Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi
7. L’uniformità contro l’unità
Se prendiamo in esame l’insieme di quell’ambito di manifestazione che è il nostro mondo, possiamo dire che in esso, man mano che si allontanano dall’unità principiale, le esistenze diventano sempre meno qualitative e sempre più quantitative; in effetti quest’unità, che contiene in sé tutte le determinazioni qualitative delle possibilità di tale ambito, ne è il polo essenziale, mentre il polo sostanziale, cui evidentemente ci si avvicina nella stessa misura in cui ci si allontana dall’altro, è rappresentato dalla quantità pura, con l’indefinita molteplicità «atomica» ad essa implicita, e con l’esclusione di qualsiasi distinzione che non sia numerica fra i suoi elementi.
Questo graduale allontanamento dall’unità essenziale può d’altronde esser considerato da due punti di vista, in simultaneità ed in successione: si potrà cioè esaminarlo, da una parte, nella costituzione degli esseri manifestati, in cui questi gradi determinano una specie di gerarchia tra gli elementi che vi appartengono o le modalità che loro corrispondono, e, d’altra parte, nello stesso svolgimento dell’insieme della manifestazione dall’inizio alla fine di un ciclo; va da sé che è a questo secondo punto di vista che intendiamo particolarmente riferirci.
Si potrebbe comunque, a questo proposito, rappresentare geometricamente l’ambito in questione mediante un triangolo, il cui vertice è il polo essenziale che è qualità pura, mentre la base è il polo sostanziale, cioè, per quanto riguarda il nostro mondo, la quantità pura, raffigurata dalla molteplicità dei punti della base di contro al punto unico del vertice; se si tracciano delle parallele alla base per rappresentare i diversi gradi d’allontanamento di cui parlavamo, è evidente che la molteplicità che simboleggia il quantitativo sarà tanto più marcata quanto più ci si allontanerà dal vertice per avvicinarsi alla base. Soltanto, affinché il simbolo sia il più esatto possibile, occorre supporre la base indefinitamente distante dal vertice, anzitutto perché questo ambito di manifestazione è in se stesso veramente indefinito, e poi perché la molteplicità dei punti della base vi è per così dire portata al massimo; con ciò si potrebbe inoltre mettere in evidenza che tale base, ossia la quantità pura, non potrà mai essere raggiunta nel corso del processo di manifestazione, benché questo vi tenda senza sosta, e che, a partire da un certo livello, il vertice, cioè l’unità essenziale o la qualità pura, viene in qualche modo perso di vista, il che corrisponde precisamente allo stato attuale del nostro mondo.
Questo graduale allontanamento dall’unità essenziale può d’altronde esser considerato da due punti di vista, in simultaneità ed in successione: si potrà cioè esaminarlo, da una parte, nella costituzione degli esseri manifestati, in cui questi gradi determinano una specie di gerarchia tra gli elementi che vi appartengono o le modalità che loro corrispondono, e, d’altra parte, nello stesso svolgimento dell’insieme della manifestazione dall’inizio alla fine di un ciclo; va da sé che è a questo secondo punto di vista che intendiamo particolarmente riferirci.
Si potrebbe comunque, a questo proposito, rappresentare geometricamente l’ambito in questione mediante un triangolo, il cui vertice è il polo essenziale che è qualità pura, mentre la base è il polo sostanziale, cioè, per quanto riguarda il nostro mondo, la quantità pura, raffigurata dalla molteplicità dei punti della base di contro al punto unico del vertice; se si tracciano delle parallele alla base per rappresentare i diversi gradi d’allontanamento di cui parlavamo, è evidente che la molteplicità che simboleggia il quantitativo sarà tanto più marcata quanto più ci si allontanerà dal vertice per avvicinarsi alla base. Soltanto, affinché il simbolo sia il più esatto possibile, occorre supporre la base indefinitamente distante dal vertice, anzitutto perché questo ambito di manifestazione è in se stesso veramente indefinito, e poi perché la molteplicità dei punti della base vi è per così dire portata al massimo; con ciò si potrebbe inoltre mettere in evidenza che tale base, ossia la quantità pura, non potrà mai essere raggiunta nel corso del processo di manifestazione, benché questo vi tenda senza sosta, e che, a partire da un certo livello, il vertice, cioè l’unità essenziale o la qualità pura, viene in qualche modo perso di vista, il che corrisponde precisamente allo stato attuale del nostro mondo.
