Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi
3. Misura e
manifestazione
Se riteniamo preferibile evitare l’uso della parola «materia» finché non dobbiamo esaminare in modo specifico concezioni moderne, la ragione sta, per intenderci, nelle confusioni che essa inevitabilmente genera; è impossibile in effetti che tale parola (anche in coloro che conoscono il diverso significato che aveva per gli Scolastici) non evochi immediatamente l’idea che se ne fanno i fisici moderni, dato che la recente accezione è la sola rimastale nel linguaggio corrente.
Orbene, quest’idea, come già abbiamo detto, non è reperibile in alcuna dottrina tradizionale, sia orientale sia occidentale; ciò se non altro dimostra che, anche nella misura in cui sarebbe legittimamente possibile accettarla sfrondandola di certi elementi eterocliti o persino nettamente contraddittori, un’idea del genere non ha nulla di veramente essenziale, ed in realtà non si riferisce che ad un modo del tutto particolare di vedere le cose. Inoltre, essendo del tutto recente, è fuor di dubbio che quest’idea non è implicita nel termine stesso, ad essa molto anteriore, e che il significato originale deve per conseguenza esserne completamente indipendente. Bisogna peraltro riconoscere che questo termine è uno di quelli la cui vera derivazione etimologica è molto difficile da stabilire con esattezza, quasi che un’oscurità più o meno impenetrabile avvolga decisamente tutto quanto si riferisce alla «materia», per cui, a questo proposito, è pressoché impossibile far di più che discernere talune idee associate alla sua radice, cosa del resto tutt’altro che priva di interesse, anche se, tra queste idee, resta imprecisabile quella che più si avvicina al significato primitivo.
Se riteniamo preferibile evitare l’uso della parola «materia» finché non dobbiamo esaminare in modo specifico concezioni moderne, la ragione sta, per intenderci, nelle confusioni che essa inevitabilmente genera; è impossibile in effetti che tale parola (anche in coloro che conoscono il diverso significato che aveva per gli Scolastici) non evochi immediatamente l’idea che se ne fanno i fisici moderni, dato che la recente accezione è la sola rimastale nel linguaggio corrente.
Orbene, quest’idea, come già abbiamo detto, non è reperibile in alcuna dottrina tradizionale, sia orientale sia occidentale; ciò se non altro dimostra che, anche nella misura in cui sarebbe legittimamente possibile accettarla sfrondandola di certi elementi eterocliti o persino nettamente contraddittori, un’idea del genere non ha nulla di veramente essenziale, ed in realtà non si riferisce che ad un modo del tutto particolare di vedere le cose. Inoltre, essendo del tutto recente, è fuor di dubbio che quest’idea non è implicita nel termine stesso, ad essa molto anteriore, e che il significato originale deve per conseguenza esserne completamente indipendente. Bisogna peraltro riconoscere che questo termine è uno di quelli la cui vera derivazione etimologica è molto difficile da stabilire con esattezza, quasi che un’oscurità più o meno impenetrabile avvolga decisamente tutto quanto si riferisce alla «materia», per cui, a questo proposito, è pressoché impossibile far di più che discernere talune idee associate alla sua radice, cosa del resto tutt’altro che priva di interesse, anche se, tra queste idee, resta imprecisabile quella che più si avvicina al significato primitivo.
L’associazione
più sovente segnalata è quella che ricollega materia a mater, e ciò in
effetti è ben appropriato alla sostanza in quanto principio passivo, o
simbolicamente «femminile»: si può dire che Prakriti
svolge una funzione «materna» in rapporto alla manifestazione, così come Purusha svolge una funzione «paterna»; e
ciò si verifica ugualmente a tutti i livelli in cui si può esaminare
analogicamente una correlazione tra essenza e sostanza.[1]
D’altra parte è anche possibile ricollegare lo stesso termine materia al verbo latino metiri, «misurare» (e vedremo che in
sanscrito esiste una forma che ad esso è ancora più vicina); ma dire «misura»
equivale a introdurre una determinazione, e ciò non è più applicabile
all’assoluta indeterminazione della sostanza universale o della materia prima, ma deve piuttosto
riferirsi a qualche altro significato più ristretto; questo è precisamente il
punto che ora ci proponiamo di esaminare più particolareggiatamente.
