtmâ non viene conosciuto come
manifestato e non-manifestato ad un tempo»; per pervenirvi occorre dunque
passare ancora «al di là dell’oscurità» oppure, come lo esprimono certi testi,
«vedere l’altra faccia dell’oscurità». Altrimenti, Âtmâ può «brillare» in se stesso, ma non «irraggia»; è identico a Âtmâ, ma in una sola natura, non nella
duplice natura che è compresa nelle sua unica essenza[3].
A questo punto è opportuno prevenire una possibile
obbiezione: si potrebbe in effetti far osservare che non v’è alcuna comune
misura tra il manifestato ed il non-manifestato, tant’è che il primo è
praticamente nullo di fronte al secondo, e inoltre che il non-manifestato,
essendo già in sé stesso il principio del manifestato, deve necessariamente
contenerlo in qualche modo. Tutto ciò è perfettamente vero, certo, ma non è men
vero che il manifestato ed il non-manifestato, se così lì si considera,
appaiono ancora in un certo senso come due termini fra i quali esiste
un’opposizione; e anche se tale opposizione è soltanto illusoria (come lo è
d’altronde qualsiasi opposizione), deve nondimeno alla fine essere risolta,
cosa che non può avvenire se non si passa al di là di entrambi i suoi termini.
D’altra parte, sebbene il manifestato non possa esser detto reale nel senso
assoluto del termine, tuttavia anch’esso possiede una certa realtà, relativa e
contingente senza dubbio, ma peraltro realtà ad un qualche livello, non potendo
esso venire assimilato al nulla ed essendo anche inconcepibile che lo sia, in
quanto ciò lo escluderebbe dalla Possibilità universale. In definitiva quindi,
non si può dire che il manifestato sia strettamente trascurabile anche se
appare tale nei confronti del non-manifestato; questa anzi, potrebbe essere una
delle ragioni per cui ciò che ad esso si riferisce, nel corso della
realizzazione, può talora trovarsi meno in evidenza e come respinto nell’ombra.
Concludendo, se il manifestato è, in principio, compreso nel non-manifestato,
lo è in quanto insieme di possibilità di manifestazione, ma non in quanto
effettivamente manifestato; affinché sia compreso anche questo aspetto occorre,
come abbiamo detto, risalire al principio comune del manifestato e del
non-manifestato, il quale è veramente il Principio supremo da cui tutto procede
e in cui tutto è contenuto; ed è necessario che sia così, come si vedrà ancor
meglio in seguito, affinché vi sia realizzazione piena e totale dell’«Uomo
Universale».
Ed ora si pone un’altra questione: quanto sopra riguarda
tappe diverse nel corso d’una sola e stessa via o, più esattamente, di una
tappa e del termine ultimo di essa; risulta evidente che debba essere
effettivamente così, perché si tratta della realizzazione che continua fino
alla sua conclusione ultima; ma allora come si può parlare in tutto ciò, come
facevamo inizialmente, d’una fase «ascendente» e d’una fase «discendente»? Va
da sé che, se queste due rappresentazioni sono entrambe legittime, esse devono
riferirsi, per non essere contraddittorie, a punti di vista diversi; ma prima
di vedere come esse possano effettivamente conciliarsi, possiamo già osservare
che, in tutti i casi, tale conciliazione non è possibile se non alla condizione
assoluta di non concepire la «ridiscesa» come una specie di «regressione» o di
«ritorno all’indietro», il che, del resto, sarebbe incompatibile anche con il
fatto che tutto quanto è acquisito per l’essere, nel corso della realizzazione
iniziatica, lo è in modo permanente e definitivo. Si tratta dunque di qualcosa
di assolutamente non paragonabile con quanto si produce nel caso di «stati
mistici» passeggeri, come l’«estasi», dopo i quali l’essere si ritrova
puramente e semplicemente nell’esistenza umana terrestre con tutte le
limitazioni individuali che la condizionano, senza conservare di essi, nella
sua coscienza attuale, altro che un riflesso indiretto e sempre più o meno
imperfetto[4]. Non
è neanche il caso di dire che la «ridiscesa» in questione non ha somiglianze di
sorta con la cosiddetta «discesa agli Inferi»; questa, come si sa, occupa un
suo posto preventivamente, all’inizio stesso del processo iniziatico
propriamente detto, e, con l’esaurire certe possibilità inferiori dell’essere,
svolge una funzione «purificatrice» che non avrebbe evidentemente più alcuna
ragion d’essere nel seguito, soprattutto al livello cui si riferiscono le cose
che presentemente stiamo trattando. Aggiungiamo ancora, per non passare sotto
silenzio nessuno dei possibili equivoci, che in tutto ciò non v’è assolutamente
niente in comune con quella che si potrebbe chiamare una «realizzazione a
rovescio»; questa avrebbe senso solo se prendesse tale direzione «discendente»
proprio a partire dallo stato umano, ma il suo significato sarebbe allora
prettamente «infernale» o «satanico» e, di conseguenza. non potrebbe derivare
altro che dal dominio della «contro-iniziazione»[5].
