"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

giovedì 23 ottobre 2014

René Guénon, Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi - 3. Misura e manifestazione

René Guénon 
Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi  

3. Misura e manifestazione 

Se riteniamo preferibile evitare l’uso della parola «materia» finché non dobbiamo esaminare in modo specifico concezioni moderne, la ragione sta, per intenderci, nelle confusioni che essa inevitabilmente genera; è impossibile in effetti che tale parola (anche in coloro che conoscono il diverso significato che aveva per gli Scolastici) non evochi immediatamente l’idea che se ne fanno i fisici moderni, dato che la recente accezione è la sola rimastale nel linguaggio corrente.
Orbene, quest’idea, come già abbiamo detto, non è reperibile in alcuna dottrina tradizionale, sia orientale sia occidentale; ciò se non altro dimostra che, anche nella misura in cui sarebbe legittimamente possibile accettarla sfrondandola di certi elementi eterocliti o persino nettamente contraddittori, un’idea del genere non ha nulla di veramente essenziale, ed in realtà non si riferisce che ad un modo del tutto particolare di vedere le cose. Inoltre, essendo del tutto recente, è fuor di dubbio che quest’idea non è implicita nel termine stesso, ad essa molto anteriore, e che il significato originale deve per conseguenza esserne completamente indipendente. Bisogna peraltro riconoscere che questo termine è uno di quelli la cui vera derivazione etimologica è molto difficile da stabilire con esattezza, quasi che un’oscurità più o meno impenetrabile avvolga decisamente tutto quanto si riferisce alla «materia», per cui, a questo proposito, è pressoché impossibile far di più che discernere talune idee associate alla sua radice, cosa del resto tutt’altro che priva di interesse, anche se, tra queste idee, resta imprecisabile quella che più si avvicina al significato primitivo.
L’associazione più sovente segnalata è quella che ricollega materia a mater, e ciò in effetti è ben appropriato alla sostanza in quanto principio passivo, o simbolicamente «femminile»: si può dire che Prakriti svolge una funzione «materna» in rapporto alla manifestazione, così come Purusha svolge una funzione «paterna»; e ciò si verifica ugualmente a tutti i livelli in cui si può esaminare analogicamente una correlazione tra essenza e sostanza.[1] D’altra parte è anche possibile ricollegare lo stesso termine materia al verbo latino metiri, «misurare» (e vedremo che in sanscrito esiste una forma che ad esso è ancora più vicina); ma dire «misura» equivale a introdurre una determinazione, e ciò non è più applicabile all’assoluta indeterminazione della sostanza universale o della materia prima, ma deve piuttosto riferirsi a qualche altro significato più ristretto; questo è precisamente il punto che ora ci proponiamo di esaminare più particolareggiatamente.
«Per tutto ciò che può essere concepito o percepito (nel mondo manifestato)» come dice a questo proposito Ananda K. Coomaraswamy «il sanscrito ha soltanto l’espressione nâma-rûpa, i cui due termini corrispondono all’“intelligibile” e al “sensibile” (considerati come due aspetti complementari rispettivamente riferentisi all’essenza e alla sostanza delle cose).[2] È vero che il termine mâtrâ, letteralmente “misura”, è l’equivalente etimologico di materia; ma quanto è “misurato” a questo modo non è la “materia” dei fisici, bensì le possibilità di manifestazione inerenti allo spirito (Âtmâ)».[3] Tale idea di «misura», posta così in rapporto diretto con la stessa manifestazione, è molto importante, e ben lungi dall’appartenere esclusivamente alla sola tradizione indù che Coomaraswamy ha qui particolarmente in vista; si può dire, in effetti, che essa, in una forma o in un’altra, è ritrovabile in tutte le dottrine tradizionali, per cui, anche se non possiamo pretendere di porne in rilievo tutte le concordanze rilevabili a questo proposito, cercheremo tuttavia di dirne abbastanza da giustificare questa asserzione, cercando nel contempo di chiarire, per quanto possibile, il simbolismo della «misura» che appunto occupa un gran posto in talune forme iniziatiche.
Intesa alla lettera, la misura si riferisce principalmente all’ambito della quantità continua, cioè, nel modo più diretto, alle cose che hanno carattere spaziale (dal momento che il tempo stesso, benché ugualmente continuo, è misurabile solo indirettamente, riferendolo in qualche modo allo spazio tramite il movimento che stabilisce una relazione tra l’uno e l’altro); ciò equivale a dire che la misura si riferisce, in definitiva, sia alla stessa estensione, sia a quel che si è convenuto chiamare «materia corporea» in ragione del carattere estensivo da questa necessariamente posseduto, il che d’altronde non vuole affatto dire che la sua natura, come pretende Cartesio, si riduca puramente e semplicemente all’estensione. Nel primo caso la misura è più propriamente «geometrica»; nel secondo la si potrebbe piuttosto definire «fisica», nel senso ordinario del termine; ma in realtà questo secondo caso è riconducibile al primo, poiché è in quanto si situano nell’estensione e ne occupano una certa porzione definita che i corpi sono immediatamente misurabili, mentre le altre loro proprietà non sono suscettibili di misura se