«Per tutto
ciò che può essere concepito o percepito (nel mondo manifestato)» come dice a
questo proposito Ananda K. Coomaraswamy «il sanscrito ha soltanto l’espressione
nâma-rûpa, i cui due termini
corrispondono all’“intelligibile” e al “sensibile” (considerati come due
aspetti complementari rispettivamente riferentisi all’essenza e alla sostanza
delle cose).[2] È vero che il termine mâtrâ, letteralmente “misura”, è
l’equivalente etimologico di materia;
ma quanto è “misurato” a questo modo non è la “materia” dei fisici, bensì le
possibilità di manifestazione inerenti allo spirito (Âtmâ)».[3] Tale idea di «misura»,
posta così in rapporto diretto con la stessa manifestazione, è molto
importante, e ben lungi dall’appartenere esclusivamente alla sola tradizione
indù che Coomaraswamy ha qui particolarmente in vista; si può dire, in effetti,
che essa, in una forma o in un’altra, è ritrovabile in tutte le dottrine
tradizionali, per cui, anche se non possiamo pretendere di porne in rilievo tutte
le concordanze rilevabili a questo proposito, cercheremo tuttavia di dirne
abbastanza da giustificare questa asserzione, cercando nel contempo di
chiarire, per quanto possibile, il simbolismo della «misura» che appunto occupa
un gran posto in talune forme iniziatiche.
Intesa
alla lettera, la misura si riferisce principalmente all’ambito della quantità
continua, cioè, nel modo più diretto, alle cose che hanno carattere spaziale
(dal momento che il tempo stesso, benché ugualmente continuo, è misurabile solo
indirettamente, riferendolo in qualche modo allo spazio tramite il movimento
che stabilisce una relazione tra l’uno e l’altro); ciò equivale a dire che la
misura si riferisce, in definitiva, sia alla stessa estensione, sia a quel che
si è convenuto chiamare «materia corporea» in ragione del carattere estensivo
da questa necessariamente posseduto, il che d’altronde non vuole affatto dire
che la sua natura, come pretende Cartesio, si riduca puramente e semplicemente
all’estensione. Nel primo caso la misura è più propriamente «geometrica»; nel
secondo la si potrebbe piuttosto definire «fisica», nel senso ordinario del
termine; ma in realtà questo secondo caso è riconducibile al primo, poiché è in
quanto si situano nell’estensione e ne occupano una certa porzione definita che
i corpi sono immediatamente misurabili, mentre le altre loro proprietà non sono
suscettibili di misura se non quando si possa riferirle in qualche modo
all’estensione. Qui, come avevamo previsto, siamo ben lontani dalla materia prima, poiché questa, nella sua
assoluta «indistinzione», non può minimamente essere misurata né servire a
misurare alcunché; ma è doveroso chiedersi se tale nozione di misura non sia
più o meno strettamente legata a ciò che costituisce la materia secunda del nostro mondo, ed in effetti questo legame
esiste proprio per il fatto che essa è signata
quantitate. Infatti, se la misura riguarda direttamente l’estensione e
quanto in essa contenuto, ciò è reso possibile dall’aspetto quantitativo di
questa estensione; ma la quantità continua, come abbiamo spiegato, è in se
stessa solo un modo derivato dalla quantità, cioè non è propriamente quantità
se non per partecipazione alla quantità pura, la quale ultima, dal canto suo, è
inerente alla materia secunda del
mondo corporeo; e aggiungiamo ancora che, siccome il continuo non è la quantità
pura, la misura presenta sempre delle imperfezioni nella sua espressione
numerica, poiché la discontinuità del numero ne rende impossibile una adeguata
applicazione alla determinazione delle grandezze continue. È ben vero che il
numero è la base di ogni misura, ma, finché si considera il numero soltanto,
non si può parlare di misura, essendo questa l’applicazione del numero a
qualcos’altro; applicazione che è sempre possibile entro certi limiti, quelli
cioè della «inadeguatezza» che abbiamo segnalato per tutta quanto soggiace alla
condizione quantitativa, o, in altri termini, per tutto quanto appartiene
all’ambito della manifestazione corporea. Soltanto, e ritorniamo così all’idea
espressa da A.K. Coomaraswamy, bisogna sottolineare come, in realtà e malgrado
certi abusi del linguaggio ordinario, la quantità non sia ciò che è misurato,
bensì, al contrario, ciò per cui le cose sono misurate; e si può dire inoltre
che la misura è, in rapporto al numero, in senso inversamente analogico, ciò
che la manifestazione è in rapporto al suo principio essenziale.