Dicevamo prima come, nella quantità pura, le «unità» non siano tra loro distinte se non numericamente, ed in effetti non esiste altro mezzo per distinguerle; ma ciò dimostra che, in realtà, la quantità pura è veramente e necessariamente al di sotto di ogni esistenza manifestata. Qui è opportuno fare appello a quello che Leibnitz chiama il «principio degli indiscernibili», in virtù del quale non possono assolutamente esistere due esseri identici, cioè somiglianti tra loro sotto tutti i rapporti; è una conseguenza immediata, come altrove abbiamo dimostrato, della illimitatezza della possibilità universale, la quale implica l’assenza di qualsiasi ripetizione nelle possibilità particolari; non solo, ma si può dire che due esseri supposti identici non sarebbero in realtà due, perché, coincidendo in tutto, sarebbero effettivamente un unico e stesso essere; di conseguenza, affinché gli esseri non siano identici ed indiscernibili, occorre che vi sia sempre fra loro qualche differenza qualitativa, cioè che le loro determinazioni non siano mai puramente quantitative. Questo concetto Leibnitz lo esprime affermando che non è mai vero che due esseri qualsiasi differiscano solo numero, il che, applicato ai corpi, vale contro le concezioni «meccanicistiche» del genere di quella di Cartesio; e afferma inoltre che, se essi non differissero qualitativamente, «non sarebbero neanche degli esseri», bensì qualcosa di paragonabile alle porzioni, tutte simili fra loro, dello spazio e del tempo omogenei, le quali, del tutto prive di esistenza reale, sono state denominate dagli Scolastici entia rationis. Si osservi tuttavia, a questo proposito, che neanche Leibnitz sembra avere idee abbastanza chiare sulla vera natura dello spazio e del tempo, perché, quando definisce semplicemente il primo come un «ordine di coesistenza» e il secondo come un «ordine di successione», egli li prende in considerazione soltanto da un punto di vista logico, che li riduce appunto a contenenti omogenei privi di qualità, e quindi di esistenza effettiva; egli cioè non tiene affatto conto della loro natura ontologica, vogliamo dire della natura reale dello spazio e del tempo come sono manifestati nel nostro mondo, quindi realmente esistenti in quanto condizioni determinanti di quel modo speciale di esistenza che è propriamente l’esistenza corporea.
La conclusione deducibile da quanto precede è che l’uniformità, per essere possibile, supporrebbe esseri sprovvisti di qualsiasi qualità e ridotti a semplici «unità» numeriche; ed è perciò che un’uniformità del genere non è mai realizzabile di fatto, e che tutti gli sforzi compiuti a tal fine, specie nell’ambito umano, possono avere l’unico risultato di spogliare più o meno completamente gli esseri delle qualità loro proprie, e di fare di essi qualcosa che assomiglia al massimo a semplici macchine, in quanto la macchina, prodotto tipico del mondo moderno, è appunto ciò che rappresenta, al più alto grado finora raggiunto, la predominanza della quantità sulla qualità. Proprio a questo tendono, particolarmente dal punto di vista sociale, le concezioni «democratiche» ed «egualitarie» secondo cui tutti gli individui si equivalgono, supposizione assurda la quale induce a ritenere che tutti debbano essere ugualmente adatti a non importa cosa; questa «uguaglianza» non trova alcun esempio in natura, proprio per le ragioni da noi indicate, perché non rappresenterebbe altro che una similitudine completa fra gli individui; ma è evidente che, in nome di questa pretesa «uguaglianza», uno degli «ideali» alla rovescia più cari al mondo moderno, si cerca effettivamente di rendere gli individui tanto simili tra loro quanto la natura lo permette, e questo in primo luogo pretendendo di imporre a tutti una educazione uniforme. Ma poiché, nonostante tutto, non si riesce a sopprimere completamente la differenza delle attitudini, è fuori questione che tale educazione non darà per tutti esattamente gli stessi risultati; ed è un fatto fin troppo vero che, nell’incapacità di dare a certi individui qualità che non hanno, essa è per contro altamente suscettibile di soffocare negli altri tutte le possibilità che superano il livello comune; in tal modo il «livellamento» si effettua sempre dal basso, e d’altronde non può essere diversamente poiché questo stesso livellamento non è che una espressione della tendenza verso il basso, cioè verso la quantità pura che si situa al di sotto di ogni manifestazione corporea, non soltanto al di sotto del grado occupato dai più rudimentali esseri viventi, ma ancora al di sotto di quella che i nostri contemporanei hanno convenuto di chiamare «materia bruta» la quale peraltro, manifestandosi ai sensi, è ancora lungi dall’essere interamente sprovvista di qualità.
