Le icone del sonno
«O sonno, non sei né vivo né
morto, feto immortale degli dèi
Tua madre è varunànì, tuo padre è
yama, il tuo nome è Araru».
Atharva veda vi, 46
L'invocazione al Sonno nell'Atharva Veda VI, 46 inaugura una lunga consuetudine del pensiero indiano col tema onirico. A una complessa filosofia del sogno nell'Advaita Vedānta e ne! Sâmkhya[1], affiancata da uno specifico yoga del sonno (yoga nidrā)[2], corrisponde nei sistemi buddhisti di «risveglio» una vera e propria strategia dell'immaginazione onirica che raggiunge il suo acme operativo nell'indirizzo vajrayāna del buddhismo tibetano. Lo yoga del sogno di Nāropa (secolo XII) e i trattati di Longchempa sull'«arte di sognare» (secolo XIV)[3], sigillano un millennio di ricerca sapienziale che per esprimersi in tutta l'ampiezza delle sue risonanze semantiche, si è costantemente appoggiata all'immagine. L'iconolatria in Tibet, in India e nelle terre buddhiste, prima che una funzione del culto, è stata infatti una necessità dottrinaria - elaborare un insieme di acconci mezzi contemplativi (sādhanā e upāya), per facilitare l'accesso alle zone più impervie del logos metafisico. Così, la dottrina pan-indiana del sogno ha trovato due esemplari vie illustrative, sia attraverso lo scavo gnoseologico, sia con il ricorso a moduli costanti dell'iconografia nella pittura e nella scultura.
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Se, conformemente alla lettera del passo, si volesse situare l'ipostasi del
Sonno in una delle due categorie di deità preposte all'influenza sul mondo
sensibile, gli Asura o dèmoni, e i Deva o dèi, vediamo che il marchio del nome
Araru confina il Sonno certamente nella prima schiera: Araru è uno yakşa, un
dèmone « dai quattro piedi », e la sua ambigua natura si scorge in quello stare
demonicamente sospeso tra vita e morte, partecipe sia della natura materna —
associata alla vitalità germinante dalle acque la cui ipostasi è Varuna, sia
della natura paterna associata alla morte — Yama-Mrtyu ne è infatti il sovrano.
Come
yaksa, Araru esercita inoltre la
vigilanza sulla duplice soglia, quella «verso l'alto», spalancata sulla veglia,
e quella «verso il basso», spalancata sull'oblio ed è poi tecnicamente il
guardiano dei sogni. Nella letteratura post-vedica le tracce dei caratteri
démonici del sonno persistono nella definizione che del termine si riscontra
nello Satapatha Bràhmana. Per il
dormiente svapna (che designa sia il sonno che il sogno)[4]
equivale a un farsi possedere o a un addentrarsi in ciò che è intrinsecamente
proprio (svapy-aya)[5].
Codesta introiezione e immersione dentro se stessi acquista nelle metafisiche
del sāmkhya e del vedānta monistico
una inconfondibile connotazione gnoseologica. L'«entrare in sé» largito dal
sonno, permette al dormiente di conoscere il lato nascosto del suo essere,
inaccessibile nello stato di veglia, e di scorgere la «non-differenza»[6] tra
gli aspetti apparentemente antitetici della realtà: vita-morte,
essere-non-essere, scenari di veglia e ombre del sogno.
Il
terzo momento di questo addentramento è l'esperienza beatifica. Dell'uomo
immerso nel sonno profondo (suśupti),
la Māndukya upanişad dice che, essendosi unificato (ekibhuta), sì è «fatto beatitudine» [ānanda-māya] e ha «la beatitudine come campo di esperienza».
Nella
Brhadāranyaka upanişad si parla del sonno come della condizione intermedia tra
due mondi, «questo» e «quell'altro», in cui risiede l'ātman:
«Installato
in questa condizione, egli contempla entrambe le sedi: quella di questo mondo,
e quella dell'altro. E allorché si è addormentato, e si è impossessato di
elementi tratti da tutto questo mondo particolare, egli costruisce e disgrega a
suo piacimento, permanendo nella propria luce. Questo essere nel sonno è fatto
di luce » (IV, 111, 9).