Orbene, è
chiaro che per estendere l’idea di misura al di là del mondo corporeo bisogna
farne una trasposizione analogica: essendo lo spazio il luogo di manifestazione
delle possibilità d’ordine corporeo, ci si potrà servire di esso per
rappresentare tutto l’ambito della manifestazione universale, il quale
diversamente non sarebbe «rappresentabile»; e l’idea di misura, applicata a quest’ultimo,
viene così ad appartenere essenzialmente a quel simbolismo spaziale di cui
tanto spesso abbiamo dato degli esempi. In fondo, la misura è allora
un’«assegnazione» od una «determinazione», necessariamente inerente ad ogni
manifestazione in qualsiasi ordine o modo; tale determinazione è naturalmente
conforme alle condizioni di ogni stato di esistenza, e si identifica persino,
in un certo senso, a queste stesse condizioni; essa è veramente quantitativa
solo nel nostro mondo, poiché la quantità, come d’altronde lo spazio e il
tempo, non è in definitiva se non una delle condizioni speciali dell’esistenza
corporea. Ma vi è, in tutti i mondi, una determinazione che può essere
simboleggiata, a nostro uso, da quella determinazione quantitativa che è la misura,
in quanto questa corrisponde ad essa, tenendo conto della differenza delle
condizioni; e si può dire che è proprio mediante tale determinazione che questi
mondi, con tutto il loro contenuto, sono realizzati o «attualizzati» come tali,
poiché essa è una cosa sola con il processo stesso della manifestazione.
Coomaraswamy osserva che «il concetto platonico e neo-platonico di “misura” (μέτσον) concorda con il concetto indiano: il “non-misurato” è ciò che ancora non è stato
definito; il “misurato” è il contenuto definito o finito del “cosmo”, cioè
dell’universo “ordinato”; il “non misurabile” è l’infinito, origine ad un tempo
dell’indefinito e del finito, che non viene infirmato dalla definizione del
definibile», cioè dalla realizzazione delle possibilità di manifestazione che
esso porta in sé.
Si vede
qui che l’idea di misura è intimamente connessa con quella di «ordine» (in
sanscrito rita), riferentesi alla
produzione dell’universo manifestato, poiché, secondo il significato
etimologico del termine greco κόσμος, si tratta nella fattispecie della
produzione dell’«ordine» a partire dal «caos»; quest’ultimo è l’indefinito nel senso platonico,
mentre il «cosmo» è il definito.[4]
Questa produzione è anche assimilata, da tutte le tradizioni, ad
un’«illuminazione» (il fiat lux della
Genesi), mentre il «caos» è
simbolicamente identificato con le «tenebre»: si tratta della potenzialità a
partire dalla quale si «attualizzerà» la manifestazione, cioè, in definitiva,
il lato sostanziale del mondo descritto anche come il polo tenebroso
dell’esistenza, mentre l’essenza ne è il polo luminoso, poiché è la sua
influenza ad illuminare effettivamente questo «caos» per ricavarne il «cosmo»;
ciò è d’altronde in accordo con i diversi significati impliciti nel termine
sanscrito srishti, che designa la
produzione della manifestazione, e che contiene ad un tempo le idee di
«espressione», di «concezione» e di «irraggiamento luminoso».[5] I
raggi solari fanno apparire le cose da essi rischiarate, le rendono visibili, e
simbolicamente si può dire che le «manifestano»; se si considera un punto
centrale nello spazio ed i raggi emanati da esso, si potrà del pari affermare
che questi raggi «realizzano» lo spazio facendolo passare dalla virtualità
all’attualità, e che la loro effettiva estensione è, in ogni istante, la misura
dello spazio realizzato. Questi raggi corrispondono alle direzioni dello spazio
propriamente detto (direzioni che spesso sono rappresentate mediante il
simbolismo dei «capelli», riferibile anche ai raggi solari); lo spazio è
definito e misurato dalla croce a tre dimensioni, e, nel simbolismo
tradizionale dei «sette raggi solari», questa croce è formata da sei di tali
raggi opposti a due a due, mentre il «settimo raggio», quello che passa
attraverso la «porta solare», non può essere graficamente rappresentato se non
