Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi
1. Qualità e quantità
1. Qualità e quantità
La qualità
e la quantità vengono generalmente considerate come due termini complementari,
benché molto spesso si sia lontani dal capire la ragione profonda di questa
relazione; tale ragione risiede nella corrispondenza da noi indicata
nell’ultima parte dell’introduzione.
Occorre dunque partire dalla prima di tutte le dualità cosmiche, da quella cioè che è nel principio stesso dell’esistenza o della manifestazione universale, e senza la quale nessuna manifestazione sarebbe in alcun modo possibile; questa dualità è quella di Purusha e Prakriti secondo la dottrina indù, oppure, per servirci di un’altra terminologia, quella di «essenza» e «sostanza».
Queste ultime devono essere considerate come principi universali, essendo i due poli di qualsiasi manifestazione; ma ad altri livelli, cioè a quelli corrispondenti ai molteplici campi più o meno particolarizzati che si possono considerare all’interno dell’esistenza universale, si possono anche usare questi stessi termini per analogia, in senso relativo, per designare ciò che corrisponde a questi principi, o ciò che più direttamente li rappresenta in relazione ad una certa modalità più o meno ristretta della manifestazione. Si potrà così parlare di essenza e di sostanza, sia per un mondo, cioè per uno stato di esistenza determinato da certe particolari condizioni, sia per un essere considerato in particolare, o anche per ciascuno degli stati di questo essere, cioè per la sua manifestazione in ciascuno dei gradi dell’esistenza; in quest’ultimo caso, l’essenza e la sostanza rappresentano naturalmente la corrispondenza microcosmica di ciò che esse, dal punto di vista macrocosmico, sono per il mondo in cui si situa questa manifestazione, o, in altri termini, esse non sono altro che particolarizzazioni degli stessi principi relativi, i quali sono essi stessi determinazioni dell’essenza e della sostanza universali in rapporto alle condizioni del mondo in questione.
Occorre dunque partire dalla prima di tutte le dualità cosmiche, da quella cioè che è nel principio stesso dell’esistenza o della manifestazione universale, e senza la quale nessuna manifestazione sarebbe in alcun modo possibile; questa dualità è quella di Purusha e Prakriti secondo la dottrina indù, oppure, per servirci di un’altra terminologia, quella di «essenza» e «sostanza».
Queste ultime devono essere considerate come principi universali, essendo i due poli di qualsiasi manifestazione; ma ad altri livelli, cioè a quelli corrispondenti ai molteplici campi più o meno particolarizzati che si possono considerare all’interno dell’esistenza universale, si possono anche usare questi stessi termini per analogia, in senso relativo, per designare ciò che corrisponde a questi principi, o ciò che più direttamente li rappresenta in relazione ad una certa modalità più o meno ristretta della manifestazione. Si potrà così parlare di essenza e di sostanza, sia per un mondo, cioè per uno stato di esistenza determinato da certe particolari condizioni, sia per un essere considerato in particolare, o anche per ciascuno degli stati di questo essere, cioè per la sua manifestazione in ciascuno dei gradi dell’esistenza; in quest’ultimo caso, l’essenza e la sostanza rappresentano naturalmente la corrispondenza microcosmica di ciò che esse, dal punto di vista macrocosmico, sono per il mondo in cui si situa questa manifestazione, o, in altri termini, esse non sono altro che particolarizzazioni degli stessi principi relativi, i quali sono essi stessi determinazioni dell’essenza e della sostanza universali in rapporto alle condizioni del mondo in questione.
Intese in
questo senso relativo, specie se riferite agli esseri particolari, l’essenza e
la sostanza fanno tutt’uno con la «forma» e la «materia» dei filosofi della
Scolastica; noi però preferiamo evitare l’uso di questi ultimi termini, i
quali, senza dubbio a causa di una imperfezione della lingua latina a questo
proposito, rendono in modo piuttosto inesatto le idee che devono esprimere,[1] e
inoltre sono diventati ancora più equivoci a causa del significato del tutto
diverso che le parole stesse ricevono comunemente nel linguaggio moderno.
