Iniziazione e realizzazione spirituale
XXXI - Le due notti
Non intendiamo minimamente parlare qui della «notte dei
sensi» e della «notte dello spirito», come i mistici le definiscono, anche se
esse possono presentare talune similitudini parziali con il nostro argomento,
perché vi si trovano troppi elementi difficili da «situare» esattamente, o che
presentano caratteri assai «poco chiari»; ciò è evidentemente inerente alle
imperfezioni e limitazioni proprie a qualsiasi realizzazione esclusivamente
mistica, argomento sul quale abbiamo dato, in altre occasioni, spiegazioni
sufficienti ad esimerci dallo insistervi nuovamente.
D’altra parte, non intendiamo nemmeno prendere in esame le «tre notti» simboliche, le quali, per quanto riguarda l’essere umano, rappresentano tre morti e tre nascite rispettivamente riferentesi ai tre ordini, corporeo, psichico e spirituale[1]; la ragione di questo simbolismo, applicabile naturalmente ai gradi successivi dell’iniziazione, è che ogni cambiamento di stato si produce attraverso una fase d’oscurità e di «involuzione»; ne risulta che la notte può esser presa in esame secondo molteplici significati, posti in gerarchia proprio come gli stati dell’essere, dei quali però, attualmente, prenderemo in considerazione solo i due estremi. Quel che ci proponiamo, in effetti, è di precisare il simbolismo delle «tenebre» nell’eccezione tradizionale più diffusa, cioè nel suo modo di presentarsi in due sensi opposti, uno superiore ed uno inferiore, nonché la natura del rapporto analogico esistente tra questi due sensi, che permette di risolvere la loro apparente opposizione.
D’altra parte, non intendiamo nemmeno prendere in esame le «tre notti» simboliche, le quali, per quanto riguarda l’essere umano, rappresentano tre morti e tre nascite rispettivamente riferentesi ai tre ordini, corporeo, psichico e spirituale[1]; la ragione di questo simbolismo, applicabile naturalmente ai gradi successivi dell’iniziazione, è che ogni cambiamento di stato si produce attraverso una fase d’oscurità e di «involuzione»; ne risulta che la notte può esser presa in esame secondo molteplici significati, posti in gerarchia proprio come gli stati dell’essere, dei quali però, attualmente, prenderemo in considerazione solo i due estremi. Quel che ci proponiamo, in effetti, è di precisare il simbolismo delle «tenebre» nell’eccezione tradizionale più diffusa, cioè nel suo modo di presentarsi in due sensi opposti, uno superiore ed uno inferiore, nonché la natura del rapporto analogico esistente tra questi due sensi, che permette di risolvere la loro apparente opposizione.
Le tenebre in senso superiore, come abbiamo già spiegato nel
corso dei precedenti studi, rappresentano il non-manifestato; la cosa non
presenta difficoltà alcuna, e tuttavia pare che in generale questo senso
superiore sia piuttosto ignorato e misconosciuto, in quanto è facile constatare
che, quando si parla di tenebre, comunemente si pensa solo al loro senso
inferiore; ad esso inoltre, si aggiunge spesso un significato «malefico» che essenzialmente
non gli è affatto inerente, e che non si giustifica se non in taluni aspetti
secondari e molto particolari. In realtà, il senso inferiore rappresenta
propriamente il «caos», cioè lo stato d’indifferenziazione o d’indistinzione
che si trova al punto di partenza della manifestazione, sia nella sua totalità,
sia relativamente ad ognuno dei suoi stati; e qui vediamo immediatamente
apparire l’applicazione dell’analogia in senso inverso, in quanto questa
indifferenziazione, che in linguaggio occidentale si potrebbe chiamare
«materiale», è come il riflesso dell’indifferenziazione principiale del
non-manifestato, poiché quel che si trova nel punto più alto si riflette nel
punto più basso come i vertici dei due triangoli opposti del «sigillo di Salomone».
Su questa considerazione avremo ancora occasione di ritornare in seguito, ma
quel che importa soprattutto chiarire, prima di procedere oltre, è che questa
indistinzione, se applicata alla totalità della manifestazione universale, è
quella stessa di Prakriti, identica
in ciò alla hylè primordiale od alla materia prima delle antiche dottrine
cosmologiche occidentali; si tratta, in altri termini, di quello stato di
potenzialità pura il quale, in certo qual modo, è una specie di immagine
riflessa, e quindi invertita, dello stato principiale delle possibilità
non-manifestate; e tale distinzione è particolarmente importante, in quanto la
confusione tra possibilità e potenzialità è sorgente di innumerevoli errori.