L'idea
che la trama del sogno sia intessuta di luce, benché sia escluso che si tratti
di una luce proveniente dall'esterno, è impiantata nel termine stesso che
definisce il secondo stato di coscienza.
Il
sonno con sogni è taijasa, da tejas, sostanza luminosa. Questa idea
avrà uno sviluppo di grande importanza nelle metafisiche della luce della
scuola Trika[7] e in tutto lo shivaismo
kashmiro fiorito dal secolo X, per impulso soprattutto di Abhinavagupta.
La
teoria dei «quattro stati» è una delle pietre miliari del vedanta advaita. La Brhadāranyaka, la Chāndogya, la Māndukya,
la Maitry, la Praśna upaniśad e i loro
commentatori la espongono senza discordanze: la veglia (jagaritha sthāna) è la condizione definita vaisvānara, ossia «comune a tutti gli uomini», nella quale si ha
conoscenza degli oggetti esterni. Al sopraggiungere del sonno (svapna), la persona incomincia la lenta
immersione dentro di sé. Rispetto al mondo esterno, essa si rende pravivikta («separata»), e sensibile a
percezioni più sottili di quelle di veglia, fatte di una sostanza luminosa e
filtrante (tejas). Nel sonno profondo
(suśupti) la coscienza del dormiente
si raduna o compagina su se stessa: «Colui che è in questo stato — precisano i
testi — è chiamato Pràjña, l'interno ordinatore o "conoscitore",
colui la cui coscienza è il proprio strumento di esperienza».
Al
di là del sonno profondo si postula uno stato ulteriore, definito turīya o semplicemente il Quarto, che i
testi descrivono per sole negazioni: né conoscente, né non conoscente,
invisibile, non attivo, impensabile — per indicare che l'identità soggettiva è
ora dissolta. E' lo stato estatico di pura quiete, dell'essere (atman) non ancora o non più separato in
soggetto-oggetto, non ancora o non più vincolato al « corpo d'illusione » (māyāvirupa) sovrano nella veglia e nel
sogno — e maya infatti è definita «ombra» (chāyā)
dell’atman, la cui sede naturale « di là dall’ombra » è nel turīya.
Questo
passaggio vertiginoso dalla condizione di veglia all'oblio assoluto attraverso
la fase intermedia del sogno, è una metafora che i testi adottano sia per
indicare le condizioni dell'esperienza metafisica — che cosa fare o non fare
per accedere al risveglio dal sonno samsàrico —sia per descrivere la stessa
cosmogonia: il passaggio dal non-essere al divenire, dal « sogno » della realtà
alla realtà attuata, dal mondo sognato al« Sogno » del mondo.
«Lo
trasposizione iconografica della teoria del mondo promanato come un sogno (svapnaprapanca), si può osservare sia
nello allegorie di Śiva come Signore del Sonno, sia nelle raffigurazioni di
Viśnu addormentato che «sogna» il mondo. Nel rilievo del periodo gupta, la
cosmogonia sì dispiega su tre sovrapposti piani orizzontali[8].
Nella
zona centrale grandeggia la figura di Viśnu assopito su un fianco, il capo
sostenuto da una delle quattro mani, mentre la sposa Lakşmī gli massaggia il
polpaccio destro per stimolare il suo sogno cosmico. Le spire di un cobra
gigantesco, il cui nome è Ananta (alla lettera: «Senzafìne»), galleggianti
sulle acque primordiali, sostengono sofficemente il corpo del dio, mentre il
grande ombrello pluricefalo gli ombreggia il capo mitriato. Posta com'è al
centro del rilievo, questa scena simboleggia un tempo sospeso, la fase in cui
il cosmo non ancora manifestato è solo un fantasma nel sogno di Viśnu posseduto
da Nidra, la dea del Sonno.
