"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

domenica 8 febbraio 2015

Aḥmad ibn ‘Ajība, Al-taṣawwuf

Aḥmad ibnAjība
Al-taṣawwuf

Il «sufismo», è la scienza per la quale si conoscono le modalità del viaggio verso il Re dei re; è anche la purificazione (taṣfiya) interiore dai vizi (radhā’il) e l’abbellimento interiore di tutte le virtù (faḍā’il); o l’annullamento (ghayba) della creatura, che essa sia immersa nella visione (shuhūd) della Verità (Dio; al-Ḥaqq), o che sia ritornata verso il mondo manifestato (al-athar)[1],[2].
Il suo esordio è «scienza» (‘ilm), il suo mezzo «azione» (‘amal) e la sua fine «dono» (mawhiba) [da parte di Dio].
Quanto alla parola stessa, essa deriva:
·         o da ṣafā’, la purezza, poiché il suo oggetto è la purificazione (taṣfiya);
·         o da ṣifa, qualità, perché è qualificazione (ittiṣāf) per mezzo delle perfezioni;
·         o da ṣuffa, la «panca» della moschea del Profeta, perché i sufi assomigliano alle Genti della Panca[3] per la fermezza della loro orientazione [verso Dio] (tawajjuh) e per la loro rinuncia al mondo (inqiṭā‘);
·         o da ṣūf, la lana, perché la maggioranza portava degli indumenti di lana a dimostrazione del poco conto che essi facevano delle cose di quaggiù e del loro distacco dal mondo, e anche ad imitazione dei Profeti che si abbigliavano di lana[4].
Quest’ultima etimologia è la più conveniente dal punto di vista linguistico, la quale corrisponde anche meglio al senso letterale. In effetti, il vestito di lana è quello che cade sotto il giudizio esteriore (ḥukm ẓāhir), fondato sull’apparenza, mentre le altre derivazioni implicano un’interpretazione interiore (bāṭin); ora, l’interpretazione esteriore è più diretta. Si dice: «ha preso la ṣûf» (taṣawwafa) di qualcuno che si è vestito di lana, come si dice: «taqammaṣa» di qualcuno che ha indossato una camicia (qamīṣ), e si qualifica quest’uomo di «ṣūfī»[5].
Sahl [6] ha detto: «Il sufi è colui che è puro (ṣafā) dall’agitazione (kadar), immerso completamento nel pensiero (fikr) e ha rinunciato all’umano per il Divino; colui per il quale l’oro e il fango hanno lo stesso valore», ossia che non desidera nient’altro che il suo Signore e Padrone.
Al-Junayd ha detto: «Il sufi è come la terra; vi si getta ogni rifiuto e non ne escono che cose buone.» Ha detto anche: «Il sufi è come la terra, che percorrono l’innocente ed il colpevole, come il cielo che ombreggia ogni cosa, come la pioggia che bagna tutto.»

Tratto da: Aḥmad ibnAjība, Le soufi marocain Aḥmad ibn ‘Ajība (1746-1809) et son Mi‘rāj; glossaire de la mystique musulmane  - Traduzione annotata del Kitāb mi‘rāj al-tashawwuf ilā ḥaqā’iq al-taṣawwuf «L’Ascension du Regard vers les Réalités du Soufisme» de Aḥmad ibn ‘Ajība - Études musulmanes XIV – Librairie Philosophique J. Vrin (Paris) 
Pubblicato su Facebook da Nicola Migani per «Associazione La luna piena»




[1] Distinzione molto importante tra due modi della realizzazione, rispettiva-mente designati tramite l’«estinzione» (fanā’), dove l’uomo perde i suoi attributi di creatura e la sua esistenza individuale per non essere nient’altro più che un uno specchio della luce  essenziale, e l’«estensione dell’estinzione» (fanā’ al-fanā’), o «sussistenza» (baqā’) nella quale, dopo essersi estinta a se stessa, la personalità torna alle cose con la visione della loro unità essenziale e non le vede più che come delle manifestazioni o tracce (āthār) dell’Unico. Questi due stati – che Ghazzālī designa con i termini takhallī e taḥallī – sono stati particolarmente analizzati nella Risāla fī’l-qaḍā’ wa’l-qadar di ‘Abd al-Razzāq Kāshī (Kāshānī) (m. 730/1330): «Colui [il sufi] che perviene a collegare direttamente le azioni a Dio, attraverso la contemplazione della Sua Unità, facendone astrazione da ogni relazione, e sopprimendone le cause e gli effetti … quello ripiega la creazione come un tappeto … e si assorbe nell’Essenza dell’Essere (Dio); ma resta egli stesso nell’annullamento (della sua personalità) e non può ottenere allo stesso tempo la visione del mondo creato … la luce del Suo Splendore gli nasconde l’ombra della Sua Maestà, i lumi del Suo Volto e della Sua Essenza non gli permettono di vedere le tenebre dei Suoi Attributi. La molteplicità scompare per lui, nella sua estasi, ed egli ignora la sua propria esistenza … Poi, quando rientra dalla sua estasi alla perfezione del mondo esteriore, e che vede i dettagli nell’Essenza del Tutto (Dio), la visione della Verità (Dio) non gli vela quella della creazione, né la visione della creazione quella della Verità. La contemplazione dei suoi attributi non lo distraggono da quella dell’Essenza, né la contemplazione dell’Essenza da quella dei suoi attributi. Lo Splendore di Dio non gli deruba la Maestà, e la Maestà non ne deruba lo splendore. Il sufi è quindi pervenuto allo stato della grande felicità (al-fawz al-kabīr)» (Citato da A. Chédel, Le Soufisme, pp. 79-80) (cf. anche supra, p. 59 n. 7 e più avanti, rubriche 76 e 77, 80 e 81, e note 94.2, 134.1).