Ciò detto, non è difficile capire che il punto di vista
secondo cui l’intera realizzazione appare come il percorso di una via in
qualche modo «rettilinea», è quello dell’essere stesso che la compie, in
quanto, per questo essere, è assolutamente fuori causa un ritorno all’indietro
o un rientro nelle condizioni di qualcuno degli stati già superati. Quanto al
punto di vista secondo cui questa stessa realizzazione prende l’aspetto di due
fasi, «ascendente» e «discendente», si tratta in definitiva soltanto del modo
in cui può apparire agli altri esseri che lo prendono in osservazione rimanendo
essi stessi rinchiusi nelle condizioni del mondo manifestato; piuttosto ci si
può chiedere come un movimento continuo possa rivestire, fosse pure
esteriormente, l’apparenza di un insieme di due movimenti succedentisi in
direzioni opposte. Orbene, esiste una rappresentazione geometrica che permette
di farsene un’idea quanto mai chiara: se si considera un cerchio disposto
verticalmente, il percorso d’una delle metà della circonferenza sarà
«ascendente», e quello dell’altra metà sarà «discendente», senza peraltro che
il movimento cessi minimamente d’essere continuo; per di più, nel corso di
questo movimento non v’è alcun «ritorno all’indietro», in quanto non v’è un
nuovo passaggio attraverso la parte della circonferenza già, percorsa. Si
tratta nella fattispecie di un ciclo completo, ma se ci si ricorda che non
possono esistere dei cicli realmente chiusi, come abbiamo spiegato in altre
occasioni, ci si rende conto che, appunto per ciò, è solo in apparenza che il
punto d’arrivo coincide col punto di partenza o, in altri termini che l’essere
ritorna allo stato manifestato da cui era partito (apparenza che esiste per gli
altri, ma che non è affatto la «realtà» di questo essere); d’altra parte,
questa visione ciclica è qui tanto più naturale, in quanto ciò di cui si tratta
ha un’esatta corrispondenza «macrocosmica» nelle due fasi di «aspirazione» ed
«espirazione» della manifestazione universale. Si può osservare infine, che una
linea retta è il «limite», nel senso matematico del termine, d’una
circonferenza indefinitamente crescente; e poiché la distanza percorsa durante
la realizzazione (o piuttosto ciò che è raffigurato con una distanza quando si
impiega il simbolismo spaziale) è veramente al di là di qualsiasi misura
definibile, non v’è in realtà alcuna differenza fra il percorso della
circonferenza di cui abbiamo parlato e quello d’un asse che resta sempre
verticale in tutte le sue parti successive, la qual cosa finisce col
riconciliare le rappresentazioni rispettivamente corrispondenti ai due punti di
vista «interiore» ed «esteriore», che precedentemente avevamo distinto.
Grazie a queste diverse considerazioni, pensiamo risulti
abbastanza comprensibile, fin d’ora, il vero carattere della fase «discendente»
o apparentemente tale; ma rimane ancora da chiedersi quale può essere, in
relazione alla gerarchia iniziatica, la differenza fra la realizzazione
arrestatasi alla fase «ascendente», e quella che comprende in più la fase
«discendente», ed è questo soprattutto che ci accingiamo ad esaminare
particolareggiatamente.