L’occidentale moderno, del resto, non si accontenta di imporre a casa sua un tal genere di educazione; egli vuole imporlo anche agli altri, unitamente a tutto il complesso delle sue abitudini mentali e corporee, al fine di uniformizzare il mondo intero di cui contemporaneamente uniformizza l’aspetto esteriore mediante la diffusione dei prodotti della sua industria. Ne deriva la conseguenza, solo in apparenza paradossale, che il mondo è tanto meno «unificato» nel senso reale del termine, quanto più diviene uniformizzato; ciò è assolutamente naturale in fondo, poiché, come abbiamo già detto, il senso in cui viene condotto è quello di una «separatività» sempre più accentuantesi; ma qui vediamo apparire il carattere «parodistico» che così spesso si incontra in tutto ciò che è specificamente moderno. In effetti, pur andando direttamente all’opposto dell’unità vera, poiché tende a realizzare ciò che ne è più lontano, questa uniformizzazione rappresenta una specie di caricatura di essa, e ciò in virtù del rapporto analogico per cui, come abbiamo detto fin dall’inizio, l’unità stessa si riflette inversamente nelle «unità» costituenti la quantità pura. È appunto questa inversione che ci permetteva poco fa di parlare di «ideale» alla rovescia, ed è evidente che esso va effettivamente inteso in un senso ben preciso; non è che sentiamo in alcun modo il bisogno di riabilitare il termine «ideale», che i moderni usano indifferentemente più o meno per tutto, e specialmente per mascherare l’assenza di qualsivoglia principio vero, e di cui si abusa talmente che ormai è un vocabolo privo di senso; ma, nondimeno, non possiamo impedirci di osservare che, secondo la sua stessa etimologia, esso dovrebbe sottolineare una certa tendenza verso l’«idea», intesa in un’accezione più o meno platonica, cioè insomma verso l’essenza e versa il qualitativo, per quanto vagamente lo si concepisca, mentre di solito, come nel caso in questione, esso è preso di fatto per designare esattamente il contrario.
Dicevamo che la tendenza è quella di uniformizzare non solo gli individui umani, ma anche le cose; se gli uomini dell’epoca attuale si vantano di modificare il mondo in sempre più larga misura, e se effettivamente tutto diventa in esso sempre più «artificiale», è soprattutto in questo senso che essi intendono modificarlo, facendo pesare tutta la loro attività su un ambito il più possibile strettamente quantitativo. Del resto, poiché si è voluto costruire una scienza tutta quantitativa, è inevitabile che le applicazioni pratiche derivate da tale scienza rivestano lo stesso carattere; sono queste le applicazioni il cui insieme è denominato generalmente «industria», e si può ben dire che l’industria moderna, sotto tutti i riguardi, rappresenti il trionfo della quantità, non soltanto perché i suoi procedimenti fanno esclusivamente appello a conoscenze d’ordine quantitativo e perché gli strumenti di cui si serve, cioè le macchine, sono fatti in modo da far intervenire il meno possibile considerazioni qualitative, mentre gli uomini che li mettono in azione sono essi stessi ridotti ad un’attività del tutto meccanica, ma anche perché, nelle stesse produzioni di questa industria, la qualità è interamente sacrificata alla quantità. A questo proposito non saranno inutili alcune osservazioni complementari; e però, prima di arrivarci, proponiamo un’altra questione su cui ritorneremo in seguito: checché si pensi del valore dei risultati dell’azione esercitata dall’uomo moderno sul mondo, è un fatto, indipendente da qualsiasi apprezzamento, che tale azione riesce e conduce, almeno in una certa misura, ai fini che si propone. Se gli uomini di un’altra epoca avessero agito allo stesso modo (supposizione del tutto «teorica» ed in effetti inverosimile date le differenze mentali esistenti tra questi uomini e quelli di oggi), i risultati ottenuti sarebbero stati gli stessi? In altri termini, affinché l’ambiente terrestre si presti ad una azione simile, non è necessario che, in qualche modo, vi sia predisposto dalle condizioni cosmiche del periodo ciclico in cui siamo attualmente, cioè non v’è qualcosa di cambiato nella natura di questo ambiente in rapporto alle epoche precedenti? A questo punto della nostra esposizione sarebbe troppo presto per precisare la natura di questo cambiamento, e per caratterizzarlo altrimenti che come una specie di diminuzione qualitativa la quale dà maggior presa a tutto quanto appartiene all’ambito quantitativo; ma quel che abbiamo detto sulle determinazioni qualitative del tempo permette almeno di concepirne già la possibilità, e di capire che le modificazioni artificiali del mondo, per potersi realizzare, devono presupporre delle modificazioni naturali cui esse non fanno che corrispondere ed in qualche modo conformarsi, proprio in virtù della correlazione che costantemente esiste, nella marcia ciclica del tempo, fra l’ordine cosmico e l’ordine umano.
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