René Guénon
Forme tradizionali e cicli cosmici
Recensioni III
Enel: Les Origines de la Genèse et l’enseignement des Temples de l’ancienne Égypte, Vol. I (1a e 2a parte), Institut français d’Archéologie orientale, Le Caire.[1]
Forme tradizionali e cicli cosmici
Recensioni III
Enel: Les Origines de la Genèse et l’enseignement des Temples de l’ancienne Égypte, Vol. I (1a e 2a parte), Institut français d’Archéologie orientale, Le Caire.[1]
È certamente molto difficile e fors’anche
impossibile sapere attualmente cosa fu in realtà l’antica tradizione egizia,
completamente estinta da tanti secoli; così le diverse interpretazioni e
ricostruzioni tentate dagli egittologi sono in gran parte ipotetiche e,
peraltro, sovente contraddittorie. La presente opera si distingue dai soliti
studi di egittologia, per il lodevole sforzo di comprensione dottrinale,
generalmente assente in essi ed anche per la grande importanza giustamente
attribuita al simbolismo, che gli studiosi «ufficiali», da parte loro, tendono piuttosto a negare o puramente e semplicemente ad
ignorare; si può dire, tuttavia, che le argomentazioni esposte in quest’opera
siano meno ipotetiche delle altre? Ci permettiamo di esprimere dei dubbi in
proposito, constatando soprattutto che esse si
ispirano al partito preso, per così dire, di trovare un parallelismo costante
fra la tradizione egizia e quella ebraica, mentre, se è vero che il fondo è
essenzialmente il medesimo dappertutto, nulla prova che le due forme in
questione siano state realmente tanto vicine una all’altra, essendo più che
contestabile la eventualità di una filiazione diretta che l’autore sembra
supporre fra di esse, e che lo stesso titolo vuol probabilmente suggerire. Da
ciò derivano talune assimilazioni più o meno forzate:
ad esempio, ci chiediamo se l’autore è proprio sicuro che la dottrina egizia
abbia considerato la manifestazione universale sotto l’aspetto di «creazione»,
caratteristica che sembra essere stata esclusiva della tradizione ebraica e di
quelle ad essa collegate. Gli Antichi, i quali certo sapevano meglio di noi
cosa pensare in proposito, sono ben lungi dal fornire indicazioni in tal senso;
restando in argomento, la nostra diffidenza aumenta quando constatiamo
che il medesimo principio viene gratificato ora con l’appellativo di «Creatore»
ora semplicemente con quello di «Demiurgo»; fra queste due qualificazioni
manifestamente incompatibili, sarebbe quanto meno opportuno sceglierne una…
D’altro canto, altrettante riserve richiederebbero talune considerazioni
linguistiche, poiché è chiaro che la lingua in cui si esprimeva la tradizione
egizia noi non la conosciamo certo più della stessa tradizione; si aggiunga poi
che alcune interpretazioni risentono visibilmente dell’influsso di concezioni
occultistiche.
Comunque, tutto questo non vuol dire che il volume, la cui
prima parte è dedicata all’Universo e la seconda all’Uomo, non contenga
parecchie osservazioni degne d’interesse, una parte delle
quali potrebbe anche essere confermata molto più da un raffronto con le
tradizioni orientali, che purtroppo l’autore sembra ignorare quasi
completamente, che non da riferimenti biblici. Naturalmente, qui non è il caso
di entrare in dettagli; a titolo di esempio, in questo
ordine di idee, segnaleremo soltanto le note sulla costellazione della Coscia,
designazione dell’Orsa Maggiore, e l’espressione «Capo della Coscia», da
riferirsi al Polo; a questo proposito, ci sarebbero da fare curiosi
accostamenti. Infine, si rilevi l’opinione dell’autore circa, la Grande
Piramide, nella quale egli vede contemporaneamente un «tempio solare» e un
monumento destinato a «immortalare la conoscenza delle leggi dell’Universo»;
questa supposizione è almeno altrettanto plausibile di tante altre che sono
state fatte sull’argomento; ma, quanto all’affermazione dell’autore, per cui «il simbolismo nascosto delle Scritture ebraiche e cristiane
si riferisce direttamente ai fatti che accaddero nel corso della costruzione
della Grande Piramide», ci pare che sia, da tutti i punti di vista, davvero troppo
poco verosimile!