non quando si possa riferirle in qualche modo all’estensione. Qui, come avevamo previsto, siamo ben lontani dalla materia prima, poiché questa, nella sua assoluta «indistinzione», non può minimamente essere misurata né servire a misurare alcunché; ma è doveroso chiedersi se tale nozione di misura non sia più o meno strettamente legata a ciò che costituisce la materia secunda del nostro mondo, ed in effetti questo legame esiste proprio per il fatto che essa è signata quantitate. Infatti, se la misura riguarda direttamente l’estensione e quanto in essa contenuto, ciò è reso possibile dall’aspetto quantitativo di questa estensione; ma la quantità continua, come abbiamo spiegato, è in se stessa solo un modo derivato dalla quantità, cioè non è propriamente quantità se non per partecipazione alla quantità pura, la quale ultima, dal canto suo, è inerente alla materia secunda del mondo corporeo; e aggiungiamo ancora che, siccome il continuo non è la quantità pura, la misura presenta sempre delle imperfezioni nella sua espressione numerica, poiché la discontinuità del numero ne rende impossibile una adeguata applicazione alla determinazione delle grandezze continue. È ben vero che il numero è la base di ogni misura, ma, finché si considera il numero soltanto, non si può parlare di misura, essendo questa l’applicazione del numero a qualcos’altro; applicazione che è sempre possibile entro certi limiti, quelli cioè della «inadeguatezza» che abbiamo segnalato per tutta quanto soggiace alla condizione quantitativa, o, in altri termini, per tutto quanto appartiene all’ambito della manifestazione corporea. Soltanto, e ritorniamo così all’idea espressa da A.K. Coomaraswamy, bisogna sottolineare come, in realtà e malgrado certi abusi del linguaggio ordinario, la quantità non sia ciò che è misurato, bensì, al contrario, ciò per cui le cose sono misurate; e si può dire inoltre che la misura è, in rapporto al numero, in senso inversamente analogico, ciò che la manifestazione è in rapporto al suo principio essenziale.
Orbene, è chiaro che per estendere l’idea di misura al di là del mondo corporeo bisogna farne una trasposizione analogica: essendo lo spazio il luogo di manifestazione delle possibilità d’ordine corporeo, ci si potrà servire di esso per rappresentare tutto l’ambito della manifestazione universale, il quale diversamente non sarebbe «rappresentabile»; e l’idea di misura, applicata a quest’ultimo, viene così ad appartenere essenzialmente a quel simbolismo spaziale di cui tanto spesso abbiamo dato degli esempi. In fondo, la misura è allora un’«assegnazione» od una «determinazione», necessariamente inerente ad ogni manifestazione in qualsiasi ordine o modo; tale determinazione è naturalmente conforme alle condizioni di ogni stato di esistenza, e si identifica persino, in un certo senso, a queste stesse condizioni; essa è veramente quantitativa solo nel nostro mondo, poiché la quantità, come d’altronde lo spazio e il tempo, non è in definitiva se non una delle condizioni speciali dell’esistenza corporea. Ma vi è, in tutti i mondi, una determinazione che può essere simboleggiata, a nostro uso, da quella determinazione quantitativa che è la misura, in quanto questa corrisponde ad essa, tenendo conto della differenza delle condizioni; e si può dire che è proprio mediante tale determinazione che questi mondi, con tutto il loro contenuto, sono realizzati o «attualizzati» come tali, poiché essa è una cosa sola con il processo stesso della manifestazione. Coomaraswamy osserva che «il concetto platonico e neo-platonico di “misura” (μέτσον) concorda con il concetto indiano: il “non-misurato” è ciò che ancora non è stato definito; il “misurato” è il contenuto definito o finito del “cosmo”, cioè dell’universo “ordinato”; il “non misurabile” è l’infinito, origine ad un tempo dell’indefinito e del finito, che non viene infirmato dalla definizione del definibile», cioè dalla realizzazione delle possibilità di manifestazione che esso porta in sé.
Si vede qui che l’idea di misura è intimamente connessa con quella di «ordine» (in sanscrito rita), riferentesi alla produzione dell’universo manifestato, poiché, secondo il significato etimologico del termine greco κόσμος, si tratta nella fattispecie della produzione dell’«ordine» a partire dal «caos»; quest’ultimo è l’indefinito nel senso platonico, mentre il «cosmo» è il definito.[4] Questa produzione è anche assimilata, da tutte le tradizioni, ad un’«illuminazione» (il fiat lux della Genesi), mentre il «caos» è simbolicamente identificato con le «tenebre»: si tratta della potenzialità a partire dalla quale si «attualizzerà» la manifestazione, cioè, in definitiva, il lato sostanziale del mondo descritto anche come il polo tenebroso dell’esistenza, mentre l’essenza ne è il polo luminoso, poiché è la sua influenza ad illuminare effettivamente questo «caos» per ricavarne il «cosmo»; ciò è d’altronde in accordo con i diversi significati impliciti nel termine sanscrito srishti, che designa la produzione della manifestazione, e che contiene ad un tempo le idee di «espressione», di «concezione» e di «irraggiamento luminoso».