D’altra parte, quando si tratta soltanto della condizione originale di un mondo
o di uno stato d’esistenza, l’indistinzione potenziale non si può più
considerare altro che in senso relativo e già «specificato», in virtù
dell’esistenza di una certa similitudine fra il processo di sviluppo della
manifestazione universale e quello di ciascuna delle sue parti costitutive,
similitudine che trova la sua particolare espressione nelle leggi cicliche;
quanto precede è suscettibile di essere applicato a tutti i gradi, al caso d’un
essere particolare come a quello di un dominio d’esistenza più o meno esteso, e
corrisponde all’osservazione da noi fatta in precedenza a proposito d’una
molteplicità di sensi in gerarchia, in quanto va da sé che, per il fatto stesso
della loro molteplicità, questi sensi non possono essere che relativi.
Da quanto abbiamo detto, appare evidente che il senso
inferiore delle tenebre è d’ordine cosmologico mentre quello superiore è
d’ordine propriamente metafisico; e si può fin d’ora osservare, che la loro
relazione permette di spiegare come l’origine e lo sviluppo della
manifestazione possano esser considerati nel contempo in senso ascendente e in
senso discendente. Se le cose stanno a questo modo, è perché la manifestazione
non procede unicamente da Prakriti, a
partire dalla quale il suo intero sviluppo è un passaggio graduale dalla
potenza all’atto descrivibile come un processo ascendente; in realtà, essa
deriva dai due poli complementari dell’Essere, cioè da Purusha e da Prakriti, e,
nei confronti di Purusha, il suo
sviluppo è un allontanamento graduale dal Principio, quindi una vera e propria
discesa. In questa considerazione è implicita la soluzione di molte apparenti
antinomie, e ciò specie per quanto riguarda i cicli cosmici, la cui marcia è
per così dire regolata da una combinazione di tendenze, che corrispondono a
questi due «movimenti» opposti o piuttosto complementari; sono evidentemente al
di fuori del nostro soggetto gli sviluppi cui può prestarsi quanto sopra, e
però si può capire che non v’è contraddizione alcuna fra l’assimilazione del
punto di partenza, o dello stato originale della manifestazione, alle tenebre
in senso inferiore da un lato, e l’insegnamento tradizionale concernente la
spiritualità dello «stato primordiale» dall’altro, in quanto le due cose non si
riferiscono allo stesso punto di vista, ma rispettivamente ai due punti di
vista complementari che abbiamo testé definito.
Abbiamo preso in esame il senso inferiore delle tenebre,
come riflesso del loro senso superiore, e da un certo punto di vista lo è
effettivamente; ma nel contempo, da un altro punto di vista, esso ne è anche in
certo qual modo il «rovescio», prendendo questo termine nell’accezione in cui
il «rovescio» e il «diritto» si oppongono come le facce di una stessa cosa; e
ciò richiede ulteriori spiegazioni. Il punto di vista a cui si applica la
considerazione del riflesso è naturalmente quello della manifestazione, e di
qualsiasi essere situato nel dominio della manifestazione; ma nei confronti del
Principio, ove l’origine e la fine di tutte le cose si congiungono e si
uniscono, non può più esser questione di riflesso, in quanto ivi non c’è che
una sola ed unica cosa, il punto di partenza come il punto d’arrivo della
manifestazione, essendo necessariamente nel non-manifestato. Dal punto di vista
del Principio in sé stesso, se in questo caso è ancora permesso servirsi di
un’espressione del genere, non si possono nemmeno distinguere i due aspetti di
questa cosa unica, perché una simile distinzione non si pone e non è valida se
non nei confronti della manifestazione; ma se si considera il Principio in
relazione alla manifestazione, si potranno distinguere come due facce,
corrispondenti all’uscita dal non-manifestato e al ritorno al non-manifestato.
