Forme tradizionali e cicli cosmici
Paul Vulliaud ha appena dato alle stampe, primo di una serie
di «testi fondamentali della Cabala», una traduzione del Siphra di-Tzeniutha, facendolo precedere da una lunga introduzione,
molto più lunga dello stesso testo tradotto, anzi dei
due testi tradotti, perché, in realtà, nel volume in questione vi sono due
versioni successive del testo, una letterale e l’altra parafrasata.
Tale
introduzione sembra volta soprattutto a dimostrare l’utilità di questo lavoro,
anche dopo lo Zohar di Jean de Pauly;
gran parte di esso è così dedicata ad una storia
particolareggiata della citata traduzione francese dello Zohar, storia nella quale, a quanto pare, non viene tralasciato
quasi nulla della vita dello stesso traduttore, personaggio in verità molto
enigmatico, sulle cui origini non si è ancora fatto luce definitivamente. Tutta
la narrazione è molto strana e, per spiegarci le lacune e le imperfezioni di
quest’opera, non è senza importanza sapere in quali condizioni fu realizzata e
quali strane difficoltà ebbe l’editore con il povero Jean de Pauly, un po’
affetto da manie di persecuzione. Tuttavia, ci permettiamo di osservare che
questi particolari occupano qui troppo spazio; leggendone, quasi vien fatto di rimpiangere che il Vulliaud non si sia
dedicato a quella che potremmo definire una storiografia minore, poiché
certamente vi avrebbe portato un estro fuori dell’ordinario; ma gli studi
cabalistici avrebbero perso molto.
Quanto allo stato attuale di questi studi, nella stessa
introduzione si trovano delle considerazioni generali, nel corso delle quali il Vulliaud se la prende, come sa fare, con i
«Dottori», cioè con gli studiosi «ufficiali» ai quali aveva già detto delle
dure verità nella sua Kabbale Juive,
e poi con un gesuita, padre Bonsirven, che certuni a quanto sembra si sforzano
attualmente di presentare come la massima autorità in materia di Giudaismo.
Questa discussione offre l’occasione per alcune osservazioni molto
interessanti, in particolare sui procedimenti dei Cabalisti e sul loro modo
– giudicato «stupefacente» dai critici –
di citare i testi delle Scritture. Il Vulliaud, a questo proposito, aggiunge: «L’esegesi contemporanea si è in specie dimostrata incapace
di analizzare convenientemente le “citazioni” dei Vangeli, perché essa ha deciso di ignorare i procedimenti
dell’ermeneutica ebraica; bisogna invece trasportarsi in Palestina, poiché è in
questa regione che è stata elaborata l’opera evangelica». Tale affermazione,
almeno tendenzialmente, sembra accordarsi con gli studi di un altro gesuita,
padre Marcel Jousse; ed è un peccato che quest’ultimo non sia menzionato,
perché sarebbe stato stimolante il confronto con il
suo confratello... D’altra parte, il Vulliaud osserva molto giustamente che i
Cattolici, i quali mettono in ridicolo le formule magiche o sedicenti tali
delle opere cabalistiche, e che si affrettano a qualificarle «superstiziose»,
dovrebbero ben accorgersi che i loro rituali sono pieni di cose dello stesso
genere. Analogamente, per quanto riguarda l’accusa di «erotismo» e di
«oscenità» lanciata contro un certo genere di simbolismo: «I
critici di religione cattolica dovrebbero riflettere, prima di aggiungere le
loro voci a quelle dei Giudei e dei Protestanti razionalisti, sul fatto che la
teologia cattolica è suscettibile, come la Cabala, di esser messa agevolmente
in ridicolo, a proposito di quanto ci stiamo occupando». È un bene che queste
cose siano dette da uno scrittore che fa professione di Cattolicesimo; e
specialmente taluni antisemiti e antimassoni fanatici dovrebbero trarre
profitto da questa eccellente lezione.
Molti altri dettagli ci sarebbero da segnalare
nell’introduzione, particolarmente circa l’interpretazione cristiana dello Zohar: il Vulliaud avanza delle giuste
riserve su alcuni accostamenti alquanto forzati, stabiliti dal Drach e
accettati da Jean de Pauly. Torna anche sulla questione dell’antichità dello Zohar, che gli avversari della Cabala si
ostinano a contestare, sulla base di argomentazioni
infondate. Ma c’è un’altra cosa che sottolineiamo con
piacere: il Vulliaud dichiara che «per tradurre convenientemente taluni passi
essenziali, sarebbe stato necessario essere iniziati ai misteri dell’esoterismo
ebraico» e che «de Pauly ha affrontato la traduzione dello Zohar senza possedere tale iniziazione»; più oltre, nota che il Vangelo di San Giovanni, così come l’Apocalisse, «era rivolto a degli
iniziati»; e si potrebbero trovare ancora altre frasi del genere. Vi è dunque,
nel Vulliaud, un certo mutamento di atteggiamento di cui non possiamo che
rallegrarci, perché, fino a questo momento, sembrava provare strani scrupoli a
pronunciare la parola «iniziazione», o almeno, quando ne parlava, era soltanto
per prendersi gioco di certi «iniziati» che, per evitare spiacevoli confusioni,
avrebbe fatto meglio a qualificare piuttosto «pseudo-iniziati».