Mentre l’essere che rimane nel non-manifestato ha compiuto
la realizzazione unicamente «per sé stesso», colui che in seguito «ridiscende»,
nel senso da noi prima precisato, ha da quel momento, in rapporto alla
manifestazione, una funzione che è esprimibile con il simbolismo
dell’«irraggiamento» solare, mediante il quale tutte le cose vengono
illuminate. Nel primo caso, come già abbiamo detto, Âtmâ «brilla» senza «irraggiare»; ma, a questo proposito, v’è un
altro equivoco da chiarire: troppo spesso infatti si parla di una realizzazione
«egoista», cosa veramente priva di senso poiché, per dar modo all’essere di
«stabilirsi» nel non-manifestato, l’ego, cioè l’individualità, non deve più
esistere, essendo state necessariamente e definitivamente abolite le
limitazioni che la costituiscono come tale. Un simile equivoco implica evidentemente
una grossolana confusione fra il «Sé» e l’«io»; abbiamo detto che quell’essere
ha realizzato «per se stesso» e non «per lui stesso», e questo non è un
semplice problema di linguaggio, ma una distinzione del tutto essenziale, che
riguarda proprio il fondo della questione di cui stiamo occupandoci. Fatta
questa osservazione, rimane tuttavia fra i due casi una differenza, la cui
portata vera è più comprensibile se ci si riferisce al modo di considerare gli
stati che vi corrispondono da parte delle diverse tradizioni; infatti, anche se
la realizzazione «discendente», in quanto fase del processo iniziatico, non è
generalmente indicata se non in modo più o meno involuto, si possono però
facilmente trovare degli esempi che molto nettamente la suppongono senza
possibilità di dubbio.
Per rifarsi subito all’esempio forse più noto, anche se di
solito non altrettanto ben compreso, la differenza in questione è in definitiva
quella che esiste fra il Pratyêka-Buddha
e il Bodhisattwa[6]; e a questo
proposito, è particolarmente importante osservare che la via avente per termine
il primo di questi due stati è definita come una «piccola via» o, se si
preferisce, una «via minore» (hînayâna),
il che implica ch’essa non sia esente da un certo carattere restrittivo, mentre
quella che conduce al secondo viene veramente considerata come la «grande via»
(mahâyâna), quindi come completa e
perfetta sotto tutti i rapporti. Questo permette di rispondere all’obbiezione
che si potrebbe trarre dal fatto che in generale lo stato di Buddha è ritenuto superiore a quello di Bodhisattwa; nel caso del Pratyêka-Buddha tale superiorità non può
essere che apparente, e dovuta sopratutto al carattere di «impassibilità» che,
anche apparentemente, il Bodhisattwa
non ha; diciamo apparentemente, perché nella fattispecie bisogna distinguere
tra la «realtà» dell’essere e la funzione ch’egli deve svolgere nei rapporti
del mondo manifestato o, in altri termini, tra quel che è in sé stesso e quel
che sembra agli esseri ordinari; ritroveremo d’altronde un’analoga distinzione in
casi appartenenti ad altre tradizioni. È vero che, exotericamente, il Bodhisattwa viene rappresentato come
colui il quale ha ancora un’ultima tappa da fare per raggiungere lo stato di Buddha perfetto; ma se diciamo
exotericamente è appunto perché ciò corrisponde al modo in cui le cose appaiono
quando sono viste dal di fuori; ed è necessario che sia così affinché il Bodhisattwa possa svolgere la sua
funzione, in quanto questa implichi di indicare la via ad altri esseri: egli è
«colui che ha proceduto così» (tathâ-gata),
e così devono procedere coloro che, come lui, possono giungere al fine supremo;
in effetti, occorre dunque che l’esistenza nella quale egli svolge la sua
«missione», per essere veramente «esemplare», si presenti in certo qual modo
come una ricapitolazione della via. Quanto a pretendere che questo sia uno
stato ancora imperfetto, o un grado minore di realizzazione, equivale a perdere
completamente di vista il lato «trascendente» dell’essere del Bodhisattwa, cosa che sarà forse
conforme a certe interpretazioni «razionali» correnti, ma rende perfettamente incomprensibile
tutto il simbolismo concernente la via del Bodhisattwa,
simbolismo che le conferisce, fin dal suo inizio, un carattere propriamente
«avatârico», cioè la fa effettivamente apparire come una «discesa» (è il
significato proprio del termine avatâra)
mediante la quale un principio, od un essere che lo rappresenta essendo
identificato con questo, è manifestato nel mondo esteriore, il che,
evidentemente, non può in alcun modo alterare l’immutabilità del principio come
tale[7].
