La via del fatâ: il giusto utilizzo del libero arbitrio
È Dio, infatti, che suscita in voi il volere e l’operare secondo i suoi benevoli disegni. (Lettera ai Filippesi, II, 13).
La creatura decide, ma non conosce il destino (taqdîr); la decisione della creatura non assomiglia al destino stabilito da Dio. (Rûmî, Dîwân, ..)
In uno studio precedente
dedicato alla futuwwa, abbiamo dimostrato, speriamo in maniera chiara,
come il vero fatâ, o cavaliere nella sua “traduzione” occidentale, non
sia altro se non che il mezzo, tramite il quale opera la Misericordia divina.
Affinché Essa operi, è necessario però, che il fatâ sia cosciente di
quanto lui è, vale a dire, che egli sia cosciente della sua ontologica
condizione di servo e che, quindi, consideri l’essere un fatâ, quale
designazione divina.[1]
Questo implica che,
conseguentemente l’essere stato oggetto di una grazia divina, il cavaliere è
continuamente messo alla prova dalla sua stessa “qualificazione”, cioè dal suo
essere fatâ: ogni atto, in senso generale, che vada contro il suo
swadharma, gli farebbe perdere la grazia ricevuta. Sono queste le condizioni
sine qua non, per cui il fatâ rende possibile, attraverso la sua
“propria esistenza”, la ri-proposizione nel basso mondo (ad-dunya) della
nobiltà divina creatrice, vale a dire, la funzione del verbum Dei, in
arabo Kun[2]
corrispondente al Fiat latino.
Il fatâ antepone
gli altri a se stesso, dando preferenza, così facendo, a Dio. Ci spieghiamo
meglio: nel momento a-temporale in cui Dio esistenziò il creato, Egli,
l’Indipendente, in realtà non necessitava in alcun modo della creazione del
creato, è stato, infatti, solo per la Sua Misericordia che Egli ha creato ciò
che è stato creato.
Quindi, l’aver anteposto,
da parte di Dio, la necessità dell’esistenza del creato ad essere creato,[3]
implica che il cavaliere anteponga “orizzontalmente” le necessità altrui alle
sue. In ciò facendo, il fatâ non fa che dare preferenza a Dio, poiché è
Dio che ha, invero, anteposto i bisogni delle Sue creature a Lui stesso. Quello
che è accaduto con il Kun, che procede da Dio solo, è riproposto dal
fatâ ogni giorno con la sua opera altruistica tra la gente.
In altre parole, Dio en
donnant une apparente
raison
à Sa création, fait acte de futuwwa;[4]
perché rinuncia alla singolarità del Suo Essere (infirâdu-hu bi-l-wujûd);
parimenti il cavaliere compie atto di futuwwa, quando “sceglie” di
occuparsi degli altri a detrimento di se stesso, con la differenza che, così
operando, non fa che accordare la precedenza a Dio e non alle altre creature,
poiché è Lui che ha scelto il fatâ, affinché rivesta l’abito della
futuwwa. La futuwwa è allora una qualità divina (na‘t ilâhî),
quindi, la futuwwa
de l’homme doit se modeler sur celle de Dieu, sans
confondre avec elle. De même que Dieu en créant l’homme l’à préféré à lui-même,
l’homme dans ses rapports avec les autres, ne doit viser que Dieu.[5]
Il “mettersi” a
disposizione di Allâh da parte del cavaliere, implica par suite, la santé de
la
volonté (irâdah)
[que] consiste à remettre généreusement à Allâh sa propre faculté d’agir, à
rester le sujet vide de pouvoir, par l’abandon du libre choix, à persévérer
immobile devant le cours des décrets divins, comme le mort entre les mains du
laveur, qui le retourne comme il veut.[6]
Con questa sostanziosa
introduzione, per forza molto sintetica,[7]
siamo dunque giunti al punto centrale del presente studio: il libero arbitrio e
il suo giusto “uso” o anche il suo abbandono.
Per addivenire all’abandon
du libre choix, il fatâ deve necessariamente combattere e
sottomettere quella che è la propria egoità, ovverosia la nafs al-ammara
bi-l-sû’ che finisce con il coincidere con il libero arbitrio, quando esso
non “viene usato correttamente”. Poiché la natura umana, sotto forma di egoità
(o di libero arbitrio) ostacola l’acquisizione degli attributi interiori che Dio
ci ha ordinato di acquisire, e la futuwwa è uno di questi, è per mezzo
della propria volontà e della propria intenzione che il fatâ educa la sua
anima e la sbarazza dalle costrizioni della natura, affinché possa acquisire le
stazioni (attributi interiori) a lui ordinate. Esse sono dunque raggiunte per
mezzo della volontà e dello sforzo e sono acquisite in modo permanente, mentre
gli stati spirituali sono doni che non possono essere raggiunti e non sono
permanenti.
Il cavaliere autentico
segue dunque una via che è contraddistinta dall’abbandono, che è di due tipi: il
primo è l’abbandono o superamento della propria nafs sotto il suo aspetto
di libero arbitrio, con il connesso attaccamento per questo mondo e i suoi beni;[8]
il secondo è l’abbandono fiducioso in Dio (tawakkul).
Cercheremo, allora, di delineare al meglio tali due modalità di abbandono,
precisando però che è impossibile parlarne, metodicamente, per compartimenti
stagni, essendo naturalmente collegate fra loro da un preciso rapporto
gerarchico.
Inizieremo comunque
affermando che il tawakkul, al suo grado più elevato non è altro che,
l’espressione della nostra totale indigenza di fronte all’Onnipotenza divina,
quella che l’essere realizza rinunciando alla sua illusoria pretesa di potenza (tabarrî
min al-hawl wa-l-quwwa), dal momento che la forza e la potenza non
appartengono che a Dio.[9]
Come afferma Ibn‘Arabî, nelle Futûhât (cap. 263), si tratta di realizzare che
le “marcheur” au moyen de la “creature” (al-khalq) n’est autre que Dieu
Lui-même (al-Haqq), et Lui è “sul retto sentiero”.[10]
Il
“lavoro”, che deve essere portato a buon fine da parte del fatâ, secondo
il Suo Volere e la Sua Soddisfazione, consiste dunque nel rimuovere il velo
costituito dal libero arbitrio, che è stato messo su ogni creatura da Dio
stesso.