Comunque sia, dire che ogni essere manifestato è un composto di «forma» e di
«materia» equivale ad affermare che la sua esistenza procede necessariamente
dall’essenza e dalla sostanza ad un tempo, e, per conseguenza, che vi è in lui
qualcosa che corrisponde ad entrambi questi principi, di modo che sia come una
risultante della loro unione, o, per essere più esatti, dell’azione esercitata
dal principio attivo, o essenza, sul principio passivo, o sostanza;
nell’applicazione che se ne fa nel caso degli esseri individuali, la «forma» e
la «materia» che li costituiscono sono rispettivamente identiche a ciò che
nella tradizione indù viene designato come nâma
e rûpa. E già che siamo intenti a
segnalare le concordanze fra terminologie diverse, cosa che permetterà a
qualcuno di trasporre le nostre spiegazioni nel linguaggio cui è più abituato e
quindi di capirle più facilmente, aggiungeremo ancora che ciò che viene
chiamato «atto» e «potenza», in senso aristotelico, parimenti corrisponde
all’essenza e alla sostanza; tali termini sono d’altronde suscettibili di
un’applicazione più estesa che non quelli di «forma» e «materia»; ma, in fondo,
dire che in ogni essere vi è una mescolanza di atto e di potenza è pur sempre
la stessa cosa, perché, in lui, l’atto è ciò per cui egli partecipa
dell’essenza, e la potenza ciò per cui partecipa della sostanza; l’atto puro e
la potenza pura non possono trovarsi in alcun modo nella manifestazione, in
quanto essi, in definitiva, sono gli equivalenti dell’essenza e della sostanza
universali.
Chiarito
ciò, possiamo parlare dell’essenza e della sostanza del nostro mondo, di quello
cioè che è l’ambito dell’essere individuale umano, e diremo che, conformemente
alle condizioni che definiscono propriamente tale mondo, questi due principi vi
appaiono rispettivamente sotto l’aspetto della qualità e della quantità. Per
quanto riguarda la qualità ciò può già sembrare evidente, poiché l’essenza è in
definitiva la sintesi principiale di tutti gli attributi appartenenti ad un
essere e che fanno di questo essere ciò che è, dato che attributi o qualità
sono in fondo sinonimi; e si può anche osservare che la qualità, considerata
come il contenuto dell’essenza, se così è lecito esprimersi, non si limita
esclusivamente al nostro mondo, ma è suscettibile di una trasposizione che ne
universalizza il significato, e ciò non deve affatto stupire poiché essa
rappresenta qui il principio superiore; ma, in una universalizzazione del
genere, la qualità cessa di essere il correlativo della quantità, perché
quest’ultima è per contro strettamente legata alle condizioni speciali del
nostro mondo; dal punto di vista teologico, d’altronde, non si riferisce forse
in qualche modo la qualità a Dio stesso, parlando dei Suoi attributi, e non
sarebbe forse inconcepibile pretendere di trasporre allo stesso modo in Lui
determinazioni quantitative di un qualsiasi genere?[2]
Qualcuno potrebbe obiettare che Aristotele pone tanto la qualità come la
quantità fra le «categorie», le quali non sono che modi speciali dell’essere,
cui non sono coestensive; ma in questo modo egli non effettua la trasposizione
di cui parlavamo e d’altronde non ha ragione di farlo: l’enumerazione delle
categorie, infatti, si riferisce esclusivamente al nostro mondo e alle sue
condizioni, ove la qualità non può e non deve in realtà essere presa altro che
nel senso, per noi più immediato nel nostro stato individuale, in cui essa si
presenta, come fin dall’inizio abbiamo detto, quale un correlativo della
quantità.
