Aḥmad ibn ‘Ajība
Al-taṣawwuf
Il «sufismo», è la scienza per la quale si conoscono
le modalità del viaggio verso il Re dei re; è anche la
purificazione (taṣfiya) interiore dai vizi (radhā’il)
e l’abbellimento interiore di tutte le virtù (faḍā’il); o
l’annullamento (ghayba) della creatura, che essa sia immersa nella
visione (shuhūd) della Verità (Dio; al-Ḥaqq), o
che sia ritornata verso il mondo manifestato (al-athar)[1],[2].
Il suo esordio è «scienza» (‘ilm), il suo
mezzo «azione» (‘amal) e la sua fine «dono» (mawhiba)
[da parte di Dio].
Quanto alla parola stessa, essa deriva:
· o
da ṣafā’, la purezza, poiché il suo oggetto è la
purificazione (taṣfiya);
· o
da ṣifa, qualità, perché è qualificazione (ittiṣāf)
per mezzo delle perfezioni;
· o
da ṣuffa, la «panca» della moschea del Profeta, perché i sufi
assomigliano alle Genti della Panca[3] per la fermezza della loro orientazione [verso Dio] (tawajjuh)
e per la loro rinuncia al mondo (inqiṭā‘);
· o
da ṣūf, la lana, perché la maggioranza portava degli
indumenti di lana a dimostrazione del poco conto che essi facevano delle cose
di quaggiù e del loro distacco dal mondo, e anche ad imitazione dei Profeti che
si abbigliavano di lana[4].
Quest’ultima etimologia è la più conveniente dal
punto di vista linguistico, la quale corrisponde anche meglio al senso
letterale. In effetti, il vestito di lana è quello che cade sotto il giudizio
esteriore (ḥukm ẓāhir), fondato sull’apparenza, mentre
le altre derivazioni implicano un’interpretazione interiore (bāṭin);
ora, l’interpretazione esteriore è più diretta. Si
dice: «ha preso la ṣûf» (taṣawwafa) di qualcuno che si
è vestito di lana, come si dice: «taqammaṣa» di qualcuno che ha
indossato una camicia (qamīṣ), e si qualifica quest’uomo di «ṣūfī»[5].
Sahl [6] ha detto: «Il sufi è colui che è
puro (ṣafā) dall’agitazione (kadar), immerso
completamento nel pensiero (fikr) e ha rinunciato all’umano per il
Divino; colui per il quale l’oro e il fango hanno lo stesso valore», ossia che
non desidera nient’altro che il suo Signore e Padrone.
Al-Junayd ha detto: «Il sufi
è come la terra; vi si getta ogni rifiuto e non ne escono che cose buone.» Ha
detto anche: «Il sufi è come la terra, che percorrono l’innocente ed il colpevole, come il cielo che ombreggia ogni cosa, come
la pioggia che bagna tutto.»
Tratto da:
Aḥmad ibn
‘Ajība, Le soufi marocain Aḥmad ibn ‘Ajība
(1746-1809) et son Mi‘rāj; glossaire de la mystique musulmane - Traduzione annotata del Kitāb
mi‘rāj al-tashawwuf ilā ḥaqā’iq al-taṣawwuf «L’Ascension
du Regard vers les Réalités du Soufisme» de Aḥmad ibn ‘Ajība - Études
musulmanes XIV – Librairie Philosophique J. Vrin (Paris)
Pubblicato su Facebook da Nicola Migani per «Associazione La luna piena»
Pubblicato su Facebook da Nicola Migani per «Associazione La luna piena»
[1] Distinzione molto
importante tra due modi della realizzazione, rispettiva-mente designati tramite
l’«estinzione» (fanā’), dove l’uomo perde i suoi attributi di
creatura e la sua esistenza individuale per non essere nient’altro più che un uno specchio della luce essenziale, e
l’«estensione dell’estinzione» (fanā’ al-fanā’), o
«sussistenza» (baqā’) nella quale, dopo essersi estinta a se
stessa, la personalità torna alle cose con la visione della loro unità
essenziale e non le vede più che come delle manifestazioni o tracce (āthār)
dell’Unico. Questi due stati – che Ghazzālī designa con i
termini takhallī e taḥallī –
sono stati particolarmente analizzati nella Risāla fī’l-qaḍā’
wa’l-qadar di ‘Abd al-Razzāq
Kāshī (Kāshānī) (m. 730/1330): «Colui [il sufi] che
perviene a collegare direttamente le azioni a Dio, attraverso la contemplazione
della Sua Unità, facendone astrazione da ogni relazione, e sopprimendone le
cause e gli effetti … quello ripiega la creazione come un tappeto … e si
assorbe nell’Essenza dell’Essere (Dio); ma resta egli stesso nell’annullamento
(della sua personalità) e non può ottenere allo stesso tempo la visione del
mondo creato … la luce del Suo Splendore gli nasconde l’ombra della Sua Maestà,
i lumi del Suo Volto e della Sua Essenza non gli permettono di vedere le
tenebre dei Suoi Attributi. La molteplicità scompare per lui, nella sua estasi,
ed egli ignora la sua propria esistenza … Poi, quando
rientra dalla sua estasi alla perfezione del mondo esteriore, e che vede i
dettagli nell’Essenza del Tutto (Dio), la visione della Verità (Dio) non gli vela
quella della creazione, né la visione della creazione quella della Verità. La
contemplazione dei suoi attributi non lo distraggono
da quella dell’Essenza, né la contemplazione dell’Essenza da quella dei suoi
attributi. Lo Splendore di Dio non gli deruba la Maestà, e la Maestà non ne
deruba lo splendore. Il sufi è quindi pervenuto allo stato della grande
felicità (al-fawz al-kabīr)» (Citato da A. Chédel, Le
Soufisme, pp. 79-80) (cf. anche supra, p. 59 n. 7 e più
avanti, rubriche 76 e 77, 80 e 81,
e note 94.2, 134.1).