La parola araba che rende
il concetto di libero arbitrio è al-ikhtiyâr, derivante dalla terza
persona singolare del verbo, che è ikhtâra, “egli sceglie”. Il
significato accordato al termine in esame è quindi scelta, selezione, opzione,
preferenza e libero arbitrio.[11]
Già nell’etimologia della
parola araba, si cela la “soluzione” del nostro studio: abbiamo detto, infatti,
che, “egli sceglie” è la radice da cui discende il libero arbitrio, ma chi
“sceglie” veramente?
La lingua araba è una
lingua sintetica e come tale dischiude in ogni suo vocabolo una molteplicità di
significati, che corrispondono a una molteplicità di piani di riferimento, che
possono essere raggiunti conformemente alle proprie capacità di con-prensione.[12]
Il quesito poc’anzi posto ‑ chi “sceglie” veramente? ‑ , ci porta direttamente
ad esaminare partitamene il pronome “egli” e poi l’azione verbale “sceglie”.
Se scegliere, indica
l’azione, che porta a distinguere tra più cose o persone, operata da un soggetto
dotato di discernimento, saremo ovviamente portati ad associarla a una persona
fisica, “egli”, per l’appunto. Sennonché il libero arbitrio è l’illusoria
pretesa di potenza (tabarrî min al-hawl wa-l-quwwa) da parte dell’ego
dell’uomo, che crede, illusoriamente, di essere unico giudice[13]
di se stesso in questa vita e fintanto nell’altra (a detta di alcune persone).
Liberarsi da questa illusione consiste, come attestato tra l’altro da Shiblî,
nell’essere in rapporto a Dio come se non fossi mai esistito (kamâ lam takun)
e Dio, in rapporto a te, come se non avesse mai cessato di essere (kamâ
lam yazal), vale a dire, affermare che solo Lui esiste mentre noi, nelle
migliori delle ipotesi, siamo paragonabili a quelle effimere apparizioni delle
comete nell’universo.[14]
Il pronome verbale “egli”
va dunque riferito a Lui e l’azione di scegliere appartiene a Lui. E non è forse
scritto, infatti: Non fosti tu a lanciare quando lanciasti, ma fu Allâh che
lanciò?[15]
Tutti noi siamo quindi
velati dalla nostra egoità (libero arbitrio), che ci si presenta già in questa
forma della terza persona singolare ‑ “egli sceglie” ‑ , infatti, Dieu le
Très-Haut a placé sur le coeur du serviteur un talisman par le quel Il lui a
voile la lumière de l’unité des actes.[16]
Ad alcuni di noi sarà però concesso di svelarsi dal velo, che ci impedisce di
conoscere la verità, ovverosia l’Unicità di Dio. Tra questi vi saranno
sicuramente i fityan, plurale di fatâ.[17]
L’“illuminazione” che
giunge al fatâ e che questi mette in pratica, è che il libero arbitrio, o
anche la “libertà dell’ego”, non è un fine quanto, invece, uno strumento di
potenza attiva, che ha valore solo nel mondo fenomenico. Si ricordi sempre però,
che la stessa “illuminazione” è in ogni caso frutto di una grazia ricevuta da
Dio, poiché è Dio stesso che “sceglie”, chi debba essere “rivestito” dell’abito
della futuwwa: è detto, infatti, nel Kitâb al-Futuwwa che la
Futuwwah è prendersi cura del deposito affidatoci….[18]
Non ci sembra allora minimamente in discussione che Spiritus ubi vult spirat
e che quindi, chi parte dalla posizione diametralmente opposta, in forza della
quale le creature possono “autodeterminarsi” per poi rinnegare il loro statuto
ontologico di dipendenza da Chi le ha create, sia in grave errore![19]
Il libero arbitrio, che
abbiamo assimilato all’ego, esiste proprio perché deve essere “superato” in
maniera attiva, al fine di ri-nascere nella metalibertà e nella metaschiavitù
dei mondi superiori. Il velo posto da Dio sulle creature tutte, ne costituisce
una prova[20]:
vi sarà chi farà del proprio libero arbitrio l’unica ragione di vita, fintanto
la propria divinità, quindi inevitabilmente perdendosi, mentre vi sarà chi lo
utilizzerà come strumento per porsi al servizio di Dio:
l’homme est néant en
tant qu’il s’identifie à sa nature individuelle (son “corps”) et il est quand il
a la conscience effective de sa propre nature essentielle ou de son identité
fondamentale avec l’Être.[21]
Dice a tal proposito Rûmî:
In ogni atto che tu hai desiderio di fare, tu scorgi chiara la tua potenza di
compierlo; in ogni atto che tu non hai voglia di fare, allora vedi la
costrizione e dici: “È da Dio!”,[22]
in realtà attraverso il libero arbitrio dell’uomo è il Volere di Dio che si
manifesta e non il volere dell’uomo in quanto tale.
Per questo, nonostante non
ci sia “agente” e “volere” se non Dio e da Dio, tale verità è uno dei segreti
della natura divina, che Dio stesso ha celato ai Suoi servi, conferendo loro
esteriormente al-ikhtiyâr, “libero arbitrio”, affinché quest’ultimo
costituisca un argomento contro gli stessi servi quando ne abusino:
Dì: a Dio appartiene l’argomento definitivo.[23]
Questo segreto, opportunamente nascosto da Dio, non può essere invocato da parte
del servo in suo favore, evitando così di compiere gli atti che gli sono
prescritti dalla Legge sacra o addirittura di disobbedirne le disposizioni, dal
momento che questi atti prescritti sono contenuti nella Legge e concernono gli
atti esteriori, in vista dei quali ogni servo è stato dotato del libero
arbitrio per compierli adeguatamente.