dal centro stesso. Tutto ciò dunque è perfettamente coerente e si concatena nel
modo più rigoroso; e aggiungeremo ancora che, nella tradizione indù, i «tre
passi» di Vishnu, di cui è ben noto il carattere «solare», misurano i «tre
mondi», cioè «effettuano» la totalità della manifestazione universale. È noto
d’altronde che i tre elementi costitutivi del monosillabo sacro Om sono designati con il termine mâtrâ, e ciò sta ad indicare che essi
rappresentano anche la misura rispettiva dei «tre mondi»; mediante la
meditazione di questi mâtrâ l’essere
realizza in sé gli stati o gradi corrispondenti dell’esistenza universale, e
diventa così egli stesso la «misura di tutte le cose».[6]
Il termine
sanscrito mâtrâ equivale esattamente
all’ebraico middah; orbene, nella
Cabbala, le middoth sono assimilate
agli attributi divini, ed è detto che attraverso di esse Dio ha creato i mondi,
il che inoltre viene messo in rapporto con il simbolismo del punto centrale e
delle direzioni dello spazio.[7] A
questo proposito si può rammentare anche la parola biblica secondo cui Dio ha
«disposto tutte le cose in misura, numero e peso»;[8] tale
enumerazione, manifestamente riferibile ai diversi modi di essere della
quantità, è come tale applicabile letteralmente al solo mondo corporeo, ma vi
si può vedere, mediante un’appropriata trasposizione, anche un’espressione
dell’«ordine universale». Non diversamente accade per i numeri pitagorici; ma
fra tutti i modi d’essere della quantità, è l’estensione, cioè quello a cui
propriamente corrisponde la misura, ad essere più spesso e più direttamente
messa in rapporto con il processo stesso della manifestazione, e ciò proprio in
virtù di una certa predominanza naturale del simbolismo spaziale a tale
proposito, predominanza derivante dal fatto che è lo spazio che costituisce il
«campo» (nel senso del sanscrito Kshêtra)
in cui si sviluppa la manifestazione corporea, necessariamente presa come
simbolo di tutta la manifestazione universale.
L’idea di
misura comporta immediatamente l’idea di «geometria», non soltanto perché, come
abbiamo già visto, ogni misura è essenzialmente «geometrica», ma perché la
geometria si può definire come la scienza stessa della misura; è evidente che
qui si tratta di una geometria intesa anzitutto in quel senso simbolico ed
iniziatico, di cui la geometria profana non è più che un semplice vestigio
degenerato, vestigio privo del significato profondo che essa aveva all’origine,
e che è ormai interamente perduto per i matematici moderni. È essenzialmente su
questo che si basano tutte le concezioni che assimilano l’attività divina, in
quanto produttrice e ordinatrice dei mondi, alla «geometria», e di conseguenza
all’«architettura» che ne è inseparabile;[9] ed è
noto che queste concezioni sono state conservate e trasmesse in maniera
ininterrotta a cominciare dal Pitagorismo (che d’altronde era già un
«adattamento» e non una vera e propria «origine») per giungere fino a ciò che
ancora sussiste delle organizzazioni iniziatiche occidentali, per poco che
queste ultime ne siano coscienti. A ciò in particolare si riferiscono le parole
di Platone: «Dio geometrizza sempre» (αεί ο Θεός γεωμέτρει: per tradurre esattamente siamo
obbligati a ricorrere ad un neologismo, mancando un verbo corrente per
designare l’operazione del geometra), parole a cui si riferiva l’iscrizione che
si dice egli avesse fatto porre sulla porta della sua scuola: «Nessuno entri
qui che non sia geometra», il che implicava che il suo insegnamento, almeno nel
suo aspetto esoterico, non poteva essere veramente ed effettivamente compreso
se non attraverso un’«imitazione» della stessa attività divina. Se ne trova come
un’ultima eco nella filosofia moderna (almeno quanto alla data, ma in realtà
per reazione alle idee specificamente moderne) con Leibnitz, quando questi
afferma che «mentre Dio calcola ed esercita la sua riflessione (cioè stabilisce
dei piani), il mondo si effettua» (dum
