"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

lunedì 13 ottobre 2014

René Guénon, Iniziazione e realizzazione spirituale - XXXI - Le due notti

René Guénon
Iniziazione e realizzazione spirituale 

XXXI - Le due notti

Non intendiamo minimamente parlare qui della «notte dei sensi» e della «notte dello spirito», come i mistici le definiscono, anche se esse possono presentare talune similitudini parziali con il nostro argomento, perché vi si trovano troppi elementi difficili da «situare» esattamente, o che presentano caratteri assai «poco chiari»; ciò è evidentemente inerente alle imperfezioni e limitazioni proprie a qualsiasi realizzazione esclusivamente mistica, argomento sul quale abbiamo dato, in altre occasioni, spiegazioni sufficienti ad esimerci dallo insistervi nuovamente.
D’altra parte, non intendiamo nemmeno prendere in esame le «tre notti» simboliche, le quali, per quanto riguarda l’essere umano, rappresentano tre morti e tre nascite rispettivamente riferentesi ai tre ordini, corporeo, psichico e spirituale[1]; la ragione di questo simbolismo, applicabile naturalmente ai gradi successivi dell’iniziazione, è che ogni cambiamento di stato si produce attraverso una fase d’oscurità e di «involuzione»; ne risulta che la notte può esser presa in esame secondo molteplici significati, posti in gerarchia proprio come gli stati dell’essere, dei quali però, attualmente, prenderemo in considerazione solo i due estremi. Quel che ci proponiamo, in effetti, è di precisare il simbolismo delle «tenebre» nell’eccezione tradizionale più diffusa, cioè nel suo modo di presentarsi in due sensi opposti, uno superiore ed uno inferiore, nonché la natura del rapporto analogico esistente tra questi due sensi, che permette di risolvere la loro apparente opposizione.
Le tenebre in senso superiore, come abbiamo già spiegato nel corso dei precedenti studi, rappresentano il non-manifestato; la cosa non presenta difficoltà alcuna, e tuttavia pare che in generale questo senso superiore sia piuttosto ignorato e misconosciuto, in quanto è facile constatare che, quando si parla di tenebre, comunemente si pensa solo al loro senso inferiore; ad esso inoltre, si aggiunge spesso un significato «malefico» che essenzialmente non gli è affatto inerente, e che non si giustifica se non in taluni aspetti secondari e molto particolari. In realtà, il senso inferiore rappresenta propriamente il «caos», cioè lo stato d’indifferenziazione o d’indistinzione che si trova al punto di partenza della manifestazione, sia nella sua totalità, sia relativamente ad ognuno dei suoi stati; e qui vediamo immediatamente apparire l’applicazione dell’analogia in senso inverso, in quanto questa indifferenziazione, che in linguaggio occidentale si potrebbe chiamare «materiale», è come il riflesso dell’indifferenziazione principiale del non-manifestato, poiché quel che si trova nel punto più alto si riflette nel punto più basso come i vertici dei due triangoli opposti del «sigillo di Salomone». Su questa considerazione avremo ancora occasione di ritornare in seguito, ma quel che importa soprattutto chiarire, prima di procedere oltre, è che questa indistinzione, se applicata alla totalità della manifestazione universale, è quella stessa di Prakriti, identica in ciò alla hylè primordiale od alla materia prima delle antiche dottrine cosmologiche occidentali; si tratta, in altri termini, di quello stato di potenzialità pura il quale, in certo qual modo, è una specie di immagine riflessa, e quindi invertita, dello stato principiale delle possibilità non-manifestate; e tale distinzione è particolarmente importante, in quanto la confusione tra possibilità e potenzialità è sorgente di innumerevoli errori. D’altra parte, quando si tratta soltanto della condizione originale di un mondo o di uno stato d’esistenza, l’indistinzione potenziale non si può più considerare altro che in senso relativo e già «specificato», in virtù dell’esistenza di una certa similitudine fra il processo di sviluppo della manifestazione universale e quello di ciascuna delle sue parti costitutive, similitudine che trova la sua particolare espressione nelle leggi cicliche; quanto precede è suscettibile di essere applicato a tutti i gradi, al caso d’un essere particolare come a quello di un dominio d’esistenza più o meno esteso, e corrisponde all’osservazione da noi fatta in precedenza a proposito d’una molteplicità di sensi in gerarchia, in quanto va da sé che, per il fatto stesso della loro molteplicità, questi sensi non possono essere che relativi.