La shari‘â
attribuisce l’azione al servo (‘abd) in considerazione del libero
arbitrio che gli è stato conferito sul piano esteriore: è la dottrina
dell’acquisizione dei meriti (kasb). Contrariamente, la realtà spirituale
nega qualsiasi paternità al servitore dei suoi atti in considerazione della
verità intrinseca delle cose: non c’è agente se non Dio e non vi è volere se non
quello di Dio.[24]
Al-ikhtiyâr
è, come già si è detto, un’“arma a doppio taglio”: avendo la possibilità di
scegliere e di fare il bene, l’uomo non ha scusanti nel momento in cui opta per
il male.[25]
E non è forse scritto: comportatevi da uomini liberi, non servendovi della
libertà come di un velo per coprire la malizia, ma come servitori di Dio.[26]
Quanto detto finora, porta
con sé il pericolo che, il volgo lo intenda come passività o meglio, come esso
viene chiamato, “costrizione” (jabr) o predestinazione, attribuendo
quindi a questi due termini una connotazione negativa.
Nâbulusî, a tal proposito,
replicava anche ai teologi, che obbiettavano che sostenere l’“unicità
dell’esistenza” implicasse l’affermazione della pre-determinazione (e della
pre-destinazione), dicendo che anche i sostenitori della wahdat al-wujûd
affermano l’esistenza di un libero arbitrio nell’uomo, ma quest’ultimi lo
fanno in considerazione della stretta analogia esistente tra Creante e creato.
Ciò vuol dire che se il primo possiede evidentemente una libera scelta, un
riflesso di questa si troverà anche nel secondo; il tutto però secondo un
aspetto di trascendenza completa (‘alâ’t-tanzîh at-tâmm), ossia senza che
l’analogia tra Creante e creato implichi identità assoluta tra i due.[27]
L’uomo però che accetta in
maniera cosciente e mettendosi dalla parte di Dio, ciò in cui i profani vedono
solo la passiva accettazione[28]
della predestinazione,[29]
perché non sanno riconoscere l’agire arbitrario e artistico di Dio, è invero
l’uomo più libero che esista. Pensare che “egli sceglie”, si riferisca all’uomo
terreno in quanto soggetto “volente”, costituisce un buon viatico per perdersi
nella molteplicità del basso mondo.
Dio conosce prima del suo
compimento il peccato e lo permette non volendolo: è l’uomo che reca danno a se
stesso per mezzo di uno sbagliato uso del libero arbitrio, che gli è stato
accordato![30]
Allâh l’Altissimo ha detto: “… e se giunge loro un bene, dicono: “Viene da
Allâh”, e se giunge un male, dicono: “Viene da te” (o Muhammad). Dì: “Tutto
viene da Allâh”” in quanto atto (fi‘l). Egli ha quindi negato loro che il male
venisse dal Profeta, così come ha detto riguardo a Mosè: […] per questo Egli ha
aggiunto: “ … e ciò che ti capita di male viene da te stesso e non da Muhammad
[…] Egli ha quindi attribuito tutto ad Allâh e tutto è bene ed è nelle Sue mani,
mentre il male (in quanto male, non in quanto atto) non dipende da Lui.[31]
La bruttezza di un quadro,
infatti, non coincide con la bruttezza dell’artista che lo ha realizzato, anzi,
essa è l’abile riproduzione del brutto fatta da lui.[32]
Bisogna allora discernere,
nel caso dell’uomo, l’ordine dalla cosa oggetto dell’ordine:[33]
dice in tal senso Ibn‘Arabî che chi accetta l’atto del destinare non è
costretto per questo ad accettare la cosa destinata; l’atto del destinare è
ordine di Dio ed è Lui che ci ha comandato di accettarlo, mentre la cosa
destinata è ciò che è ordinato, e noi non siamo obbligati ad accettarla.[34]
Lo stesso autore afferma del pari che non esiste (lâ mawjûda) altro
che Allâh, ed Egli ha stabilito che la manifestazione (zhuhûr) delle cose
avvenisse in concomitanza delle “cause seconde” (asbâb), quindi
l’esistenza di Colui che causa (al-musabbib) non può avere luogo se non
per mezzo della causa (sabab): ogni cosa esistente per una causa seconda
ha dunque una faccia verso questa causa ed una faccia verso Allâh e costituisce
in questo modo un “barzakh” tra la causa ed Allâh,[35]
questo implica necessariamente che Allâh abbia fatto le cose del creato in
occasione delle cause e non grazie a quest’ultime.
Dio è l’Artista, per il
Quale il brutto e il male sono strumenti per costruzioni misteriose valide su
piani superiori, o futuri, dello spirito; ma ciò non implica passiva
accettazione di quanto ci debba accadere, perché è il libero arbitrio, datoci da
Dio, che ci viene in soccorso. Dice, infatti, Rûmî: accetti tu di portare il
Suo peso? Egli porterà te in alto. Accetti tu il Suo ordine? Egli accetterà te,
allora. Se tu accetti l’ordine Suo, Ne diverrai il portavoce, se cerchi l’unione
con Lui, a Lui giungerai. Libero arbitrio significa sforzo di ringraziare Dio
del Suo favore, il tuo predestinazionismo è la negazione di quelle grazie divine
[che noi abbiamo ricevuto, tra cui al-ikhtiyâr]! Ringraziare Dio
per il potere che ci ha dato di agire liberamente aumenta questo potere, il
fatalismo ti strappa il favore di Dio…[36]
All’uomo sono stati dati tutti i mezzi, per giungere alla soluzione di uno dei
suoi problemi centrali: scegliere il bene e rifuggire il male. A tal fine egli è
ben fornito per operare il giusto discernimento, è lui quindi che sbaglia se non
ne fa l’uso appropriato e non ha giocoforza alcuna attenuante. Diciamo ancora di
più: Allâh ha creato gli esseri umani privi sia di miscredenza (kufr)[37]
sia di fede (îmân), poi ha raccomandato loro e ha formulato per loro
degli ordini e dei decreti. Da ciò consegue che chi è miscredente lo è per
proprio atto (fi’l), per propria rinnegazione (inkâr), per propria
sconfessione (juhûd) della Verità, in virtù del fatto che Dio lo ha
abbandonato; mentre chi crede lo fa per proprio atto, per approvazione e per
proprio sincero assenso perché Dio gli ha fornito sostegno ed assistenza.