Quanto stiamo dicendo ha una vasta equivalenza, tenuto conto
della differenza di punti di vista propri a ciascuna forma tradizionale, nella
distinzione fra il caso del walî e
quello del nabî, nella tradizione
islamica. Un essere può essere walî
soltanto «per sé», se così ci si può esprimere, senza manifestarne niente
all’esterno; un nabî invece, non è
tale se non in quanto ha una funzione da svolgere nei riguardi degli altri
esseri: la stessa cosa, e a maggior ragione, è vera per il rasûl il quale è anche nabî,
ma la cui funzione riveste un carattere d’universalità, mentre quella del
semplice nabî può essere più o meno
limitata quanto ad estensione e finalità proprie[8].
Potrebbe anche sembrare che qui non ci sia l’apparente ambiguità che abbiamo
visto testé a proposito del Bodhisattwa,
in quanto generalmente si ammette la superiorità del nabî nei confronti del walî
e la si considera anche come evidente; e peraltro si è sostenuto talvolta che
la «stazione» (maqâm) del walî è in se stessa più elevata di
quella del nabî in quanto essa
implica essenzialmente uno stato di «prossimità» divina, mentre il nabî, per la sua stessa funzione, è
necessariamente rivolto verso la creazione; ma, anche qui, ciò significa non
vedere se non una delle due facce della realtà, la faccia esteriore, e non
capire ch’essa rappresenta un aspetto che si aggiunge all’altro, senza
distruggerlo minimamente ed anche in verità senza infirmarlo[9]. In
effetti la condizione del nabî in se
stessa implica prima di tutto quella di walî,
ma anche, allo stesso tempo, qualcosa di più; nel caso del walî c’è dunque una specie di «mancanza» sotto un certo aspetto,
non per quanto riguarda la sua natura intima, ma quanto a quello che si
potrebbe chiamare il suo grado di universalizzazione, «mancanza» che
corrisponde a quanto abbiamo detto a proposito dell’essere che si ferma allo
stadio del non-manifestato senza «ridiscendere» verso la manifestazione; e
l’universalità raggiunge la sua effettiva pienezza nel rasûl, il quale è così veramente e totalmente l’«Uomo Universale».
In casi simili a quelli citati, è chiaro che l’essere che
«ridiscende» ha, nei confronti della manifestazione, una funzione il cui
carattere, in certo qual modo eccezionale, dimostra chiaramente ch’egli non si
trova affatto in una condizione paragonabile a quella degli esseri ordinari; si
tratta cioè di esseri che si possono definire «missionati» nel vero senso della
parola. In un certo senso si può affermare che ogni essere manifestato ha la
sua «missione», se con ciò si vuole semplicemente intendere ch’egli deve
occupare il suo posto nel mondo, e anche ch’egli è un elemento necessario
dell’insieme di cui fa parte; ma va da sé che non è in questo modo che noi
l’intendiamo qui, e che si tratta di una «missione» di tutt’altra portata, la
quale procede direttamente da un ordine trascendente e principiale, ed esprime
nel mondo manifestato qualcosa di questo stesso ordine. Come la «ridiscesa»
presuppone una preventiva «ascesa», una «missione» di questo genere presuppone
necessariamente la perfetta realizzazione interiore; su questo non è inutile
insistere, specie in un’epoca in cui tanta gente troppo facilmente immagina di
avere «missioni» più o meno straordinarie, le quali, in mancanza di questa
condizione essenziale, non possono essere che pure e semplici illusioni.
Fatte queste considerazioni, dobbiamo ancora insistere su un
aspetto della «ridiscesa» che ci pare spieghi, in molti casi, per qual motivo
questo soggetto sia passato sotto silenzio e circondato di reticenze, quasi ci
fosse in esso qualcosa di cui ripugna parlare nettamente: ci riferiamo a quello
che si potrebbe chiamare il suo aspetto «sacrificale». Sia ben chiaro, innanzi
tutto, che se impieghiamo qui la parola «sacrificio», non è affatto nel
significato semplicemente «morale» volgarmente attribuitogli; quest’ultimo non
è che uno dei tanti esempi di degenerazione del linguaggio moderno, il quale
sminuisce e snatura tutte le cose per abbassarle ad un livello puramente umano
e per farle rientrare nei quadri convenzionali della «vita ordinaria».
