"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

sabato 14 febbraio 2015

René Guénon, Forme tradizionali e cicli cosmici - cap. Il «Siphra di-Tzeniutha»

René Guénon
Forme tradizionali e cicli cosmici
 

Il «Siphra di-Tzeniutha»[1]

Paul Vulliaud ha appena dato alle stampe, primo di una serie di «testi fondamentali della Cabala», una traduzione del Siphra di-Tzeniutha, facendolo precedere da una lunga introduzione, molto più lunga dello stesso testo tradotto, anzi dei due testi tradotti, perché, in realtà, nel volume in questione vi sono due versioni successive del testo, una letterale e l’altra parafrasata.
Tale introduzione sembra volta soprattutto a dimostrare l’utilità di questo lavoro, anche dopo lo Zohar di Jean de Pauly; gran parte di esso è così dedicata ad una storia particolareggiata della citata traduzione francese dello Zohar, storia nella quale, a quanto pare, non viene tralasciato quasi nulla della vita dello stesso traduttore, personaggio in verità molto enigmatico, sulle cui origini non si è ancora fatto luce definitivamente. Tutta la narrazione è molto strana e, per spiegarci le lacune e le imperfezioni di quest’opera, non è senza importanza sapere in quali condizioni fu realizzata e quali strane difficoltà ebbe l’editore con il povero Jean de Pauly, un po’ affetto da manie di persecuzione. Tuttavia, ci permettiamo di osservare che questi particolari occupano qui troppo spazio; leggendone, quasi vien fatto di rimpiangere che il Vulliaud non si sia dedicato a quella che potremmo definire una storiografia minore, poiché certamente vi avrebbe portato un estro fuori dell’ordinario; ma gli studi cabalistici avrebbero perso molto.
Quanto allo stato attuale di questi studi, nella stessa introduzione si trovano delle considerazioni generali, nel corso delle quali il Vulliaud se la prende, come sa fare, con i «Dottori», cioè con gli studiosi «ufficiali» ai quali aveva già detto delle dure verità nella sua Kabbale Juive, e poi con un gesuita, padre Bonsirven, che certuni a quanto sembra si sforzano attualmente di presentare come la massima autorità in materia di Giudaismo. Questa discussione offre l’occasione per alcune osservazioni molto interessanti, in particolare sui procedimenti dei Cabalisti e sul loro modo – giudicato «stupefacente» dai critici – di citare i testi delle Scritture. Il Vulliaud, a questo proposito, aggiunge: «L’esegesi contemporanea si è in specie dimostrata incapace di analizzare convenientemente le “citazioni” dei Vangeli, perché essa ha deciso di ignorare i procedimenti dell’ermeneutica ebraica; bisogna invece trasportarsi in Palestina, poiché è in questa regione che è stata elaborata l’opera evangelica». Tale affermazione, almeno tendenzialmente, sembra accordarsi con gli studi di un altro gesuita, padre Marcel Jousse; ed è un peccato che quest’ultimo non sia menzionato, perché sarebbe stato stimolante il confronto con il suo confratello... D’altra parte, il Vulliaud osserva molto giustamente che i Cattolici, i quali mettono in ridicolo le formule magiche o sedicenti tali delle opere cabalistiche, e che si affrettano a qualificarle «superstiziose», dovrebbero ben accorgersi che i loro rituali sono pieni di cose dello stesso genere. Analogamente, per quanto riguarda l’accusa di «erotismo» e di «oscenità» lanciata contro un certo genere di simbolismo: «I critici di religione cattolica dovrebbero riflettere, prima di aggiungere le loro voci a quelle dei Giudei e dei Protestanti razionalisti, sul fatto che la teologia cattolica è suscettibile, come la Cabala, di esser messa agevolmente in ridicolo, a proposito di quanto ci stiamo occupando». È un bene che queste cose siano dette da uno scrittore che fa professione di Cattolicesimo; e specialmente taluni antisemiti e antimassoni fanatici dovrebbero trarre profitto da questa eccellente lezione.
Molti altri dettagli ci sarebbero da segnalare nell’introduzione, particolarmente circa l’interpretazione cristiana dello Zohar: il Vulliaud avanza delle giuste riserve su alcuni accostamenti alquanto forzati, stabiliti dal Drach e accettati da Jean de Pauly. Torna anche sulla questione dell’antichità dello Zohar, che gli avversari della Cabala si ostinano a contestare, sulla base di argomentazioni infondate. Ma c’è un’altra cosa che sottolineiamo con piacere: il Vulliaud dichiara che «per tradurre convenientemente taluni passi essenziali, sarebbe stato necessario essere iniziati ai misteri dell’esoterismo ebraico» e che «de Pauly ha affrontato la traduzione dello Zohar senza possedere tale iniziazione»; più oltre, nota che il Vangelo di San Giovanni, così come l’Apocalisse, «era rivolto a degli iniziati»; e si potrebbero trovare ancora altre frasi del genere. Vi è dunque, nel Vulliaud, un certo mutamento di atteggiamento di cui non possiamo che rallegrarci, perché, fino a questo momento, sembrava provare strani scrupoli a pronunciare la parola «iniziazione», o almeno, quando ne parlava, era soltanto per prendersi gioco di certi «iniziati» che, per evitare spiacevoli confusioni, avrebbe fatto meglio a qualificare piuttosto «pseudo-iniziati». Quanto abbiamo riportato poco sopra dei suoi scritti è l’esatta verità: a proposito della Cabala, così come per ogni altro esoterismo veramente degno di questo nome, si tratta di «iniziazione», nel senso proprio della parola; e riteniamo di dover aggiungere che la cosa va ben oltre la decifrazione di una sorta di crittografia, come invece sembra pensare soprattutto il Vulliaud, quando ne tratta come abbiamo appena visto. Senza dubbio, è anche questione di decifrazione, quindi soltanto di forma esteriore, che peraltro è lungi dall’essere trascurabile, poiché costituisce il passaggio obbligato per arrivare alla comprensione della dottrina; tuttavia, non bisogna confondere i mezzi con il fine, né porli sullo stesso piano.
