René Guénon
Iniziazione e realizzazione spirituale
XXVIII - Il travestimento «popolare»
Facevamo osservare testé che gli «Immortali» del Taoismo,
nel modo in cui vengono ritratti, presentano le sembianze della stravaganza e
della volgarità combinate insieme; questi due aspetti riuniti possono anche
ritrovarsi altrove, e difatti il majdhûb,
il «giocoliere», nonché coloro che, come abbiamo spiegato, ne prendono a
prestito l’aspetto esteriore, presentano evidentemente, insieme ad una
apparenza di «follia», anche un certo carattere «popolare».
Questi due aspetti tuttavia, non sono necessariamente solidali in tutti i casi, per cui può succedere che quello che indifferentemente possiamo chiamare «volgare» o «popolare» (in quanto questi due termini sono in fondo pressoché sinonimi) serva soltanto da «travestimento» iniziale; vogliamo dire con ciò che gli iniziati, e specie quelli degli ordini più elevati, si dissimulano volentieri in mezzo al popolo, facendo in modo, esteriormente, di non distinguersene per niente. Si può osservare che questa, in definitiva, è l’applicazione più stretta e più completa del precetto rosacrociano che impone di adottare sempre il linguaggio e i costumi delle genti fra cui si vive, nonché di conformarsi a tutti i loro modi di fare; certamente può trattarsi in primo luogo di un mezzo per passare inosservati tra i profani, cosa non senza importanza sotto diversi aspetti, ma che non impedisce l’esistenza di altre ragioni più profonde.
Questi due aspetti tuttavia, non sono necessariamente solidali in tutti i casi, per cui può succedere che quello che indifferentemente possiamo chiamare «volgare» o «popolare» (in quanto questi due termini sono in fondo pressoché sinonimi) serva soltanto da «travestimento» iniziale; vogliamo dire con ciò che gli iniziati, e specie quelli degli ordini più elevati, si dissimulano volentieri in mezzo al popolo, facendo in modo, esteriormente, di non distinguersene per niente. Si può osservare che questa, in definitiva, è l’applicazione più stretta e più completa del precetto rosacrociano che impone di adottare sempre il linguaggio e i costumi delle genti fra cui si vive, nonché di conformarsi a tutti i loro modi di fare; certamente può trattarsi in primo luogo di un mezzo per passare inosservati tra i profani, cosa non senza importanza sotto diversi aspetti, ma che non impedisce l’esistenza di altre ragioni più profonde.
Bisogna in effetti sottolineare che, in casi del genere, è
sempre del popolo che si parla, e non della cosiddetta «classe media» come
convenzionalmente viene chiamata in Occidente, o di ciò che ad essa più o meno
esattamente corrisponde altrove; e la cosa è vera a tal punto che, nei paesi di
tradizione islamica, si dice che quando un Qutb
deve manifestarsi fra gli uomini comuni, egli riveste spesso l’apparenza di un
mendicante o di un venditore ambulante. D’altronde, sempre a questo stesso
popolo (e l’accostamento non è certo fortuito) viene affidata la conservazione
delle verità d’ordine esoterico che diversamente rischierebbero di perdersi,
verità che certamente esso è incapace di comprendere, ma che tuttavia trasmette
non meno fedelmente, sia pure rivestite, a tal fine, da un travestimento più o
meno grossolano; ed è questa in definitiva l’origine reale e la vera ragione
d’essere d’ogni «Folklore», e così pure dei cosiddetti «racconti popolari». Ma
come accade, ci si potrebbe chiedere, che l’élite,
e per di più la parte più elevata di essa, possa trovare il suo miglior
rifugio, sia per se stessa che per la verità che detiene, proprio in questo
ambiente da taluni in senso peggiorativo definito come quello del «popolino», e
di cui in certo qual modo essa è l’opposto? Parrebbe qualcosa di paradossale,
se non addirittura di contraddittorio; in realtà, come vedremo, non è affatto
così.
