René Guénon
Iniziazione e realizzazione spirituale
XXVI - Contro il «quietismo»
Quantunque abbiamo parlato sovente delle differenze profonde
tra il misticismo e tutto ciò che appartiene all’ordine esoterico ed
iniziatico, non crediamo inutile ritornare su di un punto particolare che si
riallaccia a tale questione, avendo avuto occasione di constatare a questo
proposito un errore assai diffuso: ci riferiamo alla qualifica di «quietismo»
applicata a talune dottrine orientali.
Che si tratti di un errore, risulta già dal fatto che queste dottrine non hanno niente di mistico, quando invece il termine «quietismo» è stato coniato appositamente per definire una forma di misticismo, di quelle d’altronde che si possono definire «aberranti», e la cui caratteristica principale consiste nello spingere all’estremo quella passività che, ad un grado o ad un altro, è inerente al misticismo come tale. Ora, da una parte non conviene estendere l’uso di termini del genere a cose che non hanno niente a che fare con il dominio mistico, perché allora tali termini diventano altrettanto impropri quanto le etichette filosofiche applicate al di fuori della filosofia; la passività d’altronde, anche entro i limiti in cui si può considerarla in certo qual modo come «normale» dal punto di vista mistico, e a maggior ragione nella sua esagerazione «quietista», è del tutto estranea alle dottrine in questione. Per la verità, sospettiamo che l’imputazione di «quietismo», così come quella di «panteismo», non sia spesso, per certa gente, se non un pretesto per metter da parte o disprezzare una dottrina senza darsi la pena di studiarla più a fondo, o di cercare di comprenderla veramente; lo stesso dicasi, in modo più generale, per tutti gli epiteti peggiorativi che vengono impiegati per diritto e per traverso al fine di qualificare dottrine molto diverse, rimproverando ad esse di «cadere» in questo o in quell’altro, espressione abituale in casi del genere e assai significativa a tale proposito; ma, come abbiamo fatto osservare in altre occasioni, ogni errore ha necessariamente qualche ragione per prodursi, di modo che è bene esaminare le cose un po’ più attentamente.
Che si tratti di un errore, risulta già dal fatto che queste dottrine non hanno niente di mistico, quando invece il termine «quietismo» è stato coniato appositamente per definire una forma di misticismo, di quelle d’altronde che si possono definire «aberranti», e la cui caratteristica principale consiste nello spingere all’estremo quella passività che, ad un grado o ad un altro, è inerente al misticismo come tale. Ora, da una parte non conviene estendere l’uso di termini del genere a cose che non hanno niente a che fare con il dominio mistico, perché allora tali termini diventano altrettanto impropri quanto le etichette filosofiche applicate al di fuori della filosofia; la passività d’altronde, anche entro i limiti in cui si può considerarla in certo qual modo come «normale» dal punto di vista mistico, e a maggior ragione nella sua esagerazione «quietista», è del tutto estranea alle dottrine in questione. Per la verità, sospettiamo che l’imputazione di «quietismo», così come quella di «panteismo», non sia spesso, per certa gente, se non un pretesto per metter da parte o disprezzare una dottrina senza darsi la pena di studiarla più a fondo, o di cercare di comprenderla veramente; lo stesso dicasi, in modo più generale, per tutti gli epiteti peggiorativi che vengono impiegati per diritto e per traverso al fine di qualificare dottrine molto diverse, rimproverando ad esse di «cadere» in questo o in quell’altro, espressione abituale in casi del genere e assai significativa a tale proposito; ma, come abbiamo fatto osservare in altre occasioni, ogni errore ha necessariamente qualche ragione per prodursi, di modo che è bene esaminare le cose un po’ più attentamente.