Dal momento che il ritorno al non-manifestato è il termine finale della
manifestazione, si può dire che è quando lo si considera da questo lato che il
non-manifestato appare propriamente come le tenebre in senso superiore, mentre
che, se visto dal lato del punto di partenza della manifestazione, appare al
contrario come le tenebre nel senso inferiore; e, a seconda del senso in cui si
compie il «movimento» di questo verso quello, si può anche dire che la faccia
superiore è volta verso il Principio, mentre la faccia inferiore è volta verso
la manifestazione, benché quest’immagine delle due facce paia implicare una
specie di simmetria fra il Principio e la manifestazione che non ha ragione di
esistere, a parte il fatto che nel Principio non può più evidentemente esservi
alcuna distinzione tra superiore e inferiore. Il punto di vista del riflesso è
illusorio in rapporto al precedente, come lo stesso riflesso lo è in rapporto a
ciò che si riflette; il punto di vista delle due facce corrisponde dunque ad un
grado più profondo di realtà, benché anch’esso sia ancora illusorio ad un altro
livello, in quanto a sua volta scompare quando si considera il Principio in sé
e non più in rapporto alla manifestazione.
Il punto di vista che abbiamo esposto or ora potrà forse
essere ulteriormente chiarito considerandone la corrispondenza, all’interno
stesso della manifestazione, con il passaggio da uno stato ad un altro; in se
stesso questo passaggio è un punto unico, ma naturalmente può essere esaminato
dall’uno o dall’altro degli stati fra cui è situato, e di cui è il limite
comune. Anche qui si ritrova dunque la considerazione delle due facce; questo
passaggio è una morte in rapporto ad uno dei due stati, mentre è una nascita in
rapporto all’altro; ma questa morte e questa nascita in realtà coincidono, e la
distinzione tra loro esiste soltanto nei riguardi dei due stati, per cui, in
questo stesso punto, uno trova la sua fine e l’altro il suo inizio. È evidente
l’analogia con le precedenti considerazioni, riguardanti non due stati
particolari di manifestazione, ma la stessa manifestazione totale e il
Principio, o, più precisamente, il passaggio dall’una all’altro; conviene
d’altronde aggiungere che, anche in tal caso, trova applicazione il senso
inverso dell’analogia, in quanto, da un lato la nascita della manifestazione è
come una morte al Principio, e dall’altro, inversamente, la morte alla
manifestazione è una nascita o piuttosto una «ri-nascita» al Principio, in modo
che l’inizio e la fine si trovano rovesciate, a seconda che le si esamini in
rapporto al Principio od in rapporto alla manifestazione; ciò, beninteso,
sempre se vengono posti in relazione l’uno con l’altra, in quanto,
nell’immutabilità del Principio in se stesso, non vi è assolutamente né nascita
né morte, né inizio né fine, ma è lui stesso origine prima e fine ultima di
tutte le cose, senza d’altronde che fra questo inizio e questa fine vi sia
nella realtà assoluta una distinzione qualsiasi.
Se ora passiamo a considerare l’essere umano, possiamo
chiederci che cosa corrisponda, nel suo caso, alle due «notti», tra le quali,
come abbiamo visto, si dispiega tutta la manifestazione universale; per quanto
riguarda le tenebre superiori non vi sono difficoltà di sorta, in quanto, si
tratti di un essere particolare o d’un insieme di esseri, esse non possono
rappresentare altro che il ritorno al non-manifestato; questo significato,
proprio per il suo carattere prettamente metafisico, rimane immodificato in
tutte le applicazioni che di tale simbolismo è possibile fare. Per contro, per
quel che riguarda le tenebre inferiori, è evidente che qui esse non possono più
essere prese altro che in senso relativo, in quanto il punto di partenza della
manifestazione umana non coincide con quello della manifestazione universale,
bensì occupa all’interno di questa un certo livello determinato; quel che vi
appare come «caos» o come potenzialità non può dunque esserlo altro che
relativamente, e, di fatto, possiede già un certo grado di differenziazione e
di «qualificazione»; non è più la materia
prima, ma, se si vuole, una materia
secunda che svolge una funzione analoga per il livello d’esistenza
considerato. Va da sé d’altronde, che queste osservazioni non si applicano
soltanto al caso di un essere, ma anche a quello di un mondo; sarebbe un errore
pensare che la potenzialità pura e semplice possa trovarsi all’origine del
nostro mondo, il quale non è se non un grado d’esistenza fra gli altri; l’âkâsha, malgrado il suo stato
d’indifferenziazione, non è sprovvisto di ogni qualità, ma è già «specificato»
in vista della produzione della sola manifestazione corporea; non può dunque
assolutamente esser confuso con Prakriti
la quale, essendo del tutto indifferenziata, contiene in sé, proprio per questa
ragione, la potenzialità di qualsiasi manifestazione.