Da quanto abbiamo detto, appare evidente che il senso inferiore delle tenebre è d’ordine cosmologico mentre quello superiore è d’ordine propriamente metafisico; e si può fin d’ora osservare, che la loro relazione permette di spiegare come l’origine e lo sviluppo della manifestazione possano esser considerati nel contempo in senso ascendente e in senso discendente. Se le cose stanno a questo modo, è perché la manifestazione non procede unicamente da Prakriti, a partire dalla quale il suo intero sviluppo è un passaggio graduale dalla potenza all’atto descrivibile come un processo ascendente; in realtà, essa deriva dai due poli complementari dell’Essere, cioè da Purusha e da Prakriti, e, nei confronti di Purusha, il suo sviluppo è un allontanamento graduale dal Principio, quindi una vera e propria discesa. In questa considerazione è implicita la soluzione di molte apparenti antinomie, e ciò specie per quanto riguarda i cicli cosmici, la cui marcia è per così dire regolata da una combinazione di tendenze, che corrispondono a questi due «movimenti» opposti o piuttosto complementari; sono evidentemente al di fuori del nostro soggetto gli sviluppi cui può prestarsi quanto sopra, e però si può capire che non v’è contraddizione alcuna fra l’assimilazione del punto di partenza, o dello stato originale della manifestazione, alle tenebre in senso inferiore da un lato, e l’insegnamento tradizionale concernente la spiritualità dello «stato primordiale» dall’altro, in quanto le due cose non si riferiscono allo stesso punto di vista, ma rispettivamente ai due punti di vista complementari che abbiamo testé definito.
Abbiamo preso in esame il senso inferiore delle tenebre, come riflesso del loro senso superiore, e da un certo punto di vista lo è effettivamente; ma nel contempo, da un altro punto di vista, esso ne è anche in certo qual modo il «rovescio», prendendo questo termine nell’accezione in cui il «rovescio» e il «diritto» si oppongono come le facce di una stessa cosa; e ciò richiede ulteriori spiegazioni. Il punto di vista a cui si applica la considerazione del riflesso è naturalmente quello della manifestazione, e di qualsiasi essere situato nel dominio della manifestazione; ma nei confronti del Principio, ove l’origine e la fine di tutte le cose si congiungono e si uniscono, non può più esser questione di riflesso, in quanto ivi non c’è che una sola ed unica cosa, il punto di partenza come il punto d’arrivo della manifestazione, essendo necessariamente nel non-manifestato. Dal punto di vista del Principio in sé stesso, se in questo caso è ancora permesso servirsi di un’espressione del genere, non si possono nemmeno distinguere i due aspetti di questa cosa unica, perché una simile distinzione non si pone e non è valida se non nei confronti della manifestazione; ma se si considera il Principio in relazione alla manifestazione, si potranno distinguere come due facce, corrispondenti all’uscita dal non-manifestato e al ritorno al non-manifestato. Dal momento che il ritorno al non-manifestato è il termine finale della manifestazione, si può dire che è quando lo si considera da questo lato che il non-manifestato appare propriamente come le tenebre in senso superiore, mentre che, se visto dal lato del punto di partenza della manifestazione, appare al contrario come le tenebre nel senso inferiore; e, a seconda del senso in cui si compie il «movimento» di questo verso quello, si può anche dire che la faccia superiore è volta verso il Principio, mentre la faccia inferiore è volta verso la manifestazione, benché quest’immagine delle due facce paia implicare una specie di simmetria fra il Principio e la manifestazione che non ha ragione di esistere, a parte il fatto che nel Principio non può più evidentemente esservi alcuna distinzione tra superiore e inferiore. Il punto di vista del riflesso è illusorio in rapporto al precedente, come lo stesso riflesso lo è in rapporto a ciò che si riflette; il punto di vista delle due facce corrisponde dunque ad un grado più profondo di realtà, benché anch’esso sia ancora illusorio ad un altro livello, in quanto a sua volta scompare quando si considera il Principio in sé e non più in rapporto alla manifestazione.