[2] La parola athar «vestigio», «traccia», che Ibn ‘Ajība
impiegata qui al singolare, è un termine tecnico spesso messo al plurale
(āthār). È sotto questa forma che Jurjānī (Ta‘rīfāt)
lo definisce come «ciò che deriva necessariamente da
una cosa che ne è la causa efficiente (hiya al-lawāzim al-mu‘allala bi
sha’y)». Per i sufi, Dio è presente nelle Sue tracce, da cui la necessaria «unicità» di queste. Ḥallāj ha detto: «Se voi non Lo conoscete, conoscete le sue tracce! ed io, sono questa traccia». (Ṭawāsīn,
VI, 23; ed. Massignon, p. 51).
[3] Le genti della Panca o
della Veranda (ahl al-Ṣuffa) erano dei poveri Emigrati che non
possedevano né amici né domicilio fisso. Il Profeta testimoniava loro dei riguardi del tutto particolari,
invitandone ogni giorno qualcuno alla sua tavola. Essi si mantenevano
costantemente in orazione su una panchina (sotto una veranda) nella moschea di
Medina e ricevendo le elemosine e frutti di palme da dattero della moschea. Lo
storico Abū’l-Fidā disse che erano in numero di quaranta. Secondo
altre fonti, si parla di novanta o anche quattrocento (Suhrawardī). L’esempio
del loro denudamento esteriore, che accompagnava spesso una grande conoscenza
in materia religiosa ed una vera santità, è evocata
nella maggior parte dei manuali di sufismo. Tra i più celebri, si può citare
Abū Hurayra, «il padre della gattina», uno dei primi dottori dell’Islam,
di cui la prodigiosa memoria ebbe registrato, oltre l’intero Corano, migliaia
di parole del Profeta; Salmân il Persiano, nato ed
allevato nella religione di Zoroastro, divenuto discepolo di monaci cristiani
in Siria, venduto come schiavo ad un ebreo di Medina e qui, sentendo per la
prima volta parlare di Muḥammad, cadde dalla gioia da una palma su cui
era salito; Bilāl, lo schiavo nero, suppliziato dal suo padrone per aver
adottato la fede islamica, divenuto il primo muezzin dell’Islam (v. articolo E.I.2).
[4] A queste derivazioni,
si possono aggiungere le due seguenti, menzionate da Kalābādhī (Ta‘arruf):
- de ṣaff (rango)
«perché essi (i sufi) sono al primo rango davanti a Dio»;
- e,
citando Bundār Ibn al-Ḥusayn: «Il ṣūfī è
l’uomo che Dio ha scelto per Se stesso, ricambiandogli un affetto sincero (ṣāfā)
… Così, egli è “fatto amico” (ṣūfī)» (participio passivo
di ṣāfā).
Nel X s.,
Birūnī ebbe emesso l’opinione che ṣūfī fosse
derivato da sofos, Saggezza Divina degli Antichi Greci, e questa opinione fu talvolta ripresa (Depont & Coppolani, Confréries,
p. 78 e, più tardi, Merx); tuttavia Burckhardt (Introduction, p. 15)
fece giustamente notare che sigma in arabo si trascrive
con sīn (s) e non ṣād (ṣ);
egli aggiunge però che possa aversi un’«assonanza voluta e simbolica».
[5] Nel Kitāb
al-Luma‘ (ed. Caire 1380/1960, p. 40-43), Sarrāj espone in
dettaglio perché i sufi sono chiamati secondo l’apparenza di un abito. La
ragione ne è che loro non si distinguono per alcuna scienza ad
esclusione di un’altra, per alcuno stato, alcuna stazione, alcuna virtù
particolari; essi sono la miniera di tutte le scienze, il luogo di tutte le
qualità, quelli che si muovono (intiqāl) da uno stato all’altro
«con Dio». A coloro che pretendono che la parola «ṣūfī»
sia nuova (muḥdath), risponde: 1o) che i Compagni del
Profeta non potevano chiamarsi diversamente da «Compagni» poiché non vi è
qualità più nobile della «compagnia» (ṣuḥba) dell’Inviato di
Dio; 2o) che la parola «ṣūfī » era già
nota ai tempi di Ḥasan al-Baṣrī (m. 110/728) dunque nel I
secolo dell’Égira; secondo Ibn Isḥāq (Akhbār Makka), fu
anche impiegato prima dell’Islam per designare gli uomini virtuosi (ahl
al-faḍl wa’l-ṣalāḥ).
Tutti questi argomenti, ed altri ancora, figurano, con l’appoggio di isnād,
nei ‘Awārif al-Ma‘ārif di Suhrawardī, ed. Caire
1358/1939, pp. 45-49.
[6] Sahl al-Tustarī, teologo
e mistico, primo maestro di Ḥallāj, nato a Tostar, Persia, morto nel
283/896 (v. art. E.I.1).
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