La perfetta adorazione*
* Mawqif 4
Ma
no: erano jinn quelli che essi adoravano e in cui la maggior parte di essi
credeva. [Cor. 34,41][1]
Una notte mi trovavo nella Moschea sacra,
vicino al matâf[2],
rivolto verso la Ka'ba, immerso nell'invocazione (dikr). Tutti dormivano. Le voci si erano zittite. Improvvisamente
alcune persone vennero a sedersi accanto a me, alla mia destra e alla mia
sinistra, e iniziarono a invocare Dio. Una domanda mi sorse nella mente: “Chi
tra noi è il meglio avviato sulla strada di Dio?”. Poco dopo che il pensiero mi
era balenato, Dio mi strappò al mondo e a me stesso, indi proiettò[3] su di me
la Sua parola: « Ma no: erano jinn quelli
che essi adoravano».
Seppi dunque che l'adorazione di quelle
persone era viziata da desideri personali e da crucci ispirati dalle passioni. Mi dissi allora, conformandomi in ciò
all'insegnamento dei maestri spirituali (al-muhaqqiqin
min ahli-Llâh): chiunque adori Allah per timore del fuoco dell'inferno o per
ottenere il paradiso, chiunque Lo invochi affinché la sua parte dei beni di
questo mondo sia accresciuta, o affinché i visi si volgano verso di lui (ossia
affinché egli sia glorificato), o affinché venga scacciato il male inflittogli
da un oppressore, o ancora perché egli ha udito un hadith del Profeta secondo il quale chi compie questa o quella
opera pia oppure recita questa o quella invocazione riceverà da Dio questa o
quella ricompensa, per chiunque che così si comporti l’adorazione è viziata e
sarà accolta da Dio solo in virtù della Sua grazia e della Sua generosità. Se
tuttavia quanto ho menzionato non costituisce lo scopo dell'atto di pietà, se
l'uomo non vi pensa come a una conseguenza di ciò che compie e non agisce per
attenerlo, in tutto questo non vi è del male.
Dio ha detto: «Chi ha speranza
d'incontrare il suo Signore, faccia il bene, e nel prostrarsi in adorazione non
associ a Lui delle condivinità» [Cor. 18,110]. Le condivinità che ho citato
sono “esseri” che si associano a Dio. Fra tutti quelli che vengono associati
nell'adorazione, Dio è però Colui che trascende in maniera assoluta ogni
associazione.
Egli ha infatti ordinato ai Suoi servi di
adorarLo con fede perfettamente pura, e ciò implica di desiderare quale unica ricompensa
il Suo volto. È Lui che fa loro grazioso dono di ricompense e di gradi spirituali,
li preserva dalle azioni malvagie o degne di biasimo. Tutto ciò che si ha
presente nell'adorazione, oltre a Dio, è un “associato”, ossia una cosa irreale
(ma'dûm) e occultata (mastûr), un semplice nome che non
corrisponde ad alcun “nominato”. Dio vi ha alluso nel dire: «Ma no: erano jinn quelli che essi adoravano». Etimologicamente,
il termine jinn si ricollega infatti
al termine ijtinân, che esprime il
fatto di essere nascosto (istitâr). Tutto
ciò che è altro da Allah è “nascosto” nel nulla, persino se agli esseri
spiritualmente velati apparisse come dotato di esistenza. Ma il saggio non si
cura di ciò che è nulla e non lo rende scopo delle proprie azioni. Ecco perché
dico, ed è Allah - sia Egli esaltato! - a parlare con la mia lingua: colui che
non segue la via degli iniziati e non acquisisce la loro scienza spirituale al
fine di conoscere se stesso, non raggiungerà la perfetta purezza
nell'adorazione, anche se è il più pio, il più scrupoloso e il più ascetico
degli uomini, il più deciso nel ritirarsi lontano dalle creature e nel
ricercare una vita intima, il più perspicace nella disamina delle astuzie
dell'anima passionale e delle sue segrete mancanze.
Ma se la Misericordia divina gli concede
la conoscenza di se stesso, l'adorazione diverrà pura; e per lui il paradiso e
l'inferno, le ricompense, i gradi spirituali e tutte le cose create saranno
come se Dio non le avesse mai create. Egli non darà a esse importanza né le
prenderà in considerazione, salvo che nella misura prescritta dalla Legge e dalla
Saggezza divine. Perché allora egli saprà Chi è l'unico Agente.
Infatti il servo non agisce, non crea i
propri atti volontari, secondo l'opinione che si attribuisce ai mu'taziliti [coloro che professano l'i'tizal, lo stato intermedio tra la fede
e l'incredulità]. E neppure agisce per costrizione divina, come insegnano i jabriya [i fautori della
predestinazione]. Egli non ha tuttavia in sé quel tanto di libero arbitrio che
consentirebbe di considerarlo agente, così come pensa Maturidi. E nemmeno vi è “acquisizione”
(kasb) dell'atto da parte della
creatura, nel senso che l'evento dell'atto avverrebbe per sua volontà e per sua
libera scelta senza che si abbia creazione dell'atto da parte della creatura o
costrizione divina assoluta, poiché la verità si trova tra questa e quella,
com'è opinione degli ash'ariti [gli
appartenenti alla scuola teologica ortodossa]. Non vi è neppure compimento dell'atto
da parte di Dio, poiché l'azione del servo produce quale unico effetto che la
Legge qualifichi tale atto “buono” o “cattivo”, come sostiene l'imâm al-Haramayn[4]. Non è
il caso di prendere in considerazione l'opinione di tutte le altre categorie di
filosofi o di teologi[5].
Quanto all'attribuzione degli atti al
servo dal punto di vista della Legge sacra e alla corrispondenza tra ricompensa
o castigo da una parte e buone o cattive azioni dall’altra, ciò è da valutare
in maniera diversa, da noi già menzionata in vari passi di questo libro.
[1]
Sui jinn, v. nota 5 al testo 13.
[2]
La Moschea sacra (al-masjid al-haram) è la moschea della
Mecca, al centro della quale si trova la Ka'ba. Il matâf è lo spazio predisposto
per la circumambulazione rituale (tawâf),
fuori del quale essa è priva di valore. L'evento spirituale descritto in questo
capitolo si colloca probabilmente durante il soggiorno dell'emiro nel Hijaz,
tra il gennaio del 1863 e il luglio del 1864.
[3]
Sulla proiezione
di un versetto della Rivelazione, v. testo 36.
[4]
Imâm al-Haramayn,
soprannome onorifico del teologo Abu '1-Ma'âli 'Abd al-Malik al-Guwaynî
(1028-1085).
[5]
Le opinioni
ricordate nel paragrafo sono - riassunte in maniera molto sommaria - quelle
delle principali scuole teologiche circa il problema dell'«attribuzione degli
atti» (che l'emiro tratta più ampiamente nel testo 32). Uno studio approfondito
sull'argomento è contenuto nella tesi di Daniel Gimaret, Théories de l'acte humain en théologie musulmane, Parigi 1980.
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