"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

domenica 19 ottobre 2014

René Guénon, Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi - 1. Qualità e quantità

René Guénon 
Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi

1. Qualità e quantità


La qualità e la quantità vengono generalmente considerate come due termini complementari, benché molto spesso si sia lontani dal capire la ragione profonda di questa relazione; tale ragione risiede nella corrispondenza da noi indicata nell’ultima parte dell’introduzione.
Occorre dunque partire dalla prima di tutte le dualità cosmiche, da quella cioè che è nel principio stesso dell’esistenza o della manifestazione universale, e senza la quale nessuna manifestazione sarebbe in alcun modo possibile; questa dualità è quella di Purusha e Prakriti secondo la dottrina indù, oppure, per servirci di un’altra terminologia, quella di «essenza» e «sostanza».
Queste ultime devono essere considerate come principi universali, essendo i due poli di qualsiasi manifestazione; ma ad altri livelli, cioè a quelli corrispondenti ai molteplici campi più o meno particolarizzati che si possono considerare all’interno dell’esistenza universale, si possono anche usare questi stessi termini per analogia, in senso relativo, per designare ciò che corrisponde a questi principi, o ciò che più direttamente li rappresenta in relazione ad una certa modalità più o meno ristretta della manifestazione. Si potrà così parlare di essenza e di sostanza, sia per un mondo, cioè per uno stato di esistenza determinato da certe particolari condizioni, sia per un essere considerato in particolare, o anche per ciascuno degli stati di questo essere, cioè per la sua manifestazione in ciascuno dei gradi dell’esistenza; in quest’ultimo caso, l’essenza e la sostanza rappresentano naturalmente la corrispondenza microcosmica di ciò che esse, dal punto di vista macrocosmico, sono per il mondo in cui si situa questa manifestazione, o, in altri termini, esse non sono altro che particolarizzazioni degli stessi principi relativi, i quali sono essi stessi determinazioni dell’essenza e della sostanza universali in rapporto alle condizioni del mondo in questione.
Intese in questo senso relativo, specie se riferite agli esseri particolari, l’essenza e la sostanza fanno tutt’uno con la «forma» e la «materia» dei filosofi della Scolastica; noi però preferiamo evitare l’uso di questi ultimi termini, i quali, senza dubbio a causa di una imperfezione della lingua latina a questo proposito, rendono in modo piuttosto inesatto le idee che devono esprimere,[1] e inoltre sono diventati ancora più equivoci a causa del significato del tutto diverso che le parole stesse ricevono comunemente nel linguaggio moderno. Comunque sia, dire che ogni essere manifestato è un composto di «forma» e di «materia» equivale ad affermare che la sua esistenza procede necessariamente dall’essenza e dalla sostanza ad un tempo, e, per conseguenza, che vi è in lui qualcosa che corrisponde ad entrambi questi principi, di modo che sia come una risultante della loro unione, o, per essere più esatti, dell’azione esercitata dal principio attivo, o essenza, sul principio passivo, o sostanza; nell’applicazione che se ne fa nel caso degli esseri individuali, la «forma» e la «materia» che li costituiscono sono rispettivamente identiche a ciò che nella tradizione indù viene designato come nâma e rûpa. E già che siamo intenti a segnalare le concordanze fra terminologie diverse, cosa che permetterà a qualcuno di trasporre le nostre spiegazioni nel linguaggio cui è più abituato e quindi di capirle più facilmente, aggiungeremo ancora che ciò che viene chiamato «atto» e «potenza», in senso aristotelico, parimenti corrisponde all’essenza e alla sostanza; tali termini sono d’altronde suscettibili di un’applicazione più estesa che non quelli di «forma» e «materia»; ma, in fondo, dire che in ogni essere vi è una mescolanza di atto e di potenza è pur sempre la stessa cosa, perché, in lui, l’atto è ciò per cui egli partecipa dell’essenza, e la potenza ciò per cui partecipa della sostanza; l’atto puro e la potenza pura non possono trovarsi in alcun modo nella manifestazione, in quanto essi, in definitiva, sono gli equivalenti dell’essenza e della sostanza universali. 
Chiarito ciò, possiamo parlare dell’essenza e della sostanza del nostro mondo, di quello cioè che è l’ambito dell’essere individuale umano, e diremo che, conformemente alle condizioni che definiscono propriamente tale mondo, questi due principi vi appaiono rispettivamente sotto l’aspetto della qualità e della quantità. Per quanto riguarda la qualità ciò può già sembrare evidente, poiché l’essenza è in definitiva la sintesi principiale di tutti gli attributi appartenenti ad un essere e che fanno di questo essere ciò che è, dato che attributi o qualità sono in fondo sinonimi; e si può anche osservare che la qualità, considerata come il contenuto dell’essenza, se così è lecito esprimersi, non si limita esclusivamente al nostro mondo, ma è suscettibile di una trasposizione che ne universalizza il significato, e ciò non deve affatto stupire poiché essa rappresenta qui il principio superiore; ma, in una universalizzazione del genere, la qualità cessa di essere il correlativo della quantità, perché quest’ultima è per contro strettamente legata alle condizioni speciali del nostro mondo; dal punto di vista teologico, d’altronde, non si riferisce forse in qualche modo la qualità a Dio stesso, parlando dei Suoi attributi, e non sarebbe forse inconcepibile pretendere di trasporre allo stesso modo in Lui determinazioni quantitative di un qualsiasi genere?