Nella
zona superiore sono raffigurate le potenze cosmogoniche che insufflano in Viśnu
il sogno del mondo. Al centro, assiso sulla corolla di un loto il cui stelo è
saldato al polso di Viśnu, è Brahmā, il Signore della Luce e creatore del mondo
visibile. I suoi quattro volti guardano nelle direzioni dello scacchiere
universale. Alla sinistra dì Brahma, ossia alla destra di chi guarda, è Śiva, il
Signore del Sonno, colui che annulla l'illusione cosmica. Śiva e la sposa
Parvati cavalcano il toro Nandī, seguiti da un corteggio. Alla destra di Brahma
stanno le potenze che assesteranno il mondo in una durevole continuità: il
possente Indra, la controparte indiana di Zeus, a cavalcioni dell’elefante
Airavata, e accanto su un pavone, il focoso Kumara, figlio di Śiva.
Nella
zona sottostante, il mondo sognato da Viśnu è ormai uscito dal tempo virtuale
ed è diventato una realtà visibile. Lo abitano gli antenati mitici degli
uomini, coloro che largiranno al genere umano le regole di vita e costumi. Nel
caso di questo rilievo, gli eroi culturali sono i cinque fratelli Pandava,
protagonisti del Mahābhārata e la
loro comune sposa Draupadī.
Allegoricamente la cinquina guerriera rappresenta i cinque sensi e Draupadī la
mente che li domina[9].
La
teoria cosmologica dello svapna-prapanca si congiunge strettamente con quella
dei «quattro stati» formulata nell'advaita vedānta. La risalita dall'oblio del turīya alla condizione di veglia è
descritta come una perdita della simbiosi perfetta e beatifica tra l'ātman, il
cosiddetto «conoscitore del campo» e la coscienza inerente al soggetto, ossia
il suo « campo di esperienza ». Il dormiente che nel sonno profondo è
reintegrato nell'unità del sé con se stesso, incomincia nel sogno ad acquistare
coscienza della propria soggettività, benché permanga ancora l'identificazione
tra il regista dei sogni e il loro protagonista. Quando il sognatore si
desterà, il «campo» e il «conoscitore del campo » saranno definitivamente
separati, e l'unica conoscenza di cui egli disporrà sarà quella discriminativa
(viveka), soggetta alle pulsioni
contrarie del piacere-dispiacere, desiderio-paura.
Nel
caso dello svapna-prapanca in versione cosmologica, i moduli dell'iconografia
attingono al mito ingabbiando funzioni astratte — quali stasi, movimento,
energia centrifuga, concentrico o centripeta — in altrettante personificazioni
divine — Viśnu, Śiva, Brahma, semidei o perfino eroi, com'è palese nel rilievo
descritto. La teoria del mondo-di-sogno affida la propria illustrabilità a un
modello convenzionale in versione iconica (mandala),
o geometrica (yantra) in cui l'ascesa
o discesa della coscienza individuale dall'oblio del Quarto stato alla veglia e
viceversa, è rappresentato come un percorso contemplativo in andata e ritorno —
dal punto centrale (bija-bindu),
assimilato simbolicamente all'idea dell'origine, attraverso triangoli, cerchi e
loti, al perimetro quadrangolare esterno sorvegliato alle «porte» da dèmoni o
dèi guardiani, minacciosi o benevoli a seconda del rasa Psichico[10] che
si vuole rappresentare. L'esempio più semplice di diagramma meditativo per
generale consenso è lo Śri cakra.
*
* *
«La realtà non si può dire né che è vuota né che non è vuota, né che è vuota e
non vuota, né infine che
è non vuota e non non vuota. Queste parole non sono altro che una designazione
metaforica...
Si
suole sostenere che il mondo del molteplice relativo, Il samsàra, è irreale,
mentre
taluni
sostengono l'esatto contrario. Ebbene, le due tesi sono false ambedue, perché
nirvana e samsàra,
relativo e assoluto, sono proposizioni della mente, non corrispondono a nulla
».
Nagàrjuna, Madhyamakarika
XXII, 11.