Il popolo, almeno finché non ha subito una deviazione di cui
non è minimamente responsabile, in quanto di per se stesso non è se non una
massa eminentemente «plastica» corrispondente al lato propriamente
«sostanziale» di quella che si può chiamare l’entità sociale, il popolo dicevamo,
porta in sé, per via di questa «plasticità», anche delle possibilità che la
«classe media» non ha affatto; certamente si tratta di possibilità indistinte e
latenti, delle virtualità se si vuole, ma che tuttavia esistono e sono sempre
suscettibili di svilupparsi incontrando condizioni favorevoli. Contrariamente a
quel che ci si compiace di affermare ai giorni nostri, il popolo non agisce
spontaneamente e non produce nulla per conto suo; ma è come una «riserva» da
cui si può ricavare tutto, il meglio come il peggio, a seconda delle influenze
che su di lui si esercitano. Quanto alla «classe media», è facilissimo rendersi
conto di cosa da essa ci si può attendere, se si pensa alla sua caratteristica
essenziale, quel sedicente «buon senso» strettamente limitato, che trova la sua
più compiuta espressione nella concezione della «vita ordinaria», e ai prodotti
più tipici della sua caratteristica mentalità, cioè il razionalismo ed il
materialismo dell’epoca moderna; è questo che dà la misura più esatta delle sue
possibilità, in quanto è ciò che se ne ottiene quando le si permette di
svilupparsi liberamente. Con ciò non vogliamo affatto dire che a questo
proposito essa non abbia subito delle suggestioni, dato che in fondo anch’essa
è «passiva», sia pure relativamente; ma non è men vero che è in seno ad essa
che le concezioni in questione hanno preso forma, per cui è implicito che
queste suggestioni abbiano incontrato un terreno appropriato e cioè, per forza
di cose, che esse in qualche modo corrispondessero alle sue tendenze
particolari; e in fondo, se è giusto qualificarla come «media», non è
soprattutto a condizione di dare a questa parola un senso di «mediocrità»?
D’altronde esistono altri elementi per completare il quadro
che abbiamo dipinto e per dargli tutto il suo significato: gli è che l’élite, per il fatto stesso di essere
all’estremo opposto del popolo, trova in questo il suo riflesso più diretto,
allo stesso modo che in tutte le cose il punto più alto si riflette
direttamente nel punto più basso e non in uno qualunque dei punti intermedi. È
vero che si tratta di un riflesso oscuro ed invertito, come lo è il corpo in
rapporto allo spirito, ma nondimeno esso offre la possibilità d’un
«raddrizzamento» paragonabile a quello che si produce alla fine di un ciclo; è
soltanto quando il movimento discendente ha raggiunto il termine, cioè il punto
più basso, che tutte le cose possono essere immediatamente ricondotte al punto
più alto per iniziare un nuovo ciclo; per questo è esatto dire che «gli estremi
si toccano» o meglio si congiungono. La similitudine tra il popolo e il corpo,
cui testé abbiamo fatto allusione, si giustifica d’altronde anche per il
carattere di elemento «sostanziale» che entrambi ugualmente presentano,
rispettivamente nell’ordine sociale ed in quello individuale, mentre il
«mentale», soprattutto se considerato sotto l’aspetto della «razionalità»,
corrisponde piuttosto alla «classe media». Ne risulta che l’élite, discendendo in certo qual modo
fino al popolo, vi trova tutti i vantaggi dell’«incorporazione», in quanto
questa è necessaria per la costituzione d’un essere realmente completo nel
nostro stato di esistenza; ed il popolo è per essa un «supporto» e una «base»,
allo stesso titolo che il corpo lo è per lo spirito manifestato
nell’individualità umana[1].
L’apparente identificazione dell’élite con il popolo corrisponde propriamente, nell’esoterismo
islamico, al principio dei Malâmatiyah,
i quali si impongono la regola di assumere un aspetto esteriore tanto più
ordinario e comune, anzi addirittura grossolano, quanto più perfetto e di
spiritualità più elevata è il loro stato interiore, e di mai lasciar apparire
niente di questa spiritualità nelle loro relazioni con gli altri uomini[2].