L’attivismo cui è chiamato
l’essere umano in genere e il fatâ in particolare, è ovviamente diretto
verso la ricerca della Verità, che passa attraverso il giusto impiego del libero
arbitrio, portando in definitiva al “raddrizzamento” della propria nafs
al-ammara bi-l-sû’ (“anima che istiga al male”, attaccata alle cose
temporali quindi e soprattutto ai beni materiali). Per certi versi, si può fare
riferimento a Junayd quando parla dell’“uomo intelligente” o meglio “saggio”.
Egli sostiene, infatti, che l’uomo dotato di ‘aql, qui inteso come
saggezza, è colui che dopo aver adempiuto perfettamente
l’oeuvre qui lui est
imposée, renonce à se préoccuper de ce qui ne dure pas et à agir pour ce qui est
éphémère et périssable.[38]
I Sûfî, detti anche
“figli dell’istante”, fanno del loro attivismo un punto centrale durante la loro
vita terrena. È ovvio che non bisogna farsi ingannare da questo loro “secondo
nome”, perché il loro “vivere alla giornata” non ha nulla a che spartire con
quel carpe diem tutto godereccio così comune oggigiorno: l’uomo deve
essere attivo nella ricerca della Verità ma giorno per giorno, poiché la
Sconfitta o il Successo provengono solo da Dio.
Di questo stesso avviso è
Rûmî, quando scrive: Noi siamo arpe e Tu ci tocchi col plettro, il dolce
lamento che proviene da noi, sei Tu che lo operi! Noi siamo il flauto, e il
suono che è in noi è da Te; siamo montagne impervie e l’eco è quello della Tua
voce. Noi siamo i pezzi degli scacchi, impegnati in vittoria o sconfitta, e
Sconfitta e Vittoria sono da te, o Perfetto! Noi siamo come leoni, ma leoni
dipinti su una bandiera: spinti dal vento si slanciano ad ogni istante. Visibili
i loro slanci, invisibile il vento…e se noi lanciamo una freccia, noi non siamo
che l’arco e Dio è l’arciere![39]
L’Evo Moderno ha poi
contribuito a ispessire ulteriormente il velo che sta sopra i nostri occhi,
poiché il est resté cher aux Occidentaux par une série de malentendus
provenant d’un abus individualiste de l’idée même de liberté:[40]
la cosiddetta Rinascienza ha voluto presentare l’uomo come un tutto sufficiente
a se stesso, capace di ordinare la sua esistenza in funzione dei suoi bisogni e
delle sue aspirazioni. È stata così dimenticata la dipendenza ontologica delle
creature, ossia la condizione di servitù, nei confronti del loro Creatore,[41]
la qual cosa è evidente nella stessa concezione della figura del fatâ,
che, per qualcheduno, non è un ‘abd bensì una sorta di semidio.
Nella sua relazione con
Dio, invece, l’uomo, ripetiamo, è fondamentalmente, ontologicamente povero, vale
a dire dipendente: O uomini, voi siete poveri di fronte a Dio (al-fuqarâ’
ilâ’Llâh) e Dio è il Ricco, il Lodato.[42]
È stato anche detto che Servitude is abandoning personal choice in the face
of divine fate.[43]
Non riempirmi di
confusione il Giorno in cui essi saranno risuscitati. Il Giorno in cui né beni
né figli saranno di alcuna utilità. Salvo colui che verrà a Dio con un cuore
intatto,[44]
è Abramo a pronunciare queste parole, lui che è la cifra della futuwwa,[45]
della generosità e dell’ospitalità, lui che non è sviato dall’abbondanza dei
beni. Il mondo è nella sua mano e non nel suo cuore, che è invece integro da
ogni attaccamento terreno. A queste condizioni, i beni indicano una elezione
spirituale e l’esercizio di una luogotenenza divina sulla terra,[46]
presupponendo al contempo il dominio dell’anima e delle ricchezze, sul modello
del Giuseppe del Corano quando chiede al Faraone, all’uscita della prigione:
Affidami i tesori della terra, io sono un guardiano sicuro e sapiente.[47]
Il Corano, che è Parola di Allâh, conferma: Così abbiamo stabilito fermamente
(makkannâ) Giuseppe sulla terra…, da qui viene la nozione di tamkîn,
che designa nel sufismo la perfetta maestria dello stato spirituale.
L’insistenza posta sulla
messa in guardia dall’attaccamento alla vita di questo mondo, prepara al
“combattimento sulla via di Dio” (al-qitâl fî sabîl Allâh).
Nel combattimento sulla
via di Dio i beni svolgono un ruolo preparatorio al sacrificio[48]
dell’“anima che istiga al male”. Tuttavia oltre questo sforzo su di sé (Atmâyajna),[49]
l’uomo deve proseguire il combattimento “in Dio”: Coloro che hanno combattuto
in Noi (jâhadû fî-nâ), li guideremo sulle Nostre vie.[50]
I beni al pari delle anime possono pertanto servire da supporto in tale
“sforzo”.[51]
Mentre il jihâd, quale l’aveva definito il Profeta, “per innalzare la
Parola di Dio”, non ha motivo di esistere che in certi momenti e in certi luoghi
nella storia dell’Islâm, il combattimento mediante i beni può essere condotto in
ogni circostanza, esteriore o interiore.[52]
Il libero arbitrio è,
quindi conferito da Dio ad ogni Suo servitore sul piano esteriore, di modo tale
che ognuno abbia l’illusione di poter scegliere, ma la Potenza manifesta e la
Saggezza ricopre. Non tutti, infatti, possono sopportare ugualmente quello che è
il peso della Verità,[53]
cioè che l’uomo in sé non è che un luogo e un mezzo nelle mani di Dio, e allora
la maggioranza parlerà di libero arbitrio e di predestinazione.