Deus calculat et cogitationem exercet, fit mundus); ma per gli antichi ciò
aveva un significato ben diversamente preciso, poiché, nella tradizione greca,
il «Dio geometra» era propriamente l’Apollo iperboreo, il che ci riconduce
ancora al simbolismo «solare», ed in pari tempo ad una derivazione assai
diretta dalla tradizione primordiale; ma questa è un’altra questione che non
potremmo sviluppare qui senza uscire interamente dal nostro argomento, per cui,
di queste conoscenze tradizionali così totalmente dimenticate dai nostri contemporanei,
dobbiamo accontentarci di dare qualche accenno man mano che se ne presenta
l’occasione.[10]
[1] Ciò si accorda con il significato originale del termine ύλη da noi indicato in precedenza: il vegetale è per così dire la «madre» del frutto che da esso nasce e che esso nutre della sua sostanza, ma che non si sviluppa e non matura se non per l’influenza vivificante del sole, il quale in certo qual modo viene ad esserne il «padre»; per conseguenza il frutto stesso è simbolicamente assimilabile al sole per «coessenzialità», se così è lecito esprimerci, com’è visibile in quanto altrove abbiamo scritto a proposito del simbolismo degli Aditya, e in diverse altre nozioni tradizionali similari.
[2] I due termini «intelligibile» e «sensibile» adoperati correlativamente sono propri del linguaggio platonico; si sa che il «mondo intelligibile» è per Platone l’ambito delle «idee» o degli «archetipi», i quali come abbiamo già visto, sono effettivamente le essenze nel vero significato della parola; e, in rapporto a questo mondo intelligibile, il mondo sensibile, ambito degli elementi corporei o di quanto procede dalle loro combinazioni, sta dal lato sostanziale della manifestazione.
[3] Notes on the Katha-Upanishad, 2a parte.
[4] Il termine sanscrito rita è apparentato, attraverso la sua stessa radice, al latino ordo, e non è neanche il caso di fare osservare che lo è ancor più strettamente al termine «rito»; etimologicamente il rito è quanto viene compiuto conformemente all’«ordine», e che per conseguenza imita, o riproduce al suo livello, il processo stesso della manifestazione; è per questo che, in una civiltà strettamente tradizionale, qualsiasi atto riveste un carattere essenzialmente rituale.
[5] Cfr. A.K. Coomaraswamy, Notes on the Katha-Upanishad, cit.
[6] Cfr. R. Guénon, L’Homme et son devenir selon le Védânta , Paris, 1925 [trad.-it.: L’uomo e il suo divenire secondo il Védânta, Torino, 1965], cap. XVII.
[7] Cfr. Le Symbolisme de la Croix, cit., cap. IV.
[8] «Omnia in mensura, numero et pondere disposuisti» (Sapienza, XI, 20).
[9] Il termine arabo hindesah, il cui primo significato è quello di misura, serve a designare contemporaneamente sia la geometria sia l’architettura, quest’ultima essendo in definitiva un’applicazione della prima.
[10] A.K. Coomaraswamy ci ha segnalato un curioso disegno simbolico di William Blake, raffigurante il «Vecchio dei Giorni» che appare nell’orbita solare da cui tende verso l’esterno un compasso che tiene in mano; l’immagine si direbbe un’illustrazione delle parole del Rig Veda (VIII, 25, 18): «Con il suo raggio ha misurato (o determinato) i confini del Cielo e della Terra» (si noti che tra i simboli di certi gradi massonici si trova un compasso la cui testa è costituita da un sole radiante). Si tratta manifestamente di una raffigurazione di quell’aspetto del Principio che le iniziazioni occidentali chiamano il «Grande Architetto dell’Universo», il quale diventa anche, in certi casi, il «Grande Geometra dell’Universo», e che è identico al Vishwakarma della tradizione indù, lo «Spirito della Costruzione Universale»; i suoi rappresentami terrestri, cioè coloro che in qualche modo «incarnano» questo Spirito nei confronti delle diverse forme tradizionali, sono quelli che più indietro abbiamo designato, appunto per questa ragione, come i «Grandi Architetti d’Oriente e d’Occidente».
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