Il punto di vista che abbiamo esposto or ora potrà forse essere ulteriormente chiarito considerandone la corrispondenza, all’interno stesso della manifestazione, con il passaggio da uno stato ad un altro; in se stesso questo passaggio è un punto unico, ma naturalmente può essere esaminato dall’uno o dall’altro degli stati fra cui è situato, e di cui è il limite comune. Anche qui si ritrova dunque la considerazione delle due facce; questo passaggio è una morte in rapporto ad uno dei due stati, mentre è una nascita in rapporto all’altro; ma questa morte e questa nascita in realtà coincidono, e la distinzione tra loro esiste soltanto nei riguardi dei due stati, per cui, in questo stesso punto, uno trova la sua fine e l’altro il suo inizio. È evidente l’analogia con le precedenti considerazioni, riguardanti non due stati particolari di manifestazione, ma la stessa manifestazione totale e il Principio, o, più precisamente, il passaggio dall’una all’altro; conviene d’altronde aggiungere che, anche in tal caso, trova applicazione il senso inverso dell’analogia, in quanto, da un lato la nascita della manifestazione è come una morte al Principio, e dall’altro, inversamente, la morte alla manifestazione è una nascita o piuttosto una «ri-nascita» al Principio, in modo che l’inizio e la fine si trovano rovesciate, a seconda che le si esamini in rapporto al Principio od in rapporto alla manifestazione; ciò, beninteso, sempre se vengono posti in relazione l’uno con l’altra, in quanto, nell’immutabilità del Principio in se stesso, non vi è assolutamente né nascita né morte, né inizio né fine, ma è lui stesso origine prima e fine ultima di tutte le cose, senza d’altronde che fra questo inizio e questa fine vi sia nella realtà assoluta una distinzione qualsiasi.
Se ora passiamo a considerare l’essere umano, possiamo chiederci che cosa corrisponda, nel suo caso, alle due «notti», tra le quali, come abbiamo visto, si dispiega tutta la manifestazione universale; per quanto riguarda le tenebre superiori non vi sono difficoltà di sorta, in quanto, si tratti di un essere particolare o d’un insieme di esseri, esse non possono rappresentare altro che il ritorno al non-manifestato; questo significato, proprio per il suo carattere prettamente metafisico, rimane immodificato in tutte le applicazioni che di tale simbolismo è possibile fare. Per contro, per quel che riguarda le tenebre inferiori, è evidente che qui esse non possono più essere prese altro che in senso relativo, in quanto il punto di partenza della manifestazione umana non coincide con quello della manifestazione universale, bensì occupa all’interno di questa un certo livello determinato; quel che vi appare come «caos» o come potenzialità non può dunque esserlo altro che relativamente, e, di fatto, possiede già un certo grado di differenziazione e di «qualificazione»; non è più la materia prima, ma, se si vuole, una materia secunda che svolge una funzione analoga per il livello d’esistenza considerato. Va da sé d’altronde, che queste osservazioni non si applicano soltanto al caso di un essere, ma anche a quello di un mondo; sarebbe un errore pensare che la potenzialità pura e semplice possa trovarsi all’origine del nostro mondo, il quale non è se non un grado d’esistenza fra gli altri; l’âkâsha, malgrado il suo stato d’indifferenziazione, non è sprovvisto di ogni qualità, ma è già «specificato» in vista della produzione della sola manifestazione corporea; non può dunque assolutamente esser confuso con Prakriti la quale, essendo del tutto indifferenziata, contiene in sé, proprio per questa ragione, la potenzialità di qualsiasi manifestazione.
