"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

venerdì 27 febbraio 2015

René Guénon, Monoteismo e angelologia

René Guénon
Monoteismo e angelologia * 
* Études Traditionnelles, ottobre-novembre 1946. (Rivista di Studi Tradizionali n. 8)

Quanto abbiamo detto in altri nostri studi permette di capire di quale natura sia l’errore che può dare origine al politeismo: quest’ultimo, che non è dopo tutto se non il caso più spinto di «associazione»[1], consiste nell’ammettere una pluralità di principi considerati completamente indipendenti, mentre invece non sono e non possono essere in realtà che aspetti più o meno secondari del Principio supremo.
È evidente che non si può trattare che della conseguenza di un’incomprensione di talune verità tradizionali, e precisamente di quelle che si riferiscono agli aspetti, o attributi, divini: simile incomprensione è sempre possibile in individui isolati e più o meno numerosi, ma la sua generalizzazione, che corrisponde allo stato di degenerazione estrema di una forma tradizionale in procinto di scomparire, è stata senza alcun dubbio molto più rara di quanto abitualmente si crede. Comunque sia, nessuna tradizione può essere in se stessa politeista; postulare un politeismo all’origine, secondo le prospettive «evoluzionistiche» della maggioranza dei moderni, invece di vedervi semplicemente quella deviazione di cui si tratta di fatto, significa rovesciare ogni ordine normale. Qualunque vera tradizione è essenzialmente monoteista; per usare un linguaggio più preciso, ogni tradizione afferma innanzi tutto l’unità del Principio supremo[2], da cui tutto deriva e da cui tutto dipende integralmente, ed è questa affermazione, nell’espressione che riveste specialmente nelle tradizioni a forma religiosa, a costituire il monoteismo propriamente detto; con la riserva di questa spiegazione, necessaria ad evitare ogni confusione di prospettive, possiamo però di fatto estendere senza inconvenienti il significato del termine monoteismo e applicarlo a ogni affermazione dell’unità principiale. Ma si badi che quando diciamo che è necessariamente il monoteismo ad essere esistito all’origine, è per noi ovvio che ciò non ha niente di comune con l’ipotesi d’una pretesa «semplicità primitiva» che non è indubbiamente mai esistita[3]; a evitare ogni equivoco in proposito, è sufficiente considerare che il monoteismo può includere tutti i possibili sviluppi sulla molteplicità degli attributi divini, e inoltre tener presente che l’angelologia, la quale è strettamente legata alla considerazione degli attributi, come abbiamo detto in precedenza, occupa effettivamente un posto importante nelle forme tradizionali in cui il monoteismo si afferma nel modo più esplicito e rigoroso. Non sussiste dunque a ciò nessuna incompatibilità, e la stessa invocazione degli angeli, a condizione che essi siano tenuti unicamente in conto di «intermediari celesti», vale a dire considerati come rappresentanti o esprimenti questo o quell’aspetto divino nell’ordine della manifestazione informale, è perfettamente legittima e normale nell’ambito del monoteismo più rigoroso.
A tal proposito dobbiamo segnalare alcuni abusi della prospettiva «storica», o sedicente tale, così cara a tanti nostri contemporanei; in primo luogo intendiamo riferirci alla teoria dei «prestiti» di cui già ci toccò parlare in diverse altre occasioni. Abbiamo effettivamente visto piuttosto sovente degli autori sostenere, ad esempio, che gli Ebrei, non conoscendo l’angelologia prima della cattività babilonese, dovettero averla semplicemente copiata dai Caldei; altri ne conosciamo i quali sostengono che qualsiasi angelologia, dovunque s’incontri, trae invariabilmente le sue origini dal Mazdeismo. È chiaro tuttavia che asserzioni di questo genere presuppongono implicitamente che non si tratti d’altro che di semplici «idee», nel senso moderno e psicologico della parola, o di concezioni senza alcun fondamento reale, mentre per noi, come per chiunque si ponga da un angolo visuale tradizionale, si tratta al contrario della conoscenza di un determinato ordine di realtà; non si riesce assolutamente a capire perché tale conoscenza dovrebbe essere stata «presa a prestito» da una all’altra dottrina, mentre è perfettamente concepibile che essa sia, in modo uguale e con la stessa validità, parte integrante sia dell’una che dell’altra, entrambe essendo espressioni di una sola e medesima verità. Conoscenze equivalenti possono, e anzi devono, ritrovarsi dappertutto; e per conoscenze che si equivalgono noi intendiamo conoscenze identiche nel fondo, ma presentate ed espresse in modi diversi per adattarsi alla particolare costituzione di questa o di quella forma tradizionale[4]. In questo senso si può dire che l’angelologia, o ciò che le è equivalente, quale che sia il nome con cui verrà secondo i casi designato, esiste in tutte le tradizioni; per fornire un esempio è sufficiente ricordare che nella tradizione indù i Dêva sono in realtà l’equivalente esatto degli angeli nelle tradizioni ebraica cristiana e islamica. In ogni caso non sarà inutile ripetere che ciò di cui stiamo trattando può venir definito come la parte di una dottrina tradizionale che si riferisce agli stati non formali, o superindividuali, della manifestazione, sia in modo esclusivamente teorico, sia in previsione di una effettiva realizzazione di questi stati stessi[5]. È evidente che si tratta di qualcosa che non ha, in sé, la minima relazione con qualsivoglia politeismo, anche se il politeismo, come abbiamo detto, può essere il risultato della sua incomprensione; sennonché, quando coloro che credono nell’esistenza di tradizioni politeiste parlano di «prestiti», come quelli di cui abbiamo dato testé qualche esempio, sembrano invece con ciò voler suggerire che l’angelologia non sarebbe che una «contaminazione» del politeismo nel monoteismo stesso! Come dire che, giacché l’idolatria può nascere da una incomprensione di certi simboli, il simbolismo non è che una derivazione dell’idolatria; tutto sommato si tratterebbe di un caso del tutto simile, e pensiamo che questo paragone sia pienamente sufficiente a fare apparire l’assurdità intrinseca di un tal modo di affrontare la questione.
A conclusione di queste osservazioni, destinate a completare il presente studio, citeremo un passo di Jacob Boehme, il quale, nella terminologia che gli è propria e in una forma forse un po’ oscura come spesso gli capita, ci pare esprimere correttamente le relazioni degli angeli con gli aspetti divini: «La creazione degli angeli ha un inizio, ma le forze dalle quali essi furono creati non ha mai conosciuto inizio, bensì esse assistevano alla nascita dall’eterno principio... Essi promanano dal Verbo rivelato, dalla natura eterna, tenebrosa, ignea e luminosa, dal desiderio della rivelazione divina, e furono trasformati in immagini “creaturate” (vale a dire scomposte in creature isolate)»[6]. Sempre Boehme, altrove, dice: «Ogni principe angelico è una proprietà uscita dalla voce di Dio, e porta il gran nome di Dio»[7]. A.K. Coomaraswamy, citando quest’ultima frase e accostandola a diversi testi riferentisi agli Dei, tanto nella tradizione greca quanto nella tradizione indù, aggiunge queste parole che si accordano completamente con quanto stiamo esponendo: «Ci occorre appena dire che simile molteplicità di Dei non è un politeismo, poiché essi tutti sono i sudditi angelici della Deità suprema da cui traggono la loro origine e nel quale, come così spesso viene ricordato, ritornano uno solo»[8].