A ben guardare però, anche
l’utilizzare i due termini poco fa citati, da parte degli uomini, è un velo
posto da Dio, al pari del velo presente nel versetto coranico Non ho creato
jinn e uomini se non perché M’adorassero:[54]
solo chi è stato scelto da Dio in persona, potrà penetrare al di là di tali
veli, infatti, Dio apre il petto di coloro che vuole dirigere,[55]
perché il petto è il luogo della conoscenza e della comprensione dei misteri
nonché il luogo della chiarificazione e della luce della fede.[56]
Dice al-Ghazâlî: l’uomo
è dunque costretto, perché tutto ciò avviene in lui non per causa sua, ma
d’altri; ed è libero di scegliere perché sede d’una volontà che è costretta a
nascere in lui, dopo che la ragione abbia giudicato esser l’azione buona e
giusta. Ma anche il giudizio è costretto a formarsi, per cui l’uomo è costretto
nella stessa scelta. Il fuoco per esempio brucia per pura costrizione, mentre
gli atti di Dio sono pura scelta. L’uomo, invece, si trova in una posizione
intermedia: è costretto nella scelta. Per questa posizione, le genti della
Verità (ahl al-Haqq) hanno cercato un terzo nome: si sono rifatti al
Libro di Dio e lo hanno chiamato “acquisizione” (kasb), che secondo chi
la comprende, non s’oppone né alla costrizione (jabr), né al libero
arbitrio (ikhtiyâr), ma le concilia ambedue.[57]
Il corretto uso del libero
arbitrio permette al fatâ di raggiungere la stazione del tawakkul,
abbandono fiducioso in Dio, lasciando così che Egli operi attraverso di lui nel
mondo, in maniera “orizzontale”. La stazione è ogni attributo interiore che Dio
ci ha ordinato di acquisire, quali possono essere il pentimento (tawba),[58]
la pietà e il tawakkul. Ibn‘Arabî, a tal proposito, dice che ogni cosa
che ci è stato ordinato di fare, è una stazione che deve essere
acquisita, e per questa ragione che la Gente della Via ha detto che le stazioni
sono acquisite e gli stati ordinati.[59]
L’autentico fatâ
quindi, non si guadagna alcunché nel suo operare, bensì acquisisce dei meriti (kasb)
che gli vengono addebitati dal Legislatore stesso, tramite la shari‘â,
che gli ha ordinato di compiere tale o talaltro atto, specificatamente in
termini di qualifica, di durata, di completezza, di perfezione e di correttezza.
In realtà è invece Allâh che agisce sempre in prima persona,[60]
dal momento che il cavaliere, superata la propria nafs e raggiunto il
tawakkul, non esiste più in quanto personalità bensì come cosciente
strumentum
Dei. Tutte le azioni
degli uomini, siano esse in moto o in quiete, sono invero un’acquisizione umana
(kasb), mentre è Allâh il loro Creatore, quindi esse avvengono tutte per
Sua Volontà, Scienza e Decreto. In forza di quanto detto in apertura, per cui il
fatâ ri-propone in maniera “orizzontale” la Misericordia esistenziatrice
del Kun, si può dire tranquillamente che il cavaliere è un’epifania del
Locuteur
divin.
Più esattamente ancora, il fatâ è tale unicamente perché sia supporto di
manifestazione e non già perché egli debba ricevere l’attribuzione, per
l’appunto, di fatâ di modo tale che quest’ultima ne diventi l’essenza:
l’esistenza nel cavaliere (fatâ) non è quindi l’essenza di quello che
esiste, vale a dire l’essenza del fatâ, bensì è una condizione
transitoria del cavaliere; da ciò si evince come esso non sia che
metaforicamente esistente, realmente essendo che supporto di manifestazione
dell’esistenza del Vero.[61]
L’unica cosa che è
accordata a ciò che rimane di tale personalità, che è stata vinta e domata
attraverso una disciplina interiore (mujâhada), nonché l’unico mezzo del
fatâ per sapere se ha operato bene, è il merito (kasb),come già
detto, che viene conferito al fatâ per avere ben agito, ma che nella
realtà suprema, ossia spirituale, gli viene conferito per aver fatto agire
attraverso di lui, Egli.[62]
Utilizzare il velo del
al-ikhtiyâr per svelarsi, questo è il compito del cavaliere, che così
sforzandosi, giungerà all’abbandono fiducioso in Dio, realizzando il suo
swadharma, che è quello di essere il “ri-propositore” dell’Altruismo divino
sul piano orizzontale, e, al contempo, attestandoNe l’Unicità.
L’Unicità è una rivelazione dell’Essenza/Che appare come sintesi a cagione della
distinzione delle mie qualità./Tutto in Essa è unico e ad un pari
diversificato./Ammira dunque la molteplicità per essenza una!/In Essa, questo è
anche quello, e ciò che va è come ciò che viene./Essa è la Realtà divina (al-haqîqah)
della molteplicità/Contenuta nella Solitudine (al-wahdah) divina senza
dispersione./Per Essa tutto si rinviene nel principio d’ogni cosa./Ed in cotal
visuale la negazione (an-nafy) è identica all’affermazione (al-ithbât)./La
“Discriminazione” (al-furqân) essenziale è la Sua forma compiuta,/E la
molteplicità delle Qualità [comparenti in Essa] è simile alle verità dei
versetti [nel Libro sacro]./Recitalo quindi e leggi in te stesso il segreto del
Suo libro;/Dacché sei tu l’“evidente [Modello]” (al-imâm al-mubîn)
ed [in te s’occulta “[il Libro] occulto” (al-kitâb al-maknûn).[63]
Dice Ibn‘Arabî: ogni
caratteristica della “nafs” del servo ed in cui il Vero non sia
contemplato dalla “nafs” è difettosa (ma‘lûl), ed è per questa
ragione che al suo riguardo si dice che essa è “nafs”; in altre parole il
servo in ciò non vede che se stesso (nafsa-hu) e non vede che esso viene
dal Vero, come invece vedono alcuni per i quali il Vero è contemplato in ciò.[64]
Possiamo tranquillamente
immaginare la difficoltà che avvolge la ricerca della “serenità del cuore”
quando tutti intorno “fanno rumore”, ecco perché l’invocazione[65]
di uno dei nomi divini durante lo “sforzo” (jihâd) quale aiuto
“provvidenziale”, diventa per Ibn‘Arabî un’azione che segue il soggetto:[66]
essa sorge con lui, è glorificata con lui ed è superficiale quando lui è
superficiale.[67]
[1]
Lorsque le Connaissant exerce le gouvernement
ésotérique dans le monde au moyen de l’énergie spiritelle, il le fait en
vertu d’un Ordre divin contraignant, et non en vertu d’un libre-choix
(C.A. Gilis, Etudes
complementaires sur le Califat, Parigi, p. 87). Quanto citato indica già
la direzione, che seguirà il presente studio.