Comunque, è ben certo che i Cabalisti, il più delle volte, possono parlare in realtà di cose ben diverse da quelle di cui sembrano parlare, e tali procedimenti non sono affatto loro particolari, poiché si trovano anche nel Medioevo occidentale; abbiamo avuto occasione di constatarlo a proposito di Dante e dei «Fedeli d’Amore», e ne abbiamo indicato allora le principali ragioni, che non sono tutte di semplice prudenza, come possono essere tentati di supporre i «profani» La stessa cosa si verifica anche nell’esoterismo islamico, ed è sviluppata ad un punto tale, che nessuno, crediamo, può averne idea nel mondo occidentale; d’altronde, la lingua araba, così come quella ebraica, vi si presta mirabilmente. Qui non si trova soltanto quel simbolismo – il più frequente – che Luigi Valli, nell’opera di cui abbiamo parlato, ha mostrato essere comune ai Sufi e ai «Fedeli d’Amore»[2]; c’è qualcosa di molto meglio: è concepibile, per degli occidentali, che un semplice trattato di grammatica o di geografia, o addirittura di commercio, possieda al tempo stesso un altro significato che ne fa un’opera iniziatica di alto valore? Eppure è così, e quelli appena citati non sono esempi dati a caso: si tratta di libri che esistono effettivamente e che abbiamo ora fra le mani.
Queste considerazioni ci inducono a formulare una piccola critica, riguardo alla traduzione fatta dal Vulliaud dello stesso titolo Siphra di-Tzeniutha: egli scrive «Libro Segreto» e non «Libro del Segreto», e le giustificazioni che adduce ci sembrano poco concludenti. È davvero puerile immaginarsi, come pur qualcuno ha fatto, che «questo titolo ricordava la fuga di Simeone ben Yohai, nel corso della quale questo rabbino avrebbe composto in segreto l’opuscolo in questione»; e non si riferisce affatto a ciò il titolo «Libro del Segreto», che in realtà ha un significato molto più elevato e profondo che non quello di «Libro Segreto». Vogliamo alludere qui all’importanza che riveste in talune tradizioni iniziatiche, quelle stesse di cui ci stiamo occupando ora, la nozione di «segreto» (sôd in ebraico, sirr in arabo) che non ha nulla a che vedere con la discrezione o con la dissimulazione, ma che è tale per la stessa natura delle cose; a questo proposito, dobbiamo forse ricordare che la stessa Chiesa cristiana, nel suo primo periodo, aveva una «disciplina del segreto», e che la parola «mistero», nel significato originario, designa propriamente ciò che è inesprimibile?
Quanto alla traduzione vera e propria, abbiamo detto che vi erano due versioni, le quali non costituiscono però un doppione, perché quella letterale, per quanto utile, per chi volesse riferirsi al testo e seguirlo da vicino, è spesso inintelligibile. Del resto accade sempre così, come abbiamo detto più volte, quando si tratta di libri sacri o di altri scritti tradizionali e, se una traduzione deve essere fatta necessariamente «parola per parola», in maniera scolastica e universitaria, talune espressioni si dovrebbero dichiarare veramente intraducibili. In realtà, per noi che ci poniamo da un punto di vista ben diverso da quello degli studiosi di linguistica, è la versione parafrasata e commentata quella che costituisce il senso del testo e ne permette la comprensione, laddove la versione «letterale» produce talvolta l’effetto di una sorta di «logogrifo», come dice il Vulliaud, o di divagazione incoerente. Ci dispiace soltanto che il commento non sia più esteso e più esplicito; le note, sebbene numerose e molto interessanti, non sono sempre sufficientemente «chiarificatrici», per così dire, e c’è da temere che esse non possano essere comprese da chi non abbia della Cabala una conoscenza più che elementare. Tuttavia sarà certamente opportuno attendere il prosieguo di questi «testi fondamentali», che, speriamo, completerà felicemente questo primo volume. Il Vulliaud ora dovrebbe darci e dare a se stesso un lavoro similare sull’Iddra Rabba e sull’Iddra Zuta, che, con il Siphra di-Tzeniutha, come egli stesso dice, lungi dall’essere semplicemente «delle aggiunte o delle appendici» dello Zohar, «ne costituiscono, al contrario, le parti centrali», quelle che in qualche modo, nella forma più concentrata, racchiudono l’essenza della dottrina.



[1] Articolo pubblicato su Le Voile d’Isis, dicembre 1930. [N.d.C.]


[2] [Si tratta di Il linguaggio segreto di Dante e dei «Fedeli d’Amore» (Optima, Roma 1928), che Guénon recensisce ampiamente su Le Voile d’Isis del febbraio 1929. L’articolo è stato tradotto nella Rivista di Studi Tradizionali, n. 28, luglio-settembre 1968 – N.d.R.]

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