Prendiamo al contrario questo termine nel suo vero ed originale significato,
con tutto ciò ch’esso comporta di effettivo e anche di essenzialmente
«tecnico»; va da sé, in effetti, che la funzione di esseri quali quelli in
causa nei casi da noi citati in precedenza non può aver niente in comune con
l’«altruismo», l’«umanitarismo», la «filantropia» ed altri piatti «ideali»
celebrati dai moralisti, che non soltanto sono fin troppo evidentemente
sprovvisti di qualsiasi carattere trascendente o sovrumano, ma sono anche
perfettamente alla portata del primo venuto fra i profani[10].
L’essere che ha realizzato l’identità con Âtmâ e la «ridiscesa» nella
manifestazione, o ciò che appare tale dal punto di vista di questa, e che
rappresenta quindi la piena universalizzazione di questa stessa identità, non è
a questo punto che «l’Âtmâ
incorporato nei mondi», il che equivale a dire che, per tale essere, la
«ridiscesa» non è in realtà niente di diverso dal processo stesso della manifestazione
universale. Ora, questo processo è spesse volte descritto tradizionalmente
appunto come un «sacrificio»: nel simbolismo vêdico si tratta del sacrificio
del Mahâ-Purusha, cioè dell’«Uomo
Universale», al quale, secondo quel che abbiamo esposto, l’essere in questione
è effettivamente identico; e non soltanto questo sacrificio primordiale deve
intendersi in senso strettamente rituale e non in un’accezione più o meno
vagamente «metaforica», ma il suo significato è essenzialmente quello di
prototipo di tutti i riti sacrificali[11].
Il «missionato», nel senso da noi precisato in precedenza, è
dunque letteralmente una «vittima»; è fuori causa comunque che, in linea
generale, ciò non significa affatto che la sua vita debba terminare di morte
violenta, in quanto, in realtà, è questa stessa vita in tutto il suo insieme ad
essere già la conseguenza di un sacrificio[12]. Si
potrà immediatamente osservare che è questa la spiegazione profonda delle
esitazioni e delle «tentazioni» che in tutti i racconti tradizionali, e nelle
diverse forme da essi rivestite secondo i casi, vengono attribuite ai Profeti
ed anche agli Avatâra, quando in
qualche modo vengono messi di fronte alla «missione» da compiere. Queste
esitazioni in fondo, non sono altro che quelle di Agni ad accettare di divenire il conduttore del «carro cosmico»[13],
com’è descritto da Coomaraswamy nello studio da noi citato, per cui tutti
questi casi si riallacciano a quello dell’«Avatâra
eterno», con il quale, nella loro «verità» interiore, formano una cosa sola; e,
certamente, la tentazione di rimanere nella «notte» del non-manifestato si
capisce senza difficoltà, in quanto nessuno potrebbe contestare che, in questo
senso superiore, «la notte è migliore del giorno»[14].
Mediante questo esempio, Coomaraswamy spiega altresì, e con giusta ragione,
perché Shankarâchârya faccia sempre visibili sforzi per evitare di prendere in
considerazione la «ridiscesa», anche quando commenta dei testi il cui
significato la implica assai chiaramente; in un caso come il suo sarebbe
effettivamente assurdo attribuire una tale attitudine a difetto di conoscenza o
ad incomprensione della dottrina; non si può dunque capire se non come una
specie di indietreggiamento di fronte alla prospettiva del «sacrificio» e, per
conseguenza, come una volontà cosciente di non sollevare il velo che dissimula
«l’altra faccia dell’oscurità»; e, generalizzando, possiamo vedervi anche, come
dicevamo prima, la ragione principale della riserva che abitualmente viene
osservata su tale questione[15]. Si
può d’altronde aggiungervi, a titolo di ragione secondaria, il pericolo che la
scarsa comprensione di tale argomento serva da pretesto a certuni per
giustificare, illudendosi sulla sua vera natura, un desiderio di «restare nel
mondo», allorché non si tratta affatto di restarvi, ma, ben diversamente, di
ritornarvi dopo esserne già usciti, e che tale «uscita» preliminare è possibile
soltanto per l’essere in cui non sussiste più alcun desiderio, né alcun’altra
qualsiasi attrazione a carattere individuale; bisogna far bene attenzione a non
equivocare su questo punto essenziale, perché altrimenti si rischia di non
vedere alcuna differenza fra la realizzazione ultima ed un semplice inizio di
realizzazione rimasta ad uno stadio che non supera nemmeno i limiti
dell’individualità.