[2] Qualcuno potrebbe obiettare che Aristotele pone tanto la qualità come la quantità fra le «categorie», le quali non sono che modi speciali dell’essere, cui non sono coestensive; ma in questo modo egli non effettua la trasposizione di cui parlavamo e d’altronde non ha ragione di farlo: l’enumerazione delle categorie, infatti, si riferisce esclusivamente al nostro mondo e alle sue condizioni, ove la qualità non può e non deve in realtà essere presa altro che nel senso, per noi più immediato nel nostro stato individuale, in cui essa si presenta, come fin dall’inizio abbiamo detto, quale un correlativo della quantità.
È interessante osservare, d’altra parte, che la «forma» degli Scolastici è ciò che Aristotele chiama εΐδος, e che quest’ultima parola è impiegata anche per designare la «specie», la quale è propriamente una natura o un’essenza comune a una indefinita moltitudine di individui; ora, questa natura è d’ordine puramente qualitativo, in quanto veramente «non numerabile» nel senso più ristretto dell’espressione, cioè indipendente dalla quantità, essendo indivisibile e tutta intera in ognuno degli individui appartenenti a questa specie, sicché essa non viene affatto modificata dal numero di questi ultimi e non è suscettibile di variazioni in «più» o in «meno». Inoltre, εΐδος è etimologicamente l’«idea», non nel senso psicologico dei moderni, ma in un senso ontologico più vicino a quello di Platone di quanto ordinariamente non si pensi, poiché, quali che siano le differenze realmente esistenti al riguardo fra la concezione di Platone e quella di Aristotele, tali differenze, come spesso accade, sono state notevolmente esagerate dai loro discepoli e commentatori. Le idee platoniche sono anche essenze; Platone ne mette soprattutto in evidenza l’aspetto trascendente e Aristotele quello immanente, la qual cosa, checché ne dicano gli spiriti «sistematici», non conduce ad una esclusione reciproca, ma si riferisce soltanto a livelli diversi; in ogni caso si tratta degli «archetipi» o dei principi essenziali delle cose, i quali rappresentano ciò che si potrebbe chiamare il lato qualitativo della manifestazione. (queste stesse idee platoniche inoltre, sotto altro nome e per filiazione diretta, sono la stessa cosa dei numeri pitagorici; e ciò rende ben evidente che tali numeri pitagorici, come già da noi indicato in precedenza, e benché li si chiami numeri per analogia, non sono affatto numeri nel senso quantitativo e ordinario del termine, ma sono al contrario puramente qualitativi, corrispondendo inversamente, dal lato dell’essenza, a ciò che sono i numeri quantitativi dal lato della sostanza.[3] 
Per cui, quando san Tommaso d’Aquino dice che «numerus stat ex parte materiae», intende appunto il numero quantitativo, e con ciò egli afferma appunto che la quantità appartiene immediatamente al lato sostanziale della manifestazione; diciamo sostanziale, in quanto materia, in senso scolastico, non è affatto la «materia» quale i fisici moderni la intendono, bensì la sostanza, sia nell’accezione relativa come correlativo di forma e riferita agli esseri particolari, sia anche, quand’è questione di materia prima, intesa come principio passivo della manifestazione universale, cioè la potenzialità pura, che è l’equivalente di Prakriti nella dottrina indù. Tuttavia quando si parla di «materia», in qualsiasi senso la si intenda, tutto diviene particolarmente oscuro e confuso, certo non senza ragione;[4] per cui, mentre ci è stato abbastanza facile far vedere il rapporto della qualità con l’essenza, senza dover ricorrere a una lunga esposizione, dovremo invece farlo per quanto riguarda il rapporto della quantità con la sostanza, in quanto occorre anzitutto chiarire i diversi aspetti in cui si presenta quella che gli Occidentali hanno chiamato «materia», anche prima di quella deviazione moderna in cui questa parola era destinata a svolgere una così grande funzione. E ciò è tanto più necessario in quanto tale questione si trova in certo qual modo proprio alla radice del principale oggetto del nostro studio.




[1] Queste parole traducono in modo assai poco felice i termini greci εΐδος e ύλη, usati da Aristotele con lo stesso significato, e su cui torneremo in seguito.  
[2] Si può parlare di Brahma saguna o «qualificato», ma non ha senso parlare di Brahma «quantificato».  
[3] Si può anche osservare che il nome di un essere, in quanto espressione della sua essenza, è propriamente un numero inteso in questo stesso senso qualitativo; ciò stabilisce uno stretto legame tra la concezione dei numeri pitagorici, e quindi quella delle idee platoniche, e l’uso del termine sanscrito nâma per designare il lato essenziale di un essere.  
[4] Segnaliamo anche, a proposito dell’essenza e della sostanza, che i filosofi della Scolastica rendono frequentemente con substantia il termine greco ουσία, il quale al contrario è propriamente e letteralmente «essenza», cosa che contribuisce non poco ad aumentare la confusione del linguaggio; da ciò espressioni come «forma sostanziale», per esempio, molto mal applicabile a quello che in realtà costituisce il lato essenziale di un essere, e per niente affatto al suo lato sostanziale.

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