Ne risulta che, in relazione alle tenebre superiori, si
potrà applicare alle tenebre inferiori, come sono rappresentate nell’essere
umano, unicamente l’immagine del riflesso, con esclusione di quella delle due
facce; in effetti, come piano di riflessione, si può prendere qualsiasi livello
d’esistenza, la cui realtà, del resto, quella di cui è suscettibile nell’ordine
che gli è proprio, è data proprio dal fatto che il Principio in qualche modo vi
si riflette; d’altra parte, se si passasse all’altra faccia delle tenebre
inferiori, non è certo nel Principio o nel non-manifestato che ci si verrebbe a
trovare, ma soltanto in uno stato «preumano», il quale non sarebbe che un altro
stato di manifestazione. Nella fattispecie siamo dunque ricondotti a quanto
precedentemente avevamo spiegato a proposito del passaggio da uno stato ad un altro:
da un lato si ha la nascita allo stato umano, dall’altro la morte allo stato
«preumano»; in altri termini si tratta di quel punto che appare, secondo il
lato da cui lo si considera, come termine di uno stato o come punto di partenza
di un altro. Orbene, se si prendono in questo senso le tenebre inferiori, ci si
potrebbe chiedere perché non si considerano semplicemente, in maniera
simmetrica, le tenebre superiori a rappresentazione della morte allo stato
umano o del termine di questo stato, termine che non coincide necessariamente
con un ritorno al non-manifestato, ma che può essere soltanto il passaggio ad
un altro stato di manifestazione; di fatto, come abbiamo detto, il simbolismo
della notte si applica molto bene a qualsiasi cambiamento di stato; ma, a parte
che in questo caso si tratterebbe d’una «superiorità» molto relativa, l’inizio
e la fine di uno stato essendo soltanto due punti consecutivi e separati da una
distanza infinitesimale lungo «l’asse» dell’essere, non è questo che importa
dal punto di vista da cui ci mettiamo. In effetti, l’essenziale è tener
presente l’essere umano, qual è attualmente nella sua integralità e con tutte
le possibilità che porta in lui; orbene, fra queste possibilità c’è quella di
conseguire direttamente quel non-manifestato con cui è già in contatto, se così
si può dire, mediante la sua parte superiore; questa infatti, pur non essendo
in se stessa propriamente umana, è tuttavia quella che lo fa esistere in quanto
umano, poiché è il centro stesso della sua individualità; e, nella condizione
dell’uomo ordinario, tale contatto con il non-manifestato appare nello stato di
sonno profondo. Questo, beninteso, non è affatto un «privilegio» dello stato
umano, ché, se si prendesse in esame un qualsiasi altro stato, vi si troverebbe
del pari la stessa possibilità di ritorno diretto al non-manifestato senza
passaggio attraverso altri stati di manifestazione, in quanto l’esistenza di
uno stato qualunque è possibile unicamente perché Âtmâ si trova al centro di esso, mentre tale stato, in sua assenza,
svanirebbe nel nulla; perciò, almeno in linea di principio, ogni stato può
essere ugualmente preso come punto di partenza o come «supporto» della
realizzazione spirituale, in quanto, nell’ordine universale o metafisico, tutti
contengono in sé le stesse virtualità.