Si potrebbe dire che mediante questa estrema differenza fra interno ed esterno,
essi pongono il massimo di «intervallo», se ci è lecito esprimerci così, fra
questi due lati del loro essere, il che permette loro di comprendere in sé
stessi la maggior somma di possibilità d’ogni ordine, la quale, al termine
della loro realizzazione, deve logicamente culminare nella vera
«totalizzazione» dell’essere[3].
È sottinteso del resto, che questa differenza si riferisce in definitiva
soltanto al mondo delle apparenze, e che, nella realtà assoluta, cioè al
termine di quella realizzazione di cui abbiamo parlato, non c’è più né
interiore né esteriore perché, ancora una volta, è là che gli estremi sono
finalmente ricongiunti nel Principio.
D’altronde, è particolarmente importante osservare che
l’apparenza «popolare» rivestita dagli iniziati costituisce, a tutti i livelli,
come un’immagine della «realizzazione discendente»[4];
è per questo che lo stato di Malâmatiyah
è detto «rassomigliare allo stato del Profeta, il quale fu elevato ai più alti
gradi della Prossimità divina» ma, «quando tornò verso le creature, non parlò
con esse se non delle cose esteriori», di modo che, «del suo incontro intimo
con Dio, nulla apparve sulla sua persona». Se inoltre è detto che «questo stato
è superiore a quello di Mosè, la cui figura non poté esser guardata da nessuno
dopo che ebbe parlato con Dio», ciò è ancora riferibile all’idea della
totalità, proprio in virtù delle nostre spiegazioni di poc’anzi; in fondo si
tratta di un’applicazione dell’assioma secondo il quale «il tutto è superiore
alla parte»[5],
qualsiasi parte d’altronde, fosse pure la più eminente di tutte[6].
Nel caso rappresentato qui dallo stato di Mosè, in effetti, si potrebbe dire
che la «ridiscesa» non si è completamente effettuata, e non ingloba
integralmente tutti i livelli inferiori fino a quello che, simboleggiando
l’apparenza esteriore degli uomini volgari, li fa partecipare alla verità
trascendente nella misura delle loro rispettive possibilità; in certo qual
modo, quest’ultimo aspetto è l’inverso di quello da noi considerato in
precedenza quando parlavamo del popolo come «supporto» dell’élite, e naturalmente ne è anche
l’aspetto complementare, in quanto questa stessa funzione di «supporto», per
essere efficace, richiede necessariamente una certa partecipazione, talché i
due punti di vista si implicano reciprocamente[7].
Va da sé che il precetto di non distinguersi per niente dal
volgo quanto alle apparenze, allorché in realtà vi è la più profonda
differenza, si ritrova anche espressamente nel Taoismo, e lo stesso Lao Tsé lo
formulò a più riprese[8];
qui d’altronde, tale precetto è legato strettamente ad un certo aspetto del
simbolismo dell’acqua, la quale va sempre nel luogo più basso[9],
e, pur essendo quanto vi è di più debole, viene tuttavia a capo delle cose più
forti e più potenti[10].
L’acqua, in quanto immagine del principio «sostanziale» delle cose, può anche
esser vista, nell’ordine sociale, come un simbolo del popolo, il che
corrisponde giustamente alla sua posizione inferiore; e il saggio, imitando la
natura e il modo di essere dell’acqua, si confonde apparentemente con il
popolo; ma ciò gli permette, meglio di qualsiasi altra situazione, non solo di
influenzare tutto quanto il popolo mediante la sua «azione di presenza», ma
anche di conservare intatto, al riparo da ogni attacco, ciò per cui egli è superiore
agli altri uomini e che, d’altronde, costituisce la sola vera superiorità.
Dopo aver necessariamente soltanto accennato ai principali
aspetti di questa questione così complessa, termineremo con un’ultima
osservazione, che si riferisce più specialmente alle tradizioni esoteriche
occidentali: si dice che i Templari sfuggiti alla distruzione del loro Ordine,
si dissimularono tra gli operai costruttori; anche se per certuni questa è
soltanto una «leggenda», la cosa non è tuttavia meno significativa quanto al
suo simbolismo; ed è però incontestabile che diversi ermetisti lo fecero, in
particolare fra quelli che si riallacciavano alla corrente rosacrociana[11].