Ed ora, per ritornare all’idea del sacrificio, dobbiamo dire
ch’essa comporta ancora un altro aspetto, proprio quello direttamente espresso
dall’etimologia del termine; «sacrificare» significa propriamente sacrum facere cioè «render sacro»
l’oggetto del sacrificio. Questo aspetto non è meno indicativo di quello
ordinariamente considerato, e che inizialmente avevamo in vista parlando della
«vittima» come tale; è il sacrificio in effetti a conferire ai «missionati» un
carattere «sacro» nel senso più completo di questa parola. Non soltanto tale
carattere è evidentemente inerente alla funzione di cui il loro sacrificio è
veramente l’investitura, ma, per di più, poiché ciò è anche implicito nel
significato originale del termine «sacro», è questo che fa di essi degli esseri
«a parte», cioè essenzialmente diversi, sia dai comuni esseri manifestati, sia
da coloro che, essendo giunti alla realizzazione del «Sé», rimangono puramente
e semplicemente nel non-manifestato. La loro azione, anche se esteriormente
simile a quella degli esseri ordinari, non ha in realtà con essa alcun rapporto
che vada più in là di questa semplice apparenza esteriore; nella sua «verità»
essa è necessariamente incomprensibile alle facoltà individuali, in quanto
procede direttamente dall’inesprimibile. Questo carattere, come abbiamo già
detto, dimostra ancor meglio che si tratta di casi eccezionali, e di fatto,
nello stato umano, i «missionati» non sono certamente se non un’infima
minoranza nei confronti dell’immensa moltitudine degli esseri i quali non possono
aver pretese ad una simile funzione; ma, d’altra parte, essendo gli stati
dell’essere in moltitudine indefinita, quale ragione può impedire di ammettere
che, in uno stato o in un altro, qualsiasi essere abbia la possibilità di
giungere a questo grado supremo della gerarchia spirituale?
[2] Notes on the Katha Upanisbad, parte 3ª.
[3] Vedere Brihad-Aranyaka Upanishad, II, 3.
[4] A
questo proposito è bene aggiungere che qualcosa di simile può anche aver luogo
in un altro caso diverso dagli «stati mistici», come quello di una vera
realizzazione metafisica rimasta però incompleta e ancora virtuale; la vita di
Plotino ne offre l’esempio senza dubbio più noto. Si tratta allora, secondo la
terminologia del tasawwuf islamico,
di uno hâl, o stato transitorio, che
non ha potuto esser fissato e trasformato in maqâm, cioè in una «stazione» permanente, acquisita una volta per
tutte, qualunque sia d’altronde il grado di realizzazione a cui essa
corrisponde.
[5] Il
percorso di una simile via «discendente», con tutte le conseguenze ad esso
implicite, non può esser preso in effettiva considerazione, in tutta la misura
del possibile, se non nel caso estremo degli awlyâ es-Shaytân. Cfr. Le Symbolisme de la Croix, pag. 186. (pag. 171 della tr. it.).
[6] Il
caso del Pratyêka-Buddha è uno di
quelli a cui più volentieri gli interpreti occidentali applicano il termine
«egoismo», del quale abbiamo appena segnalato l’assurdità.
[7] Si
potrebbe anche dire che un essere del genere, carico di tutte le influenze
spirituali inerenti al suo stato trascendente, diviene il veicolo attraverso
cui queste influenze sono dirette verso il nostro mondo; questa «discesa» delle
influenze spirituali è indicata abbastanza esplicitamente dal termine Avalokitêshwara ed è anche uno dei
significati principali e «benefici» del triangolo rovesciato. Aggiungiamo che è
proprio con questo significato che il triangolo rovesciato è preso a simbolo
dei più alti gradi della Massoneria scozzese; in questa d’altronde, il 30º
grado, che è considerato come nec plus
ultra, deve logicamente sottolineare, proprio per questa ragione, il
termine della «salita», di modo che i gradi successivi non possono se non
riferirsi propriamente ad una «ridiscesa», in virtù della quale vengono
apportate a tutta l’organizzazione iniziatica le influenze destinate a
«vivificarla»; ed i colori corrispondenti, rispettivamente il nero ed il
bianco, sono a questo proposito particolarmente significativi.