Quanto abbiamo riportato poco sopra dei suoi scritti è
l’esatta verità: a proposito della Cabala, così come per ogni altro esoterismo
veramente degno di questo nome, si tratta di «iniziazione», nel senso proprio
della parola; e riteniamo di dover aggiungere che la cosa va ben oltre la
decifrazione di una sorta di crittografia, come invece sembra pensare
soprattutto il Vulliaud, quando ne tratta come abbiamo appena visto. Senza
dubbio, è anche questione di decifrazione, quindi soltanto di forma esteriore,
che peraltro è lungi dall’essere trascurabile, poiché costituisce il passaggio
obbligato per arrivare alla comprensione della dottrina; tuttavia, non bisogna
confondere i mezzi con il fine, né porli sullo stesso piano.
Comunque, è ben certo che i Cabalisti, il più delle volte,
possono parlare in realtà di cose ben diverse da quelle di cui sembrano parlare,
e tali procedimenti non sono affatto loro particolari,
poiché si trovano anche nel Medioevo occidentale; abbiamo avuto occasione di
constatarlo a proposito di Dante e dei «Fedeli d’Amore», e ne abbiamo indicato
allora le principali ragioni, che non sono tutte di semplice prudenza, come
possono essere tentati di supporre i «profani» La stessa cosa si verifica anche
nell’esoterismo islamico, ed è sviluppata ad un punto tale, che nessuno,
crediamo, può averne idea nel mondo occidentale; d’altronde, la lingua araba,
così come quella ebraica, vi si presta mirabilmente. Qui non si trova soltanto
quel simbolismo – il più frequente – che
Luigi Valli, nell’opera di cui abbiamo parlato, ha mostrato essere comune ai Sufi e ai «Fedeli d’Amore»[2]; c’è qualcosa di molto meglio: è concepibile, per degli
occidentali, che un semplice trattato di grammatica o di geografia, o
addirittura di commercio, possieda al tempo stesso un altro significato che ne
fa un’opera iniziatica di alto valore? Eppure è così, e quelli appena citati
non sono esempi dati a caso: si tratta di libri che esistono effettivamente e
che abbiamo ora fra le mani.
Queste considerazioni ci inducono a formulare una piccola
critica, riguardo alla traduzione fatta dal Vulliaud dello stesso titolo Siphra di-Tzeniutha: egli scrive «Libro
Segreto» e non «Libro del Segreto», e le giustificazioni che adduce
ci sembrano poco concludenti. È davvero puerile immaginarsi, come pur qualcuno
ha fatto, che «questo titolo ricordava la fuga di Simeone ben Yohai, nel corso
della quale questo rabbino avrebbe composto in segreto l’opuscolo in
questione»; e non si riferisce affatto a ciò il titolo
«Libro del Segreto», che in realtà ha un significato molto più elevato e
profondo che non quello di «Libro Segreto». Vogliamo alludere qui
all’importanza che riveste in talune tradizioni iniziatiche, quelle stesse di
cui ci stiamo occupando ora, la nozione di «segreto» (sôd in ebraico, sirr in
arabo) che non ha nulla a che vedere con la discrezione o con la
dissimulazione, ma che è tale per la stessa natura delle cose; a questo
proposito, dobbiamo forse ricordare che la stessa Chiesa cristiana, nel suo
primo periodo, aveva una «disciplina del segreto», e che la parola «mistero», nel significato originario, designa propriamente
ciò che è inesprimibile?
Quanto alla traduzione vera e propria, abbiamo detto che vi
erano due versioni, le quali non costituiscono però un
doppione, perché quella letterale, per quanto utile, per chi volesse riferirsi
al testo e seguirlo da vicino, è spesso inintelligibile. Del resto accade
sempre così, come abbiamo detto più volte, quando si tratta di libri sacri o di
altri scritti tradizionali e, se una traduzione deve essere fatta
necessariamente «parola per parola», in maniera
scolastica e universitaria, talune espressioni si dovrebbero dichiarare
veramente intraducibili. In realtà, per noi che ci poniamo da un punto di vista
ben diverso da quello degli studiosi di linguistica, è la versione parafrasata
e commentata quella che costituisce il senso del testo e ne permette la
comprensione, laddove la versione «letterale» produce talvolta l’effetto di una
sorta di «logogrifo», come dice il Vulliaud, o di
divagazione incoerente. Ci dispiace soltanto che il commento non sia più esteso
e più esplicito; le note, sebbene numerose e molto interessanti, non sono sempre sufficientemente «chiarificatrici», per così
dire, e c’è da temere che esse non possano essere comprese da chi non abbia
della Cabala una conoscenza più che elementare. Tuttavia sarà certamente
opportuno attendere il prosieguo di questi «testi
fondamentali», che, speriamo, completerà felicemente questo primo volume. Il
Vulliaud ora dovrebbe darci e dare a se stesso un lavoro similare sull’Iddra Rabba e sull’Iddra Zuta, che, con il Siphra
di-Tzeniutha, come egli stesso dice, lungi
dall’essere semplicemente «delle aggiunte o delle appendici» dello Zohar, «ne costituiscono, al contrario,
le parti centrali», quelle che in qualche modo, nella forma più concentrata,
racchiudono l’essenza della dottrina.
[1] Articolo pubblicato su Le Voile d’Isis, dicembre 1930. [N.d.C.]
[2] [Si tratta di Il linguaggio segreto di Dante e dei «Fedeli
d’Amore» (Optima, Roma 1928), che Guénon recensisce ampiamente su Le Voile d’Isis del febbraio 1929.
L’articolo è stato tradotto nella Rivista
di Studi Tradizionali, n. 28, luglio-settembre 1968 – N.d.R.]
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