[2]
Attraverso la pronuncia di una parola in genere, discostandoci per un
momento dal Kun, la parola stessa ha un effetto su chi la sente.
Nella lingua araba “discorso” ( che è un insieme di parole) viene reso da
kalâm che è derivato dalla parole kalam, significante “ferita”.
Come la ferita ha un effetto sul corpo della persona che la subisce, così la
parola agisce su chi la ascolta. Il Fiat o Kun o Sia è la
prima parola che abbia “penetrato” l’udito degli esseri mortali, quindi
tutta la creazione non è che un aspetto esteriore della parola Sia!
[3]
Tutti i mondi, con la globalità dei loro generi (ajnâs), specie
(anwâ’) ed individui (ashâs), esistono a partire
dall’inesistenza (‘adam) per mezzo dell’Esistenza di Dio, e non per
se stessi; stando così le cose, l’esistenza per la quale essi esistono è in
ogni istante l’Esistenza di Dio e non un’altra esistenza diversa da quella
di Dio [così va capito il “rinnovamento della creazione ad ogni soffio”
(tajdîd al-khalq ma‘a al-anfâs) e anche il senso di “figli
dell’istante” attribuito ai Sûfî]. Tutti i mondi, dunque, di per sé sono
inesistenti, di una inesistenza assoluta; ma dal punto di vista della
Esistenza di Dio, essi esistono di un’esistenza unica, che non è altro,
appunto, che l’Esistenza divina, mentre in sé e per sé non hanno
assolutamente alcuna esistenza (A.
Ventura, Un trattato di ‘Abd al-Janî an-Nâbulusî sull’“Unicità
dell’esistenza”, Napoli, Supplemento n. 27 agli Annali, vol. 41 (1981),
fasc. 2, pp. 27-28).
[4]
D. Gril, Ibn‘Arabî: Ecrits sur la futuwwa, “La Règle d’Abraham”,
Reims, 1996, n. 2, p. 6.
[5]
Op. cit., p. 7. La Futuwwah è prendersi cura del deposito
affidatoci e dire la verità (Sulamî, Il libro della cavalleria,
Roma, 1990, p. 65).
[6]
Ibn al-‘Arîf, Mahâsin al-Majâlis, edito e tradotto da Asin Palacios,
1933, p. 33. È d’altronde la stessa attitudine che il discepolo deve avere
nei confronti del suo maestro.
[7]
Cfr. il nostro studio “L’altruismo divino che si cela dietro il cavaliere:
la futuwwa”.
[8]
Invece che attaccarsi ai beni materiali, perciò stesso perituri, il fatâ
e noi stessi dovremmo attaccarci all’“ornamento di Dio” , che non è
condizionato dalla vita di questo basso mondo. Cfr. Cor., VII, 32.
[9]
Al-Ghazâlî, L’Unicità divina e l’abbandono fiducioso, Rimini, 1995,
pp. 7-8.
[10]
Cor., XI, 56.
[11]
Traini, Vocabolario Arabo-Italiano, IPO, Roma, 1989, pp. 329-330.
Ringraziamo la dott.ssa Casseler per averci dato una piccola infarinatura di
grammatica araba, poiché non possiamo fingerci ciò che non siamo, vale a
dire degli arabisti.
[12]
Ogni dottrina autenticamente tradizionale, nelle sue diverse possibilità
d’espressione, tiene conto, proprio attraverso il suo linguaggio, delle
possibilità di con-prensione di ognuno e ad ognuno offre quanto questi è
capace di assimilare a misura della propria predisposizione essenziale.
[13]
Giudice nel senso di colui che prende una decisione, arbitro.
[14]
Al-Ghazâlî, L’Unicità divina e l’abbandono fiducioso, Rimini, 1995,
p. 11.
[15]
Cor., VII, 17.
[16]
Ahmad Ibn’Ajîba, Deux traités sur l’Unité de l’existence, E.T., n.
466, p. 94.
[17]
Vogliamo ricordare come, da più parti, l’aver messo in relazione la
futuwwa alla cavalleria occidentale, anche iniziaticamente, debba far
subito venire in mente quelli che sono i Piccoli Misteri.
[18]
Sulamî, Il libro della cavalleria, Roma, 1990, p. 65.
[19]
Ci riferiamo, non stancandoci mai di ribadirlo, a tutte quelle personalità
tipicamente “occidentali” che affermano esista una differenza tra
cavalieri indoeuropei e semitici, dove i primi sono esenti dal
rapporto di sudditanza tra creatura e Creatore (‘abd/Rabb) che è
presente nelle tradizioni semitiche. Ci sembra fin troppo palese l’assenza
in dette personalità dello spirito a tutto vantaggio dell’elemento
“psichico” nella sua parte deteriore, l’egoismo e quindi il libero arbitrio
mal usato. Curioso e bizzarro che, chi si professa in “viaggio” per
un Via iniziatica, sia ancora gravato dal peso della loro stessa
personalità, proprio la prima cosa di cui ci si dovrebbe sbarazzare.
[20]
Scrive Junayd: Sache que la preuve (de la spiritualité) est donne aux
créatures quand elles peuvent voir la loyauté (sidq) et les efferts
qui sont dépensés pour respecter les règles établies pour toutes les
situations. L’homme parcourt celles-ci, l’une menant à la suivante, jusqu’à
ce qu’il abortisse ainsi à la véritable servitude, dans ses manifestations
extérieures, par l’abbandon
du libre arbitre et l’agrément à l’action divine. C’est dans ces conditions
que les créatures acceptent les preuves données à son sujet par les critères
de la doctrine littéraliste et légaliste (‘ilm al-zâhir), et qui se trouvent rassemblées dans la nature de son
comportement (Junayd, Enseignement spirituel, Parigi, p. 45).