[1] Vi è «associazione» quando si ammette che qualche cosa all’infuori del Principio, non importa di che genere, possieda una esistenza che gli appartiene in proprio; ovviamente, però, da ciò al politeismo propriamente detto possono esistere molteplici gradazioni.

[2] Quando si tratta veramente del Principio supremo occorrerebbe, a stretto rigore, parlare di «non dualità», giacché l’unità, che ne è del resto un’immediata conseguenza, si situa soltanto al livello dell’Essere; sennonché questa distinzione, pur avendo la più grande importanza secondo la prospettiva metafisica, non intacca minimamente il valore di quanto abbiamo qui espresso, e come possiamo generalizzare il senso del vocabolo «monoteismo», così possiamo pure e in modo correlativo, a semplificazione del linguaggio, parlare soltanto di unità del Principio.

[3] Cfr. Le Règne de la Quantité et les Signes des Temps, cap. XI. È alquanto difficile capire, inoltre, come qualcuno possa credere contemporaneamente in una «semplicità primitiva» e nel politeismo originario, e la cosa tuttavia succede; ecco un altro esempio caratteristico delle innumerevoli contraddizioni della mentalità moderna.

[4] Facemmo altrove allusione alla relazione che esiste tra l’angelologia e le lingue sacre delle diverse tradizioni; si tratta di un esempio tipico dell’adattamento di cui stiamo dicendo.

[5] Come esempio del primo caso si può citare la parte della teologia cristiana che ha attinenza con gli angeli (del resto, e più generalmente, l’exoterismo non può ovviamente porsi, a questo proposito, che dal solo punto di visto teorico), e come esempio del secondo, la «Cabbala pratica» nella tradizione ebraica.

[6] Mysterium Magnum, VIII, 1.

[7] De Signatura Rerum, XVI, 5. Quanto alla prima creazione o «uscita dalla voce di Dio», confrontare Considerazioni sulla Via iniziatica, cap. XLVII.


[8] «What is Civilization?» in Albert Schweitzer Festschrift. A.K. Coomaraswamy ricorda anche al proposito l’identificazione fatta da Filone degli angeli con le «Idee» intese nel senso platonico, vale a dire con le «Ragioni Eterne» contenute nell’intelletto divino, o, secondo il linguaggio della teologia cristiana, nel Verbo considerato quale «luogo dei possibili».

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