[5] I raggi solari fanno apparire le cose da essi rischiarate, le rendono visibili, e simbolicamente si può dire che le «manifestano»; se si considera un punto centrale nello spazio ed i raggi emanati da esso, si potrà del pari affermare che questi raggi «realizzano» lo spazio facendolo passare dalla virtualità all’attualità, e che la loro effettiva estensione è, in ogni istante, la misura dello spazio realizzato. Questi raggi corrispondono alle direzioni dello spazio propriamente detto (direzioni che spesso sono rappresentate mediante il simbolismo dei «capelli», riferibile anche ai raggi solari); lo spazio è definito e misurato dalla croce a tre dimensioni, e, nel simbolismo tradizionale dei «sette raggi solari», questa croce è formata da sei di tali raggi opposti a due a due, mentre il «settimo raggio», quello che passa attraverso la «porta solare», non può essere graficamente rappresentato se non dal centro stesso. Tutto ciò dunque è perfettamente coerente e si concatena nel modo più rigoroso; e aggiungeremo ancora che, nella tradizione indù, i «tre passi» di Vishnu, di cui è ben noto il carattere «solare», misurano i «tre mondi», cioè «effettuano» la totalità della manifestazione universale. È noto d’altronde che i tre elementi costitutivi del monosillabo sacro Om sono designati con il termine mâtrâ, e ciò sta ad indicare che essi rappresentano anche la misura rispettiva dei «tre mondi»; mediante la meditazione di questi mâtrâ l’essere realizza in sé gli stati o gradi corrispondenti dell’esistenza universale, e diventa così egli stesso la «misura di tutte le cose».[6]
Il termine sanscrito mâtrâ equivale esattamente all’ebraico middah; orbene, nella Cabbala, le middoth sono assimilate agli attributi divini, ed è detto che attraverso di esse Dio ha creato i mondi, il che inoltre viene messo in rapporto con il simbolismo del punto centrale e delle direzioni dello spazio.[7] A questo proposito si può rammentare anche la parola biblica secondo cui Dio ha «disposto tutte le cose in misura, numero e peso»;[8] tale enumerazione, manifestamente riferibile ai diversi modi di essere della quantità, è come tale applicabile letteralmente al solo mondo corporeo, ma vi si può vedere, mediante un’appropriata trasposizione, anche un’espressione dell’«ordine universale». Non diversamente accade per i numeri pitagorici; ma fra tutti i modi d’essere della quantità, è l’estensione, cioè quello a cui propriamente corrisponde la misura, ad essere più spesso e più direttamente messa in rapporto con il processo stesso della manifestazione, e ciò proprio in virtù di una certa predominanza naturale del simbolismo spaziale a tale proposito, predominanza derivante dal fatto che è lo spazio che costituisce il «campo» (nel senso del sanscrito Kshêtra) in cui si sviluppa la manifestazione corporea, necessariamente presa come simbolo di tutta la manifestazione universale.
L’idea di misura comporta immediatamente l’idea di «geometria», non soltanto perché, come abbiamo già visto, ogni misura è essenzialmente «geometrica», ma perché la geometria si può definire come la scienza stessa della misura; è evidente che qui si tratta di una geometria intesa anzitutto in quel senso simbolico ed iniziatico, di cui la geometria profana non è più che un semplice vestigio degenerato, vestigio privo del significato profondo che essa aveva all’origine, e che è ormai interamente perduto per i matematici moderni. È essenzialmente su questo che si basano tutte le concezioni che assimilano l’attività divina, in quanto produttrice e ordinatrice dei mondi, alla «geometria», e di conseguenza all’«architettura» che ne è inseparabile;[9] ed è noto che queste concezioni sono state conservate e trasmesse in maniera ininterrotta a cominciare dal Pitagorismo (che d’altronde era già un «adattamento» e non una vera e propria «origine») per giungere fino a ciò che ancora sussiste delle organizzazioni iniziatiche occidentali, per poco che queste ultime ne siano coscienti. A ciò in particolare si riferiscono le parole di Platone: «Dio geometrizza sempre» (αεί ο Θεός γεωμέτρει: per tradurre esattamente siamo obbligati a ricorrere ad un neologismo, mancando un verbo corrente per designare l’operazione del geometra), parole a cui si riferiva l’iscrizione che si dice egli avesse fatto porre sulla porta della sua scuola: «Nessuno entri qui che non sia geometra», il che implicava che il suo insegnamento, almeno nel suo aspetto esoterico, non poteva essere veramente ed effettivamente compreso se non attraverso un’«imitazione» della stessa attività divina. Se ne trova come un’ultima eco nella filosofia moderna (almeno quanto alla data, ma in realtà per reazione alle idee specificamente moderne) con Leibnitz, quando questi afferma che «mentre Dio calcola ed esercita la sua riflessione (cioè stabilisce dei piani), il mondo si effettua» (dum Deus calculat et cogitationem exercet, fit mundus); ma per gli antichi ciò aveva un significato ben diversamente preciso, poiché, nella tradizione greca, il «Dio geometra» era propriamente l’Apollo iperboreo, il che ci riconduce ancora al simbolismo «solare», ed in pari tempo ad una derivazione assai diretta dalla tradizione primordiale; ma questa è un’altra questione che non potremmo sviluppare qui senza uscire interamente dal nostro argomento, per cui, di queste conoscenze tradizionali così totalmente dimenticate dai nostri contemporanei, dobbiamo accontentarci di dare qualche accenno man mano che se ne presenta l’occasione.[10]