I
sistemi buddisti, nelle loro soluzioni teoretiche anche più differenziate —
dagli indirizzi tantrici nel Tibet a quelli theravàda a Sri Lanka —, si
appropriano della teoria pan-indiana del sogno, fino alle sue estreme
conseguenze logiche. Da oggetto di pura speculazione, il sogno diventa un
oggetto di modificazione. Operando meditativamente sul sogno, le trafile
tibetane vajrayàna delineavano una
episteme della psiche che partendo dall'assioma della vacuità radicale
propugnata da Nagàrjuna, un brahmano convertito del II secolo, prescrivevano
tecniche di messa a fuoco dell'attenzione e di sviluppo dell’immaginazione
attiva, volte in ultima analisi a provocare una completa emulsione di «vissuto»
di veglia e onirico, penultima tappa del processo di revulsione culminante
nell'esperienza del vuoto oltre la forma. In codesti casi l'arte figurativa,
rispetto all'esoterismo della dottrina, obbediva a uno scopo pratico:
visualizzare come se fossero creature o eventi della vita di veglia, le
potenze, gli archetipi, gli intrecci del mondo di sogno, e stabilire
un'ininterrotta corrente di attenzione (vipassanà)
dall'icona «esterna», che perlopiù l'apprendista si dipingeva da sé, alle
immagini mnestiche e oniriche «interne», fino a livellare le due specie di
proiezioni e a commutarle a volontà[11].
Rispetto
agli yoga del sogno del tantrismo tibetano e ai loro vistosi e ossessivi
apparati iconici, le scuole theravada a sud e a oriente dell'India, si
distinsero piuttosto per una spiccata austerità nell'esercizio delle alchimie
interiori e nell'uso parallelo di immagini. Ai viluppi di creature diaboliche,
agli scenari psicotropici dei mandala di meditazione profusi nelle serie
himalayane, si sostituiscono nei templi e monasteri degli antichi regni
buddisti a Sri Lanka i drappelli — leziosamente dipinti o scolpiti in
proporzioni colossali all'aperto — di una sola immagine, assunta come unica
icona capace di illustrare la buddhità.
Da
Anuradhapura a Sigiriya a Polonnaruwa, le tre successive capitali dell’antica
Ceylon, le icone del Buddha si susseguono in poche manierate varianti nell'arco
di circa un millennio: dal III secolo A.C. quando la leggenda fissa la missione
nell'isola dei figli di Aśoka[12], al
1196, quando si concluse a Polonnaruwa il regno di Nissnmka Malla.
Delle
tre posture in cui ii Buddha è solitamente effigiato — eretto, assiso e reclino
— la più intrigante dal punto di vista estetico è quella del Buddha colto
nell'istante del trapasso, steso sul fianco destro[13],
l'impassibile volto premuto su un guanciale cilindrico e ombreggiato dalla
palma aperta. Nella figura si scorge il dettaglio del colosso di Gal Vihara a
Polonnaruwa, posto accanto ad un'altra statua dell'Illuminato in piedi a
braccia conserte. Ma la più singolare icona del sonno, per via dell’espediente
ideato dall'anonimo scultore, è quella del Buddha satapena (cingalese
«assopito»), nella stanza laterale sinistra del tempio Dehīvala alla periferia
di Colombo.
La
statua in legno policromo lunga più di cinque metri è adagiata su un alto
plinto e cortinata da un sipario di garza color ambra.
Nelle
penombra della sala trafitta dalle fiammelle dei ceri tra colonnine di fumo, al
di sopra delle teste dei devoti accoccolati e salmodianti s'intravede di là
dalla tenda, il testone di un Buddha assopito a metà, le pupille che tralucono
appena dalle palpebre abbrunate a significare il suo sonno da «desto».
L'espediente consiste in due gocce di lapislazzulo cupo insediate nello orbite
in modo che per l'inclinazione del capo, esse paiono guardere dal sotto in su.
La
dottrina pan-Indiana del sonno, mutuata dall'idea arcaica di māyā, modellala attraverso le strategie
del sogno fino a propugnare l'Ideale buddista del «risveglio», ha trovato
nell'effigie del Buddha satapena a Colombo la sua formulazione forse più stravagante
e geniale: un colosso reclino
che
ammicca con due occhioni di bambola animata: immaginazione, fede e suggestione
alleati nel fine comune di mostrare che anche lo morie è irreale,
«Ah!
com'è buffo il paradosso che nulla esiste
e
tuttavia c’è una presenza»
Longchempa, Tibet, HOC. XIV[14]
[1] Gaudapāda, l'esponente maggiore del Sâmkhya (sec. VII) nella sua epistemologia sull'illusione, giunge a formulare l'identità degli stati di veglia e di sogno.