[21]
Al-Qâshânî, Traité sur la Prédestination et le libre arbitre, Parigi,
p. 19.
[22]
Rûmî, Poesie mistiche, Milano, 2000, p. 24.
[23]
Cor., VI, 149.
[24]
..Car c’est Toi qui es l’Auteur de toutes les oeuvres de la création, et
qui ne connais aucune chose qui ne soit pas de Toi [il principio delle
creature] vient de Toi, […] l’ordre (qu’elles ont reçu) est (de retourner)
à Toi, […] leurs manifestations extérieures et leurs pensées intimes sont
recensées dans Ta Volonté! C’est Toi en effet qui donnes et c’est Toi qui
retiens, et ce qui est nuisible et ce qui est utile sont l’effet de Ton
Decret (qadâ’)… (Junayd, Enseignement spirituel, Parigi, p. 180).
[25]
Cfr. Matgioi, La via metafisica, Roma, 1983.
[26]
Prima lettera di Pietro, II, 16.
[27]
A. Ventura, Un trattato di ‘Abd al-Janî an-Nâbulusî sull’“Unicità
dell’esistenza”, Napoli, Supplemento n. 27 agli Annali, vol. 41 (1981),
fasc. 2, p. 25.
[28]
Cfr. Junayd, Enseignement spirituel, Parigi, pp. 193-194.
[29]
L’on sait en effet que, dans le Christianisme, c’est ce terme de
“prédestination” qui fut le plus couramment employé à propos de la
prescience divine et de la prédétermination; toutefois, il n’englobe pas
tout à fait notre sujet et se réfère plus particulièrement à l’idée d’élection,
le consensus théologique n’ayant pu se resoudrè à reconnaître le “choix des
damnés”. Aussi la notion de prédestination doit-elle complétée par celle de
“réprobation” (al-Qâshânî, Traité sur la Prédestination et le libre
arbitre, Parigi, p. 6).
[30]
Dio conosce l’inesistente nella sua condizione di inesistente e sa quale
sia, quando Egli gli dà l’esistenza, conoscendo, quindi, l’esistente nella
sua condizione di esistente sapendo parimenti quale sia, allorché si
“estingue”.
[31]
Ibn‘Arabî, La conoscenza della “nafs” (cap. 267 delle Fut. Mak.),
“Rivista di Studi Tradizionali”, 1984, gennaio-giugno, n. 60, p. 15, nota
13.
[32]
Cfr. A.K. Coomaraswamy, La trasfigurazione della natura nell’arte,
Milano, 1990.
[33]
L’oggetto dell’azione è creato, mentre l’Atto di Dio è increato!
[34]
Rûmî, Poesie mistiche, Milano, 2000, p. 24.
[35]
Ibn‘Arabî, La conoscenza della “nafs” (cap. 267 delle Fut. Mak),
“Rivista di Studi Tradizionali, 1984, gennaio-giugno, n. 60, pp. 10-11.
[36]
Op. cit., p. 25.
[37]
Ciò è collegato direttamente al mithaq primordiale in forza del quale
Dio fece testimoniare la progenie di Adamo in ispirito: A-lastu
bi-Rabbikum? Ed essi risposero: balâ (Cor., VII, 172). Chi
è miscredente ha compiuto un alterazione di questa natura (fitra) o
patto primordiale, mentre chi crede ha perseverato in essa. Cfr. G. De Luca,
Non sono Io il vostro Signore?, “Quaderni di Avallon”, Rimini, 1993,
n. 31.
[38]
Junayd, Enseignement spirituel, Parigi, p. 59.
[39]
Rûmî, Poesie mistiche, Milano, 2000, p. 24.
[40]
Al-Qâshânî, Traité sur la Prédestination et le libre arbitre, Parigi,
p. 7. In merito alla libertà umana, così si esprime Matgioi: La libertà
umana esiste: ed esiste nelle condizioni che soddisfano la giustizia
soggettiva e impegnano a sufficienza, dal punto di vista della sensazione
che deve essere preveduta, le nostre responsabilità personali. Ma ciò
essendo affermato e dovendo essere sviluppato altrove, la libertà degli
esseri non esiste in quanto trattasi di particelle lanciate nella corrente
dalla Volontà del cielo e destinate a essere raccolte da questa stessa
volontà. Non dimentichiamo a qual mondo appartiene la serie di cui parliamo
e che è sul piano metafisico – vale a dire sul piano divino – che verte il
nostro ragionamento. Noi siamo qui di fronte alla Volontà Divina. Nessuna
volontà esiste se non emana da questa volontà; dunque nessuna volontà può
eguagliarla: perché, se una volontà eguagliasse quella divina, sarebbe esse
stessa divina, e non una sua emanazione. Ogni volontà che eguagli quella
divina è identica ad essa; dunque nessuna volontà può, su piede di parità
ergersi contro la volontà divina. Non vi è dunque volontà che trionfi di
quella divina; non c’è dunque libertà contro l’attività del cielo (Matgioi,
La via metafisica, Roma, 1983, p. 91).
[41]
Il senso secondo cui l’esistenza è ciò per cui ogni essere esiste,
nell’Eterno e nel creato, è quello più vicino alla realtà: ecco perché
l’essere contingente (mumkin), che è l’uomo o anche ‘abd, non
può assolutamente fare a meno dell’Essere Eterno (qadîm), poiché
l’esistenza di quello è l’Esistenza di questo.
[42]
Cor., XXXV, 15. Il segno della ricchezza in Allâh è l’indipendenza
dell’anima (‘izza an nafs) nei riguardi di ciò che possiedono gli
uomini, la ricchezza nelle cause seconde situantesi al lato opposto di
questa.
[43]
Al-Qushayri, Principles of Sufism, Berkeley, 1990, p. 170.
[44]
Cor., XXVI, 89.