[2] La parola athar «vestigio», «traccia», che Ibn ‘Ajība impiegata qui al singolare, è un termine tecnico spesso messo al plurale (āthār). È sotto questa forma che Jurjānī (Ta‘rīfāt) lo definisce come «ciò che deriva necessariamente da una cosa che ne è la causa efficiente (hiya al-lawāzim al-mu‘allala bi sha’y)». Per i sufi, Dio è presente nelle Sue tracce, da cui la necessaria «unicità» di queste. Ḥallāj ha detto: «Se voi non Lo conoscete, conoscete le sue tracce! ed io, sono questa traccia». (Ṭawāsīn, VI, 23; ed. Massignon, p. 51).

[3] Le genti della Panca o della Veranda (ahl al-Ṣuffa) erano dei poveri Emigrati che non possedevano né amici né domicilio fisso. Il Profeta testimoniava loro dei riguardi del tutto particolari, invitandone ogni giorno qualcuno alla sua tavola. Essi si mantenevano costantemente in orazione su una panchina (sotto una veranda) nella moschea di Medina e ricevendo le elemosine e frutti di palme da dattero della moschea. Lo storico Abū’l-Fidā disse che erano in numero di quaranta. Secondo altre fonti, si parla di novanta o anche quattrocento (Suhrawardī). L’esempio del loro denudamento esteriore, che accompagnava spesso una grande conoscenza in materia religiosa ed una vera santità, è evocata nella maggior parte dei manuali di sufismo. Tra i più celebri, si può citare Abū Hurayra, «il padre della gattina», uno dei primi dottori dell’Islam, di cui la prodigiosa memoria ebbe registrato, oltre l’intero Corano, migliaia di parole del Profeta; Salmân il Persiano, nato ed allevato nella religione di Zoroastro, divenuto discepolo di monaci cristiani in Siria, venduto come schiavo ad un ebreo di Medina e qui, sentendo per la prima volta parlare di Muḥammad, cadde dalla gioia da una palma su cui era salito; Bilāl, lo schiavo nero, suppliziato dal suo padrone per aver adottato la fede islamica, divenuto il primo muezzin dell’Islam (v. articolo E.I.2).

[4] A queste derivazioni, si possono aggiungere le due seguenti, menzionate da Kalābādhī (Ta‘arruf):
-         de ṣaff (rango) «perché essi (i sufi) sono al primo rango davanti a Dio»;
-         e, citando Bundār Ibn al-Ḥusayn: «Il ṣūfī è l’uomo che Dio ha scelto per Se stesso, ricambiandogli un affetto sincero (ṣāfā) … Così, egli è “fatto amico” (ṣūfī)» (participio passivo di ṣāfā).
Nel X s., Birūnī ebbe emesso l’opinione che ṣūfī fosse derivato da sofos, Saggezza Divina degli Antichi Greci, e questa opinione fu talvolta ripresa (Depont & Coppolani, Confréries, p. 78 e, più tardi, Merx); tuttavia Burckhardt (Introduction, p. 15) fece giustamente notare che sigma in arabo si trascrive con sīn (s) e non ṣād (); egli aggiunge però che possa aversi un’«assonanza voluta e simbolica».


[5] Nel Kitāb al-Luma‘ (ed. Caire 1380/1960, p. 40-43), Sarrāj espone in dettaglio perché i sufi sono chiamati secondo l’apparenza di un abito. La ragione ne è che loro non si distinguono per alcuna scienza ad esclusione di un’altra, per alcuno stato, alcuna stazione, alcuna virtù particolari; essi sono la miniera di tutte le scienze, il luogo di tutte le qualità, quelli che si muovono (intiqāl) da uno stato all’altro «con Dio». A coloro che pretendono che la parola «ṣūfī» sia nuova (muḥdath), risponde: 1o) che i Compagni del Profeta non potevano chiamarsi diversamente da «Compagni» poiché non vi è qualità più nobile della «compagnia» (ṣuḥba) dell’Inviato di Dio; 2o) che la parola «ṣūfī » era già nota ai tempi di Ḥasan al-Baṣrī (m. 110/728) dunque nel I secolo dell’Égira; secondo Ibn Isḥāq (Akhbār Makka), fu anche impiegato prima dell’Islam per designare gli uomini virtuosi (ahl al-faḍl wa’l-ṣalāḥ).

Tutti questi argomenti, ed altri ancora, figurano, con l’appoggio di isnād, nei ‘Awārif al-Ma‘ārif di Suhrawardī, ed. Caire 1358/1939, pp. 45-49.

[6] Sahl al-Tustarī, teologo e mistico, primo maestro di Ḥallāj, nato a Tostar, Persia, morto nel 283/896 (v. art. E.I.1).

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