È fuor di dubbio che il quietismo, nel senso proprio della
parola, gode in Occidente di cattiva reputazione soprattutto negli ambienti
religiosi, il che in definitiva è naturale in quanto la varietà di misticismo
che si definisce così è stata espressamente dichiarata eterodossa, e a giusto
titolo, a causa dei numerosi e gravi pericoli che presenta sotto vari punti di
vista; tali pericoli, in fondo, sono quelli inerenti alla passività portata al
suo estremo e messa in pratica «integralmente», vogliamo dire senza che alcuna
attenuazione venga apportata alle conseguenze in essa implicite in tutti gli
ordini. Da questo lato non v’è dunque da stupirsi se coloro per cui le ingiurie
sostituiscono le argomentazioni, e che malauguratamente sono anche troppo
numerosi, si servono tanto del quietismo come del panteismo a guisa di
«spauracchio», se così ci si può esprimere, per sviare quelli che se ne
lasciano impressionare da tutto ciò di fronte a cui essi stessi provano
sgomento, sgomento che, di fatto, è unicamente dovuto alla loro incapacità di
comprensione. Ma v’è qualcosa di ancor più curioso, e cioè che la mentalità
«laica» dei moderni ritorce volentieri questa stessa accusa di quietismo
proprio sulla religione, estendendola indebitamente non soltanto a tutti i
mistici, ivi compresi i più ortodossi, ma anche ai religiosi appartenenti agli
ordini contemplativi, i quali d’altronde sono ai loro occhi tutti
indistintamente «mistici», anche se in realtà non è affatto detto che lo siano;
taluni poi spingono la confusione ancor più lontano, arrivando ad identificare
in modo puro e semplice misticismo e religione.
Ciò si spiega molto facilmente con i pregiudizi inerenti
alla mentalità occidentale moderna nel suo insieme; essa, rivolta
esclusivamente verso l’azione esteriore, è arrivata poco a poco non soltanto ad
ignorare per conto proprio tutto quanto riguarda la contemplazione, ma
addirittura a provare nei suoi confronti, ovunque la incontri, un vero e
proprio odio. Questi pregiudizi sono talmente diffusi, che molte persone
sedicenti religiose, ma non per questo meno influenzate da tale mentalità
antitradizionale, dichiarano volentieri di fare una gran differenza fra gli
ordini contemplativi e quelli che si occupano di attività sociali; naturalmente
non trovano che elogi per questi ultimi, ma, per contrapposto, sono subito
pronti ad accordarsi con i loro avversari per chiedere la soppressione dei
primi, con il pretesto ch’essi non sono più adatti ad un’epoca di «progresso»
come la nostra! Non è inutile notare di sfuggita che, anche attualmente, una
distinzione del genere sarebbe impossibile nelle chiese cristiane d’Oriente,
ove non è neanche concepibile che qualcuno possa farsi monaco per una ragione
diversa da quella di dedicarsi alla contemplazione, e ove la vita contemplativa
d’altronde, ben lungi dall’essere accusata stupidamente d’«inutilità» e di
«oziosità», è al contrario unanimemente considerata come quella superiore forma
di attività che in realtà è.
Si osservi, a questo proposito, che nelle lingue occidentali
si trova qualcosa di molto imbarazzante e tale da contribuire in parte ad
ingenerare confusioni: si tratta dell’impiego dei termini «azione» e
«attività», i quali evidentemente hanno un’origine comune, ma non lo stesso
senso né la stessa estensione. L’azione è sempre intesa come un’attività
d’ordine esteriore e di derivazione unicamente corporea, ed è proprio in ciò
che essa si distingue dalla contemplazione a cui in certo qual modo sembra
addirittura opporsi, benché qui, come ovunque, il punto di vista
dell’opposizione abbia necessariamente un carattere illusorio, come altrove
abbiamo spiegato, e che piuttosto si tratti di un complementarismo. Per contro,
l’attività ha un senso molto più generale, ugualmente applicabile a tutti i
domini e a tutti i livelli dell’esistenza: così, per fare l’esempio più
semplice, si parla appunto di attività mentale benché, pure nell’imprecisione
del linguaggio corrente, non si possa propriamente parlare di azione mentale;
in un ordine più elevato, si può parlare altrettanto bene di attività
spirituale, che tale in realtà è la contemplazione (distinta beninteso dalla
semplice meditazione la quale non è che un mezzo messo in opera per arrivarci e
che appartiene ancora al dominio della mentalità individuale). Vi è anche
qualcosa di più: se il complementarismo dell’«attivo» e del «passivo» si
considera in corrispondenza con l’«atto» e la «potenza» prese in senso
aristotelico, si vede senza difficoltà che il più attivo è anche, proprio per
questo, il più vicino all’ordine puramente spirituale, mentre l’ordine corporeo
è quello in cui predomina la passività; ne deriva la conseguenza, paradossale
solo apparentemente, che l’attività è tanto più grande e più reale quanto più
si esercita in un dominio lontano da quello dell’azione. Disgraziatamente, la
maggior parte dei moderni sembra non comprendere questo punto di vista, e ne
derivano i più singolari equivoci come quello di certi orientalisti che non
esitano a qualificare di «passivo» Purusha
se si tratta della tradizione indù, o Tien
se si tratta della tradizione estremo-orientale, cioè proprio quello che, al
contrario, è il principio attivo della manifestazione universale!