Ne risulta che, in relazione alle tenebre superiori, si potrà applicare alle tenebre inferiori, come sono rappresentate nell’essere umano, unicamente l’immagine del riflesso, con esclusione di quella delle due facce; in effetti, come piano di riflessione, si può prendere qualsiasi livello d’esistenza, la cui realtà, del resto, quella di cui è suscettibile nell’ordine che gli è proprio, è data proprio dal fatto che il Principio in qualche modo vi si riflette; d’altra parte, se si passasse all’altra faccia delle tenebre inferiori, non è certo nel Principio o nel non-manifestato che ci si verrebbe a trovare, ma soltanto in uno stato «preumano», il quale non sarebbe che un altro stato di manifestazione. Nella fattispecie siamo dunque ricondotti a quanto precedentemente avevamo spiegato a proposito del passaggio da uno stato ad un altro: da un lato si ha la nascita allo stato umano, dall’altro la morte allo stato «preumano»; in altri termini si tratta di quel punto che appare, secondo il lato da cui lo si considera, come termine di uno stato o come punto di partenza di un altro. Orbene, se si prendono in questo senso le tenebre inferiori, ci si potrebbe chiedere perché non si considerano semplicemente, in maniera simmetrica, le tenebre superiori a rappresentazione della morte allo stato umano o del termine di questo stato, termine che non coincide necessariamente con un ritorno al non-manifestato, ma che può essere soltanto il passaggio ad un altro stato di manifestazione; di fatto, come abbiamo detto, il simbolismo della notte si applica molto bene a qualsiasi cambiamento di stato; ma, a parte che in questo caso si tratterebbe d’una «superiorità» molto relativa, l’inizio e la fine di uno stato essendo soltanto due punti consecutivi e separati da una distanza infinitesimale lungo «l’asse» dell’essere, non è questo che importa dal punto di vista da cui ci mettiamo. In effetti, l’essenziale è tener presente l’essere umano, qual è attualmente nella sua integralità e con tutte le possibilità che porta in lui; orbene, fra queste possibilità c’è quella di conseguire direttamente quel non-manifestato con cui è già in contatto, se così si può dire, mediante la sua parte superiore; questa infatti, pur non essendo in se stessa propriamente umana, è tuttavia quella che lo fa esistere in quanto umano, poiché è il centro stesso della sua individualità; e, nella condizione dell’uomo ordinario, tale contatto con il non-manifestato appare nello stato di sonno profondo. Questo, beninteso, non è affatto un «privilegio» dello stato umano, ché, se si prendesse in esame un qualsiasi altro stato, vi si troverebbe del pari la stessa possibilità di ritorno diretto al non-manifestato senza passaggio attraverso altri stati di manifestazione, in quanto l’esistenza di uno stato qualunque è possibile unicamente perché Âtmâ si trova al centro di esso, mentre tale stato, in sua assenza, svanirebbe nel nulla; perciò, almeno in linea di principio, ogni stato può essere ugualmente preso come punto di partenza o come «supporto» della realizzazione spirituale, in quanto, nell’ordine universale o metafisico, tutti contengono in sé le stesse virtualità.