[2] Tra veglia e sonno, lo yoghi si concentra su un oggetto specifico, e in sogno gli sarà rivelato
[3] L'indiano Nāropa (1016-1100), discepolo di Tilopa nella linea che annovera Marpa e Milarepa, impartì sei metodi di istruzione al « risveglio », uno dei quali è lo yoga del sogno. Il testo che raccoglie i sei metodi, è stato tradotto e annotato da Garma C. Chang, ed è disponibile nella versione inglese di J.C. WILSON, Teachings of Tibetan Yoga, University Books, Nuova York 1963. Il tibetano Longchempa (1308-1363) appartenne alla trafila Nying- mapa. La terza parte della Trilogia del trovare sollievo ed agio, s'intitola Stupore, e descrive gli otto schermi dietro i quali si cela l'ineffabile vacuità del reale. Essi sono: « Sognare », « Sortilegio-lncanto-Stupore», « Illusione », « Miraggio », « Il riflesso della luna nell'acqua », « Eco », « Terra oscurata da nubi», «Fantasmi». Il testo è stato tradotto da H.V, GUENTHER: Wonderment, Dharma Publishing, Emeryville (Cai.) 1976.
[4] Svapna, dalla radice SWEP, col significato di sonno, sogno, avere visioni, dormire, sognare.
[5] Sull'assonanza semantica tra svapna e svāpyaya cfr. il commento di A. K. COOMARASWAMY in Vedic Doctrine of Silence, Selected Papers, Metaphysics, Bollingen Series, Princeton Un. Press 1977.
[6] La formulazione sistematica della dottrina della non-differenza (bheda- bheda) è nei commenti advaitini di Sankaràcàrya (sec. IX).
[7] Cfr. in proposito A. GALLERANO, Tre studi sul rapporto Luce-Coscienza nella scuola Trika, I, II, in «Annali dell'Istituto Orientale di Napoli», voi. 32, 1972, 1973.
[8] Cfr. in proposito, J. CAMPBELL, The Mythic image, Bollingen, Princeton Un. Press 1974.
[9] Un'ermeneutica delle « funzioni » mitiche nel Mahābhārata è in J. DUMEZIL, Mito e epopea. La Terra alleviata, Einaudi, Torino 1982
[10] Rasa, lett. linfa, succo, nell'estetica shivaita kashmira assume il co-senso di «sapore», tonalità dominante nell'opera d'arte, che sprigiona una corrispondente risposta psichica nel fruitore. Testo chiave di tale dottrina è The Aesthetic Experience according to Abhinavagupta, tradotto e glossato da Raniero Gnoli, Chowkhamba Publication, Varanasi 1968. L'edizione in italiano del classico DHVANYÀLORA. I principi dello dhvani, è a cura di Vicentino Mattarino, Torino, Einaudi, 1983.
[11] Nello yoga del sogno Nàropa istruisce a: ricoonscere i sogni in una prima fase e a trasformarli successivamente in vista di modellare il cosiddetto « corpo d'illusione », una specie di « doppio » del corpo materiale che, al momento del trapasso, si svincola dal guscio mortale. La terapìa immaginale di Nàropa include una ricca dieta contemplativa: nella veglia (icone e paesaggi) e nel sonno (immagini oniriche da suscitare e dissolvere).
[12] Secondo le prescrizioni dello yoga del sonno, la postura migliore è quella prediletta dai bambini, raggomitolati sul fianco destro premendo sul fegato (suscitatore dei sogni).
[13] Sanghanitta avrebbe piantato, dove ancor oggi s'erge nella sua vetustà, un ramo dell'albero bodhi originale, recato appositamente dall'India, mentre il fratello Mahinda avrebbe capeggiato la prima missione ufficiale nell'isola nel 247 a. C
[14] Sentenza tratta da LONGCHEMPA, Op. cit., v. nota 3.
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