[1] Ciò si accorda con il significato originale del termine ύλη da noi indicato in precedenza: il vegetale è per così dire la «madre» del frutto che da esso nasce e che esso nutre della sua sostanza, ma che non si sviluppa e non matura se non per l’influenza vivificante del sole, il quale in certo qual modo viene ad esserne il «padre»; per conseguenza il frutto stesso è simbolicamente assimilabile al sole per «coessenzialità», se così è lecito esprimerci, com’è visibile in quanto altrove abbiamo scritto a proposito del simbolismo degli Aditya, e in diverse altre nozioni tradizionali similari. 
[2] I due termini «intelligibile» e «sensibile» adoperati correlativamente sono propri del linguaggio platonico; si sa che il «mondo intelligibile» è per Platone l’ambito delle «idee» o degli «archetipi», i quali come abbiamo già visto, sono effettivamente le essenze nel vero significato della parola; e, in rapporto a questo mondo intelligibile, il mondo sensibile, ambito degli elementi corporei o di quanto procede dalle loro combinazioni, sta dal lato sostanziale della manifestazione. 
[3] Notes on the Katha-Upanishad, 2a parte. 
[4] Il termine sanscrito rita è apparentato, attraverso la sua stessa radice, al latino ordo, e non è neanche il caso di fare osservare che lo è ancor più strettamente al termine «rito»; etimologicamente il rito è quanto viene compiuto conformemente all’«ordine», e che per conseguenza imita, o riproduce al suo livello, il processo stesso della manifestazione; è per questo che, in una civiltà strettamente tradizionale, qualsiasi atto riveste un carattere essenzialmente rituale. 
[5] Cfr. A.K. Coomaraswamy, Notes on the Katha-Upanishad, cit. 
[6] Cfr. R. Guénon, L’Homme et son devenir selon le Védânta , Paris, 1925 [trad.-it.: L’uomo e il suo divenire secondo il Védânta, Torino, 1965], cap. XVII. 
[7] Cfr. Le Symbolisme de la Croix, cit., cap. IV. 
[8] «Omnia in mensura, numero et pondere disposuisti» (Sapienza, XI, 20). 
[9] Il termine arabo hindesah, il cui primo significato è quello di misura, serve a designare contemporaneamente sia la geometria sia l’architettura, quest’ultima essendo in definitiva un’applicazione della prima. 
[10] A.K. Coomaraswamy ci ha segnalato un curioso disegno simbolico di William Blake, raffigurante il «Vecchio dei Giorni» che appare nell’orbita solare da cui tende verso l’esterno un compasso che tiene in mano; l’immagine si direbbe un’illustrazione delle parole del Rig Veda (VIII, 25, 18): «Con il suo raggio ha misurato (o determinato) i confini del Cielo e della Terra» (si noti che tra i simboli di certi gradi massonici si trova un compasso la cui testa è costituita da un sole radiante). Si tratta manifestamente di una raffigurazione di quell’aspetto del Principio che le iniziazioni occidentali chiamano il «Grande Architetto dell’Universo», il quale diventa anche, in certi casi, il «Grande Geometra dell’Universo», e che è identico al Vishwakarma della tradizione indù, lo «Spirito della Costruzione Universale»; i suoi rappresentami terrestri, cioè coloro che in qualche modo «incarnano» questo Spirito nei confronti delle diverse forme tradizionali, sono quelli che più indietro abbiamo designato, appunto per questa ragione, come i «Grandi Architetti d’Oriente e d’Occidente».

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