Dal momento che ci si pone dal punto di vista della costituzione dell’essere umano, le tenebre inferiori dovranno apparire piuttosto sotto l’aspetto di una modalità di questo essere che non sotto quello d’un primo «istante» della sua esistenza; ma, d’altra parte, le due cose in un certo senso sono in connessione, in quanto è sempre il punto di partenza dello sviluppo dell’individuo ad essere in causa, sviluppo alle cui diverse fasi corrispondono diverse modalità fra le quali, appunto per questo, si stabilisce una certa gerarchia; si tratta dunque di una potenzialità relativa, come si può chiamarla, a partire dalla quale si effettuerà lo sviluppo integrale della manifestazione individuale. E sotto tale aspetto, a rappresentare le tenebre inferiori non può essere se non la parte più grossolana dell’individualità umana, la più «tamasica» in certo qual modo, ma in cui tuttavia quest’individualità, nel suo complesso, si trova avvolta come un germe od un embrione; non sarà, in altri termini, nient’altro che la modalità corporea vera e propria. E nemmeno c’è da stupirsi che sia il corpo che corrisponde in questo modo al riflesso del non-manifestato nell’essere umano, in quanto anche qui, tenendo presente il senso inverso dell’analogia, si possono risolvere immediatamente tutte le difficoltà apparenti; come abbiamo già detto, il punto più alto ha necessariamente il suo riflesso nel punto più basso, ed è per questa ragione per esempio che l’immutabilità principiale ha nel nostro mondo la sua immagine invertita nell’immobilità del minerale. In linea generale si potrebbe dire che le proprietà d’ordine spirituale trovano la loro espressione, ma in certo qual modo «rovesciata» e come «negativa», in quanto v’è di più corporeo; e, nella fattispecie, non si tratta in fondo che dell’applicazione a questo mondo di quanto abbiamo spiegato precedentemente a proposito del rapporto inverso fra lo stato di potenzialità e lo stato principiale di non-manifestazione. In virtù della stessa analogia, lo stato di veglia, che è quello in cui la coscienza dell’individuo è «centrata» nella modalità corporea, è spiritualmente uno stato di sonno e viceversa; questa considerazione sul sonno permette d’altronde di capire ancor meglio che il corporeo e lo spirituale appaiano rispettivamente come «notte» uno in rapporto all’altro, benché naturalmente sia illusorio il considerarli simmetricamente come due poli dell’essere, se non altro perché il corpo, in realtà, non è affatto una materia prima, ma soltanto un semplice «sostituto» di questa relativamente ad uno stato determinato, quando per contro lo spirito non cessa mai d’essere un principio universale e non si situa ad alcun livello relativo. Tenuto conto di queste riserve, e parlando conformemente alle apparenze inerenti ad un certo livello d’esistenza, si può parlare d’un «sonno dello spirito» corrispondente alla veglia corporea; l’«impenetrabilità» dei corpi, per strano che ciò possa sembrare, non è essa stessa che una espressione di questo «sonno», e, del resto, tutte le proprietà caratteristiche dei corpi potrebbero ugualmente essere interpretate secondo questo punto di vista analogico.
Sotto il profilo della realizzazione, è soprattutto importante ritenere, di queste considerazioni, che se essa si compie a partire dall’essere umano, è il corpo stesso che deve servirle da base e da punto di partenza; è esso ad esserne il «supporto» normale, contrariamente a certi pregiudizi comuni in Occidente che vorrebbero vedervi soltanto un ostacolo, o ritenerlo una «quantità trascurabile»; che ciò si applichi alla funzione svolta da un elemento d’ordine corporeo in tutti i riti, quali mezzi o ausiliari della realizzazione, è troppo evidente perché sia il caso di insistervi. Le conseguenze deducibili da tutto ciò, e che al presente non possiamo sviluppare, sarebbero ben altre: in particolare si potrebbe intravvedervi la possibilità di certe trasposizioni e «trasmutazioni», del tutto inattese per chi non vi abbia mai posto mente; è fuori questione però che non è con il concepire il corpo alla maniera delle teorie «meccaniciste» e «fisico-chimiche» dei moderni che sarà mai possibile a questo proposito comprendere alcunché[2].


[1] Vedere A. K. Coomaraswamy, Notes on the Katha Upanishad, I parte. 
[2] Nella tradizione islamica, le due «notti» di cui abbiamo parlato sono rispettivamente rappresentate da laylatul-qadr e da laylatul-mirâj, corrispondenti ad un doppio movimento «discendente» ed «ascendente»; la seconda è l’ascensione notturna del Profeta, cioè il ritorno al Principio attraverso ai differenti «cieli» che sono gli stati superiori dell’essere; la prima invece è la notte in cui avvenne la discesa del Qorân, e tale «notte», secondo il commento di Mohyddin ibn Arabi, si identifica con il corpo stesso del Profeta. Qui è particolarmente rimarchevole che la «rivelazione» viene ricevuta, non nel «mentale», ma nel corpo dell’essere «missionato» per esprimere il Principio: Et verbum caro factum est dice anche il Vangelo (caro, e non mens), ed è questa, molto esattamente, un’altra espressione, nella forma propria alla tradizione cristiana, di quel che laylatul-qadr rappresenta nella tradizione islamica.

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