Queste poche considerazioni permettono di capire perché i
moderni siano tentati di vedere del «quietismo», o quel che credono poter
chiamare così, in qualsiasi dottrina che ponga la contemplazione al di sopra
dell’azione, cioè in qualsiasi dottrina tradizionale senza eccezione; essi
sembrano credere d’altronde, che ciò equivalga in qualche modo a disprezzare
l’azione, nonché a negarle qualsiasi valore, fosse pure nell’ordine contingente
che le è proprio, cosa del tutto falsa in quanto non si tratta se non di
mettere ogni cosa al posto che normalmente deve appartenerle: riconoscere che
una cosa occupa il più basso gradino in una gerarchia, non significa affatto
negare la legittimità della sua esistenza, in quanto essa è pur sempre un
elemento necessario, dell’insieme di cui fa parte. Non sappiamo bene perché,
sotto questo aspetto, si sia presa l’abitudine di prendersela specialmente con
la dottrina indù, la quale in ciò non differisce assolutamente per niente dalle
altre tradizioni sia orientali che occidentali; e del resto abbiamo dato
sufficienti spiegazioni in diverse occasioni sul modo in cui essa considera
l’azione perché sia necessario insistervi ancora qui. Faremo soltanto
osservare, quanto sia assurdo parlare di «quietismo» a proposito dello yoga, come fanno taluni, se si pensa
all’attività prodigiosa che occorre esplicare, e ciò in tutti i domini, per
giungere al fine dello yoga (cioè in
realtà allo yoga vero e proprio
inteso in senso stretto, i mezzi preparatori non essendo designati così che per
estensione); d’altronde si tratta nella fattispecie di metodi propriamente
iniziatici che, come tali, sono essenzialmente caratterizzati dall’attività.
Aggiungiamo, per prevenire possibili obbiezioni, che se le interpretazioni di
qualche indù contemporaneo paiono prestarsi all’imputazione di «quietismo», ciò
è dovuto al fatto che costoro non sono in alcun modo qualificati per parlare di
queste cose, e che essi, per l’educazione occidentale che hanno ricevuto, sono
quasi altrettanto ignoranti quanto gli Occidentali stessi nei confronti della
propria tradizione.
Ma se si è convenuto rimproverare alla dottrina indù il
disprezzo dell’azione, in generale è soprattutto a proposito del Taoismo che si
sente il bisogno di parlare ancor più espressamente di «quietismo», e questo
grazie alla funzione che vi svolge il «non-agire» (wou-wei), del quale gli orientalisti non capiscono assolutamente il
vero significato, e che taluni di essi fanno sinonimo d’«inattività», di
«passività», e anche di «inerzia» (è proprio perché il principio attivo della
manifestazione è «non-agente» che essi lo prendono per «passivo» come dicevamo
prima). E tuttavia alcuni di loro si sono resi conto che si tratta di un
errore; ma poiché in fondo non arrivano ad una maggior comprensione
dell’argomento e continuano a confondere azione ed attività, si rifiutano di
tradurre wou-wei con «non agire», e
sostituiscono questo termine con perifrasi più o meno vaghe ed insignificanti,
che sminuiscono la portata della dottrina e non lasciano scorgere più niente
del suo senso profondo e specificamente iniziatico. In realtà la traduzione
«non-agire» è la sola accettabile benché, data l’incomprensione ordinaria,
convenga spiegare come va intesa: non soltanto questo «non-agire» non è affatto
inattività, ma, secondo quanto abbiamo indicato in precedenza, è al contrario
la suprema attività: è infatti lontano al massimo dal dominio dell’azione
esteriore, e completamente affrancato da tutte le limitazioni imposte a questa
dalla sua natura propria; se il «non-agire» non fosse per definizione stessa al
di là di tutte le opposizioni, si potrebbe dunque dire che esso, in qualche
modo, è l’estremo opposto dello scopo che il quietismo assegna allo sviluppo
della spiritualità.