È
interessante osservare, d’altra parte, che la «forma» degli Scolastici è ciò
che Aristotele chiama εΐδος, e che quest’ultima parola è impiegata anche per
designare la «specie», la quale è propriamente una natura o un’essenza comune a
una indefinita moltitudine di individui; ora, questa natura è d’ordine
puramente qualitativo, in quanto veramente «non numerabile» nel senso più
ristretto dell’espressione, cioè indipendente dalla quantità, essendo
indivisibile e tutta intera in ognuno degli individui appartenenti a questa
specie, sicché essa non viene affatto modificata dal numero di questi ultimi e
non è suscettibile di variazioni in «più» o in «meno». Inoltre, εΐδος è
etimologicamente l’«idea», non nel senso psicologico dei moderni, ma in un
senso ontologico più vicino a quello di Platone di quanto ordinariamente non si
pensi, poiché, quali che siano le differenze realmente esistenti al riguardo
fra la concezione di Platone e quella di Aristotele, tali differenze, come
spesso accade, sono state notevolmente esagerate dai loro discepoli e
commentatori. Le idee platoniche sono anche essenze; Platone ne mette
soprattutto in evidenza l’aspetto trascendente e Aristotele quello immanente,
la qual cosa, checché ne dicano gli spiriti «sistematici», non conduce ad una
esclusione reciproca, ma si riferisce soltanto a livelli diversi; in ogni caso
si tratta degli «archetipi» o dei principi essenziali delle cose, i quali rappresentano
ciò che si potrebbe chiamare il lato qualitativo della manifestazione. (queste
stesse idee platoniche inoltre, sotto altro nome e per filiazione diretta, sono
la stessa cosa dei numeri pitagorici; e ciò rende ben evidente che tali numeri
pitagorici, come già da noi indicato in precedenza, e benché li si chiami
numeri per analogia, non sono affatto numeri nel senso quantitativo e ordinario
del termine, ma sono al contrario puramente qualitativi, corrispondendo
inversamente, dal lato dell’essenza, a ciò che sono i numeri quantitativi dal
lato della sostanza.[3]
Per cui,
quando san Tommaso d’Aquino dice che «numerus
stat ex parte materiae», intende appunto il numero quantitativo, e con ciò
egli afferma appunto che la quantità appartiene immediatamente al lato
sostanziale della manifestazione; diciamo sostanziale, in quanto materia, in senso scolastico, non è
affatto la «materia» quale i fisici moderni la intendono, bensì la sostanza,
sia nell’accezione relativa come correlativo di forma e riferita agli esseri particolari, sia anche, quand’è
questione di materia prima, intesa
come principio passivo della manifestazione universale, cioè la potenzialità
pura, che è l’equivalente di Prakriti
nella dottrina indù. Tuttavia quando si parla di «materia», in qualsiasi senso
la si intenda, tutto diviene particolarmente oscuro e confuso, certo non senza
ragione;[4] per
cui, mentre ci è stato abbastanza facile far vedere il rapporto della qualità
con l’essenza, senza dover ricorrere a una lunga esposizione, dovremo invece
farlo per quanto riguarda il rapporto della quantità con la sostanza, in quanto
occorre anzitutto chiarire i diversi aspetti in cui si presenta quella che gli
Occidentali hanno chiamato «materia», anche prima di quella deviazione moderna
in cui questa parola era destinata a svolgere una così grande funzione. E ciò è
tanto più necessario in quanto tale questione si trova in certo qual modo
proprio alla radice del principale oggetto del nostro studio.
[1] Queste parole traducono in modo assai poco felice i termini greci
εΐδος e ύλη, usati da Aristotele con lo stesso significato, e su cui torneremo
in seguito.
[2] Si può parlare di Brahma saguna o «qualificato», ma non ha senso parlare di Brahma «quantificato».
[3] Si può anche osservare che il nome di un essere, in quanto espressione della sua essenza, è propriamente un numero inteso in questo stesso senso qualitativo; ciò stabilisce uno stretto legame tra la concezione dei numeri pitagorici, e quindi quella delle idee platoniche, e l’uso del termine sanscrito nâma per designare il lato essenziale di un essere.
[4] Segnaliamo anche, a proposito dell’essenza e della sostanza, che i filosofi della Scolastica rendono frequentemente con substantia il termine greco ουσία, il quale al contrario è propriamente e letteralmente «essenza», cosa che contribuisce non poco ad aumentare la confusione del linguaggio; da ciò espressioni come «forma sostanziale», per esempio, molto mal applicabile a quello che in realtà costituisce il lato essenziale di un essere, e per niente affatto al suo lato sostanziale.
[2] Si può parlare di Brahma saguna o «qualificato», ma non ha senso parlare di Brahma «quantificato».
[3] Si può anche osservare che il nome di un essere, in quanto espressione della sua essenza, è propriamente un numero inteso in questo stesso senso qualitativo; ciò stabilisce uno stretto legame tra la concezione dei numeri pitagorici, e quindi quella delle idee platoniche, e l’uso del termine sanscrito nâma per designare il lato essenziale di un essere.
[4] Segnaliamo anche, a proposito dell’essenza e della sostanza, che i filosofi della Scolastica rendono frequentemente con substantia il termine greco ουσία, il quale al contrario è propriamente e letteralmente «essenza», cosa che contribuisce non poco ad aumentare la confusione del linguaggio; da ciò espressioni come «forma sostanziale», per esempio, molto mal applicabile a quello che in realtà costituisce il lato essenziale di un essere, e per niente affatto al suo lato sostanziale.
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