[8] Il rasûl manifesta l’attributo divino Er-Rahmân in tutti i mondi (rahmatan-lil-âlamîn) e non soltanto in
un certo dominio particolare. Si può osservare d’altronde, che la designazione
del Bodhisattwa come «Signore di
compassione» si riferisce anche ad una funzione simile, dato che la compassione
estesa a tutti gli esseri non è in fondo che un’altra espressione
dell’attributo rahmah.
[9] Rinviamo
qui a quanto è stato detto sulla nozione di barzakh,
che permette di comprendere senza difficoltà come devono intendersi queste due
facce della realtà; la faccia interiore è rivolta verso El-Haqq e la faccia esteriore verso El-Khalq; e l’essere la cui funzione appartiene alla natura del barzakh deve necessariamente unire in sé
questi due aspetti, stabilendo così un «ponte» o un «canale» attraverso il
quale le influenze divine si comunicano alla creazione.
[10] Teniamo
a precisare che quanto stiamo dicendo si riferisce al punto di vista
specificamente moderno della «morale laica»; anche quando questa, come spesso
succede nonostante le sue pretese, non fa che «copiare alterandoli» precetti
presi a prestito dalla religione, li svuota nondimeno di tutti quegli elementi
che permettevano di riallacciarli ad un ordine superiore e, al di là
dell’exoterismo semplicemente letterale, di trasporli come segni delle verità
principiali; talvolta poi, pur sembrando conservare quella che si potrebbe
chiamare la «materialità» di tali precetti, questa morale, con
l’interpretazione che ne dà, arriva fino a «rovesciarli» in senso veramente
antitradizionale.
[11] A
questo proposito possiamo incidentalmente fare un’osservazione non priva di
significato: la vita di certi esseri, considerata secondo le apparenze
individuali, presenta dei fatti che sono in corrispondenza con quelli
dell’ordine cosmico e che, dal punto di vista esteriore, sono in qualche modo
un’immagine od una riproduzione di questi; ma, da un punto di vista interiore,
questo rapporto deve essere invertito, in quanto, essendo questi esseri
realmente il Mahâ-Purusha, sono i
fatti cosmici ad essere veramente modellati sulla loro vita, o, per parlare più
esattamente, ad essere ciò di cui tale vita rappresenta un’espressione diretta,
mentre i fatti cosmici, in se stessi, non ne sono che un’espressione per
riflesso. Aggiungeremo che è anche questo che dà un fondamento reale e rende
valevoli i riti istituiti da esseri «missionati», mentre un essere che non sia
niente più di un individuo umano non potrà mai, di propria iniziativa, se non
inventare «pseudo-riti» sprovvisti di qualsiasi reale efficacia.
[12] Bisogna
anche notare che ciò di cui si tratta non ha alcun rapporto con l’uso fatto
volentieri da certi mistici dei termini «vittima» o «immolazione»; anche nei
casi in cui ciò ch’essi intendono con questi termini abbia una realtà propria,
e non si riduca a semplici illusioni «soggettive», sempre possibili data la
«passività» inerente alla loro attitudine, si tratta di una realtà la cui
portata non supera minimamente l’ordine delle possibilità individuali.
[13] Rig-Vêda, X, 51.
[14] Questa
espressione si applica anche, in un altro ordine, al «rifiuto dei poteri»; ma
mentre questa attitudine è, non soltanto giustificata, ma anche la sola del
tutto legittima per un essere che, non avendo alcuna «missione» da svolgere non
ha da comparire all’esterno, è evidente che, al contrario, una «missione»
sarebbe inesistente come tale se non fosse manifestata esteriormente.
[15] Ricordiamo,
a titolo di «illustrazione» di quanto abbiamo detto, un fatto il cui carattere
storico o leggendario importa poco dal nostro punto di vista, in quanto
intendiamo dargli un valore esclusivamente simbolico: si racconta che Dante non
sorridesse mai, e che la gente attribuisse quest’apparente tristezza al fatto
che egli «ritornava dall’Inferno»; non bisognava piuttosto vederne la vera
ragione nel fatto ch’egli era «ridisceso dal Cielo?».
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