Dal momento che ci si pone dal punto di vista della
costituzione dell’essere umano, le tenebre inferiori dovranno apparire
piuttosto sotto l’aspetto di una modalità di questo essere che non sotto quello
d’un primo «istante» della sua esistenza; ma, d’altra parte, le due cose in un
certo senso sono in connessione, in quanto è sempre il punto di partenza dello
sviluppo dell’individuo ad essere in causa, sviluppo alle cui diverse fasi
corrispondono diverse modalità fra le quali, appunto per questo, si stabilisce
una certa gerarchia; si tratta dunque di una potenzialità relativa, come si può
chiamarla, a partire dalla quale si effettuerà lo sviluppo integrale della
manifestazione individuale. E sotto tale aspetto, a rappresentare le tenebre
inferiori non può essere se non la parte più grossolana dell’individualità
umana, la più «tamasica» in certo qual modo, ma in cui tuttavia
quest’individualità, nel suo complesso, si trova avvolta come un germe od un
embrione; non sarà, in altri termini, nient’altro che la modalità corporea vera
e propria. E nemmeno c’è da stupirsi che sia il corpo che corrisponde in questo
modo al riflesso del non-manifestato nell’essere umano, in quanto anche qui,
tenendo presente il senso inverso dell’analogia, si possono risolvere
immediatamente tutte le difficoltà apparenti; come abbiamo già detto, il punto
più alto ha necessariamente il suo riflesso nel punto più basso, ed è per
questa ragione per esempio che l’immutabilità principiale ha nel nostro mondo
la sua immagine invertita nell’immobilità del minerale. In linea generale si
potrebbe dire che le proprietà d’ordine spirituale trovano la loro espressione,
ma in certo qual modo «rovesciata» e come «negativa», in quanto v’è di più
corporeo; e, nella fattispecie, non si tratta in fondo che dell’applicazione a
questo mondo di quanto abbiamo spiegato precedentemente a proposito del
rapporto inverso fra lo stato di potenzialità e lo stato principiale di
non-manifestazione. In virtù della stessa analogia, lo stato di veglia, che è
quello in cui la coscienza dell’individuo è «centrata» nella modalità corporea,
è spiritualmente uno stato di sonno e viceversa; questa considerazione sul
sonno permette d’altronde di capire ancor meglio che il corporeo e lo
spirituale appaiano rispettivamente come «notte» uno in rapporto all’altro,
benché naturalmente sia illusorio il considerarli simmetricamente come due poli
dell’essere, se non altro perché il corpo, in realtà, non è affatto una materia prima, ma soltanto un semplice
«sostituto» di questa relativamente ad uno stato determinato, quando per contro
lo spirito non cessa mai d’essere un principio universale e non si situa ad
alcun livello relativo. Tenuto conto di queste riserve, e parlando
conformemente alle apparenze inerenti ad un certo livello d’esistenza, si può
parlare d’un «sonno dello spirito» corrispondente alla veglia corporea;
l’«impenetrabilità» dei corpi, per strano che ciò possa sembrare, non è essa
stessa che una espressione di questo «sonno», e, del resto, tutte le proprietà
caratteristiche dei corpi potrebbero ugualmente essere interpretate secondo
questo punto di vista analogico.
Sotto il profilo della realizzazione, è soprattutto
importante ritenere, di queste considerazioni, che se essa si compie a partire
dall’essere umano, è il corpo stesso che deve servirle da base e da punto di
partenza; è esso ad esserne il «supporto» normale, contrariamente a certi
pregiudizi comuni in Occidente che vorrebbero vedervi soltanto un ostacolo, o
ritenerlo una «quantità trascurabile»; che ciò si applichi alla funzione svolta
da un elemento d’ordine corporeo in tutti i riti, quali mezzi o ausiliari della
realizzazione, è troppo evidente perché sia il caso di insistervi. Le
conseguenze deducibili da tutto ciò, e che al presente non possiamo sviluppare,
sarebbero ben altre: in particolare si potrebbe intravvedervi la possibilità di
certe trasposizioni e «trasmutazioni», del tutto inattese per chi non vi abbia
mai posto mente; è fuori questione però che non è con il concepire il corpo alla
maniera delle teorie «meccaniciste» e «fisico-chimiche» dei moderni che sarà
mai possibile a questo proposito comprendere alcunché[2].
[1] Vedere A. K. Coomaraswamy, Notes on the Katha Upanishad, I parte.
[2] Nella
tradizione islamica, le due «notti» di cui abbiamo parlato sono rispettivamente
rappresentate da laylatul-qadr e da laylatul-mirâj, corrispondenti ad un
doppio movimento «discendente» ed «ascendente»; la seconda è l’ascensione
notturna del Profeta, cioè il ritorno al Principio attraverso ai differenti
«cieli» che sono gli stati superiori dell’essere; la prima invece è la notte in
cui avvenne la discesa del Qorân, e
tale «notte», secondo il commento di Mohyddin ibn Arabi, si identifica con il
corpo stesso del Profeta. Qui è particolarmente rimarchevole che la
«rivelazione» viene ricevuta, non nel «mentale», ma nel corpo dell’essere
«missionato» per esprimere il Principio: Et
verbum caro factum est dice anche il Vangelo (caro, e non mens), ed è
questa, molto esattamente, un’altra espressione, nella forma propria alla
tradizione cristiana, di quel che laylatul-qadr
rappresenta nella tradizione islamica.
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