[45]
En effet de tous les fils d’Adam, Seth hérita de la Voie intérieure, la
tarîqa, qu’Abraham adapta à ceux qui ne pouvaient en remplir toutes les
conditions et transmit à Ismaêl (D. Gril, Ibn‘Arabî,: Ecrits sur la
futuwwa, “La Règle d’Abraham”, Reims, 1996, n. 2, p. 4). A proposito
delle virtù del tasawwuf, Junayd collega Abramo alla generosità
d’animo (sakhâ’) mentre Ismaele all’accettazione del destino (ridâ’).
Cfr. Junayd, Enseignement spirituel, Parigi, pp. 188-189.
[46]
Sia ben chiaro che non intendiamo in nessun modo accostare il Califfato alla
futuwwa. Ci riferiamo piuttosto al passo coranico Ed elargite di
ciò di cui siete stabiliti vicari (Cor., LVII, 7): siamo tutti
luogotenenti della scienza e dei beni dei quali abbiamo disponibilità,
rimanendo comunque la loro proprietà nelle mani di Allâh, il Vero.
[47]
Cor., XII, 55.
[48]
Inteso come sacrum facere.
[49]
Vedere lo studio omonimo di A.K. Coomaraswamy contenuta nella Doctrine du
sacrifice, Parigi, VI edizione.
[50]
Cor., XXIX, 69.
[51]
Ricordiamo poi che il termine jihâd significa più sforzo che guerra!
Il Cielo tiene conto solamente degli sforzi che si fanno per conoscerlo,
e non del risultato di questi sforzi ( Matgioi, La via taoista,
Milano, 1997, p. 49).
[52]
Mawlânâ (Rûmî) disse: Qual è il nome di quel giovane? Gli fu risposto:
Saif ud-Dîn (“Spada della religione”). Il maestro disse: Quando la spada è
nel fodero, non la si può vedere. Il vero Saif ud-Dîn è colui che combatte
per la religione e i cui sforzi sono tutti orientati verso Dio; egli
distingue la rettitudine dal vizio e discerne la verità dall’errore.
Anzitutto combatte con se stesso e purifica il proprio carattere (Rûmî,
Il libro delle profondità interiori, Milano, 1996, 209).
[53]
Oltre che il peso della verità, bisogna anche ricordare che , Il évite de
rappeler a l’homme ce don gratuit car la futuwwa consiste à
manifester les bienfaits des autres et à cacher les siens (D. Gril,
Ibn‘Arabî: Ecrits sur la futuwwa, “La Règle d’Abraham”, Reims, 1996, n.
2, p. 7).
[54]
Cor., LI, 56.
[55]
Cor., VI, 125.
[56]
Cfr. Cor., XCIV, al-Inshirâh oppure al-Sharh.
[57]
Al-Ghazâlî, L’Unicità divina e l’abbandono fiducioso, Rimini, 1995,
p. 45.
[58]
Il pentimento comprende tre realtà spirituali che sono la contrizione, non
ricadere in ciò che Dio ha interdetto e adoperarsi a rimediare ai propri
torti. Cfr. Junayd, Enseignement spirituel, Parigi, p. 191.
[59]
Ibn‘Arabî, Fut. Makk., II, p. 157.
[60]
La verité qui est en lui le conduit ensuite à la contemplation (mushâda)
de l’Être divin, et à la saise de ce qu’Il lui montre dans les changements
qu’Il opère et qui sont dus au fait que ce qui est le mieux pour lui est ce
que Dieu choisit à sa place (Junayd, Enseignement spirituel,
Parigi, pp. 45-46).
[61]
Se quanto detto è presentemente utilizzato per il fatâ, ebbene il
tutto può senza alcun problema essere riportato anche al dhakir,
colui che pratica il dhikr.
[62]
Cfr. A. Ventura, Un trattato di ‘Abd al-Janî an-Nâbulusî sull’“Unicità
dell’esistenza”, Napoli, Supplemento n. 27 agli Annali, vol. 41 (1981),
fasc. 2, pp. 32-33.
[63]
Al-Jîlî, L’Uomo Universale, Roma, 1981, p. 61. Segnaliamo come gli
ultimi due righi si avvicinino molto al ambula ab intra ermetico,
simboleggiato dalla sigla VITRIOL. Cfr. A. Ventura, Lumière sur
les choses difficiles à percer, Milano, 1978.
[64]
Ibn‘Arabî, La conoscenza della “nafs” (cap. 267 delle Fut. Mak.),
“Rivista di Studi Tradizionali”, 1984, gennaio-giugno, n. 60, pp. 14-15.
[65]
Ibn‘Arabî differenzia la preghiera dall’invocazione, perché c’è differenza
tra chi chiede a Dio e chi domanda di Lui. La preghiera è una chiamata, il
che implica una certa distanza nonché separazione e ciò è “adorazione”.
L’invocazione invece è “dominio”, perché colui che invoca è assiso in
Presenza di Dio. C’è un’invocazione e una preghiera da parte di Dio ed
un’invocazione e una preghiera da parte della creatura. Se tu invochi Dio,
Egli ti invoca; e se tu dici a Lui: “Signore”, Egli dice a te: “servo”; e se
tu dici a Lui: “dammi”, Egli ti dice: “damMi”. Nel Corano Dio ti dice a
proposito dell’invocazione: “invocaMi ed Io ti invocherò”, ed a proposito
della preghiera Egli dice: “mantieni il tuo patto con Me. Ed Io manterrò il
Mio patto con te”. Cosa scegli a questo punto? Se tu Lo invochi, Egli ti
invoca, se tu Gli chiedi, Egli ti chiede! (Ibn‘Arabî, Kitâb
al-Tarâjim, p. 52).
[66]
L’uomo è un miscuglio di tutti gli elementi componenti il grande universo,
per cui si vengono a produrre dei fenomeni attrattivi o repulsivi tra ognuno
degli elementi componenti l’uomo e quelli dell’ambiente che lo circonda.
L’azione umana varia allora a seconda del cambiamento dello stato nel
soggetto: essa è il risultato di milioni di reazioni naturali e chimiche
prodottesi nel suo essere.
[67]
Segnaliamo all’attenzione di chi ci legge: A. Ventura, L’Islâm sunnita
nel periodo classico, in “ Storia delle religioni . Religioni dualiste:
Islâm”, Bari, pp, 223-224, 234.