A questo proposito ricorderemo ancora che, fra le organizzazioni iniziatiche
basate sull’esercizio di un mestiere, quelle che rimasero sempre prettamente
«artigianali» subirono una degenerazione minore di quelle che furono
influenzate dall’intrusione di elementi prevalentemente appartenenti alla
«borghesia»: non si può forse vedere anche qui, a parte altre ragioni già da
noi spiegate, un esempio di quella facoltà di conservazione «popolare»
dell’esoterismo di cui il «folklore» è ugualmente una manifestazione?
[1]
Quanto sopra, come raffigurazione di una «discesa dello spirito», può essere
accostato alle considerazioni che esporremo più avanti alla fine del capitolo
XXXI: Le due notti.
[2]
Vedere Abdul-Hâdi, El-Malâmatiyah,
nel n. d’ottobre 1933 del Voile d’Isis
ed appendici del presente volume.
[3]
Con ciò non vogliamo dire che la totalità possa esser raggiunta unicamente in
questo modo, ma soltanto che un modo per farlo effettivamente può essere quello
proprio alla via dei Malâmatiyah.
[4]
Vedere l’ultimo capitolo di quest’opera: Realizzazione
ascendente e discendente.
[5]
Non diciamo «più grande» come si fa abitualmente restringendo la portata
dell’assioma alla sola applicazione matematica; qui evidentemente si deve
considerarlo al di là del dominio quantitativo.
[6]
Analogamente, così dev’essere intesa la superiorità di natura dell’uomo in
rapporto agli angeli, come la si considera nella tradizione islamica.
[7]
La partecipazione in questione d’altronde, non è sempre esclusivamente limitata
all’exoterismo tradizionale; si può rendersene conto con un esempio come quello
della maggior parte delle turûq
islamiche, che nella loro parte più esteriore, ma tuttavia per definizione
stessa ancora esoterica, si associano elementi prettamente «popolari», i quali
non sono evidentemente suscettibili altro che di un’iniziazione semplicemente
virtuale; e sembra che qualcosa di simile avvenisse nella «thyasi»
dell’antichità greca.
[8]
Tao-te-king, in particolare cap. XX,
XLI, LXVII.
[9]
Ibidem, cap. VII; cfr. cap. LXI e
LXVI.
[10]
Ibidem, cap. XLIII e LXXVIII.
[11]
È fuori causa che qui non facciamo affatto allusione alle pretese origini della
trasformazione «speculativa» della massoneria, trasformazione che in realtà fu
soltanto una degenerazione come abbiamo sufficientemente spiegato in altre
occasioni, e che quanto abbiamo in vista risale ad epoche ben anteriori
all’inizio del XVIII secolo.
L'essenza del popolo è simile all'acqua. L'esteriorità del popolo è simile alla terra. La terra sembra fermare l'acqua, ma in realtà l'assorbe, perché nascano futuri germogli. La quarta casta è per l'appunto quella degli shudras che sono legati alla terra. Il colore della terra è il nero, il suo pianeta è saturno, l'umore ad essa legato è la bile nera. Il suo stato dell'animo è la melancholia. Essa corrisponde alla fine del processo manifestativo e dunque alla chiusura di un ciclo, che prelude ad un ciclo nuovo. Sotto un altro aspetto, complementare al primo, corrisponde all'esaurirsi di determinate possibilità di manifestazione,.che prelude all'aprirsi di nuove.. Per questo, è ad un tempo desolazione e speranza. Nella Qabbalah, il fondo non è Malkuth, che corrisponde al numero 10, ma Yesod, il fondamento, che corrisponde al numero nove: è la tet, il vaso. Per questo è detto (Sepher ha Temunah I.9.) che essa vale 9, oppure è al posto dello jod (che vale 10). Per questa ragione nel popolo si nascondono i Santi e i Profeti.
RispondiElimina"Il firmamento è simile a una cisterna e sopra la cisterna sta una volta, ed a causa della cisterna la volta trasuda goccioloni e quelli scendono in mezzo alle acque salate e non vi si mescolano" (Bereshit Rabba, IV.5.)