Va da sé che il «non-agire», o ciò che gli equivale nella
componente iniziatica delle altre tradizioni, implica, per chi vi è pervenuto,
un perfetto distacco dall’azione esteriore, come d’altronde da tutte le altre
cose contingenti, e ciò perché un essere del genere si pone al centro stesso
della «ruota cosmica», mentre le suddette cose non appartengono che alla
circonferenza di essa; se il quietismo, da parte sua, professa un’indifferenza
che pare rassomigli sotto un certo riguardo a questo distacco, è certamente per
tutt’altre ragioni. Allo stesso modo che fenomeni simili possono esser dovuti a
cause molto diverse, modi d’agire (o, in certi casi, di astenersi dall’agire)
che esteriormente sono gli stessi possono procedere dalle più diverse
intenzioni; ma naturalmente, per coloro che si limitano alle apparenze, da ciò
possono risultare molte false assimilazioni. Sotto questo rapporto ci sono
effettivamente certi fatti, strani agli occhi dei profani, i quali potrebbero
essere da loro invocati a sostegno dell’erroneo accostamento ch’essi vogliono
stabilire fra il quietismo e certe tradizioni d’ordine iniziatico; ma ciò
solleva talune questioni abbastanza interessanti in se stesse, da meritare che
ad esse consacriamo in special modo un prossimo capitolo.
Poiché il dominio spirituale è l'unico in cui risieda la vera e piena attività, un'azione sempre più esteriore, totalmente sottratta a qualsiasi reale consapevolezza, finisce paradossalmente per essere sospinta nel dominio della passività In realtà, l'azione sempre più frenetica e soggetta ad una quantità mostruosa di regole e sottosistemi, che vediamo svilupparsi ai nostri giorni, costituisce sempre più un'azione agita da altri o, piuttosto, da altro che l'apparente soggetto esteriore che ne è coinvolto. Gli esseri umani sono perciò sempre più "agiti" e tanto meno agenti, proprio e tanto più nella misura in cui agiscono esteriormente, alieni da qualsiasi capacità di comprensione spirituale e possibile facoltà contemplativa e proprio nella misura in cui agiscono nel più cieco attaccamento a fini particolari che gli vengono imposti dagli strumenti di suggestione del sistema. L'akama karma, l'azione priva di attaccamento, al contrario, può sembrare un'azione priva di fine, ma è invece, l'unica ad indirizzarsi al Fine supremo che non può avere determinazione ed è inesprimibile. Per quuesto, anche secondo Aristotele, la causa più importante era quella finale, l'unica a porsi, rispetto alle condizioni di esistenza di un agente umano individuale, nel futuro, anziché nel passato, libera in realtà da qualsiasi predeterminazione. In luogo del fine e della causa finale, la moderna civiltà delle macchine ha sostituito il "progetto". Nonostante le apparenze, il progetto è la più totale negazione della finalità, perché sostituisce alla causa finale posta nel futuro, una "proiezione" di una visione limitata e sistematica del Mondo che pretenderebbe di colonizzare il futuro in nome delle limitazioni già imposte nel passato. Gli architetti del passato non costruivano in base a progetti in senso moderno (in Occidente non ce ne sono pressoché pervenuti fino a tutto il XIII secolo), ma in base allo sviluppo di un disegno che era in realtà al di là del tempo, che doveva essere dunque "contemplato". L'intero apparato della multiforme e caotica azione dei sistemi moderni, si muove in base ad un mostruoso progetto che è l'impotente brama di divorare l'intero universo nelle limitazioni di una visione che è antiumana, perché, prima ancora, contraria alla natura profonda delle cose.
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