Enel: A
Message from the Sphinx, Rider and Co., Londra.[2]
Le riserve che abbiamo formulato circa il carattere
Puramente ipotetico di ogni tentativo di ricostruzione e di interpretazione
dell’antica tradizione egizia, a proposito di un’altra opera dello stesso
autore, potrebbero ugualmente farsi su questa, nella prima parte della quale
ritroviamo, in una esposizione sintetica, alcune idee già espresse nel
precedente libro. L’autore comincia con uno studio sulla scrittura geroglifica,
che poggia su principi perfettamente giusti e del resto generalmente noti, per
quanto concerne la pluralità dei significati di tale scrittura; ma, al momento
di applicarli e di entrare in dettaglio, come si può essere sicuri di non
mescolarvi delle fantasie, in misura maggiore o minore? Osserviamo anche che il
termine «ideografico» non si applica – come invece si sostiene qui
– alla semplice rappresentazione di oggetti sensibili, e che, quando si
tratta della scrittura, esso, in definitiva, è sinonimo di «simbolico».
Ci sono poi molte altre improprietà di linguaggio che non sono meno
deplorevoli: così è fuor di dubbio che la dottrina egizia doveva essere, in
fondo, «monoteistica», poiché ogni dottrina tradizionale, senza eccezione, lo è
essenzialmente, nel senso che non può non affermare l’unità principiale; ma, se
in tal modo il termine «monoteismo» presenta un significato accettabile, anche
al di fuori delle forme specificamente religiose, si ha poi il diritto di
definire «panteismo» ciò che si è unanimemente convenuto di chiamare «politeismo»?
Un equivoco più grave riguarda la magia, che l’autore, in
molti casi, confonde palesemente con la teurgia (confusione che, in definitiva,
riconduce a quella del dominio psichico con lo spirituale). Infatti
egli crede di individuarla dovunque sia questione della «potenza della parola»,
il che lo induce a pensare che essa dovesse avere un’importanza capitale anche
in origine, mentre, al contrario, come abbiamo spiegato in diverse occasioni,
il suo predominio, in Egitto come altrove, è stato soltanto l’effetto di una
degenerazione più o meno tardiva. Prima di procedere oltre, sottolineiamo
una concessione alquanto infelice alle teorie «evoluzionistiche» moderne: se
gli uomini di queste antiche epoche avessero avuto la mentalità grossolana o
rudimentale che si attribuisce loro, dove sarebbe stato possibile, in quelle
stesse epoche, reclutare quegli «iniziati», che giustamente poi si riconoscono
in possesso di requisiti del tutto opposti? È necessario operare
una scelta fra l’«evoluzionismo» antitradizionale e l’accettazione dei
dati tradizionali, poiché ogni compromesso può, soltanto condurre ad
irrisolvibili contraddizioni.
La seconda parte è dedicata alla Cabala
ebraica, ciò che potrebbe sorprendere se non si conoscessero le idee
dell’autore in proposito:, in effetti, a parer suo, la tradizione ebraica è
nata direttamente dalla tradizione egizia: esse sono come «due anelli
consecutivi di una stessa catena». Riguardo a questa
affermazione, abbiamo già detto quel che ne pensiamo, tuttavia crediamo sia il
caso di fare ancora qualche precisazione: l’autore giustamente riconosce che la
tradizione egizia derivò dall’Atlantide (che d’altronde – possiamo
affermarlo più recisamente di quanto non si faccia nel testo in esame –
non fu certo per questo la sede della tradizione primordiale), ma essa non fu
la sola, potendo dirsi la stessa cosa particolarmente per la tradizione caldea.
Anche l’insegnamento arabo relativo al «triplice
Ermete», di cui abbiamo parlato in altra occasione, indica con sufficiente
chiarezza questa parentela; ma se la fonte principale è la stessa, la
differenza fra queste forme fu probabilmente determinata soprattutto
dall’incontro con altre correnti, l’una proveniente dal Sud per l’Egitto,
l’altra dal Nord per la Caldea. Ora, la tradizione ebraica è essenzialmente
«abramica», quindi di origine caldea; senza dubbio, il «riadattamento» operato
da Mosè, per alcune circostanze di luogo, poté giovarsi accessoriamente di
elementi egizi, soprattutto per quanto concerne talune scienze tradizionali più o meno secondarie; ma in nessun modo esso avrebbe potuto
far uscire questa tradizione dalla sua propria stirpe, per trasferirla in
un’altra, estranea al popolo al quale era espressamente destinata e nella
lingua del quale essa doveva essere formulata. Del resto, dal
momento che si riconosce la comunanza originaria e di fondo di tutte le
dottrine tradizionali, la constatazione di talune similitudini non comporta
affatto l’esistenza di una filiazione diretta: è così, ad esempio, per rapporti
come quelli che l’autore vuole stabilire fra le Sephiroth e l’«Enneade» egizia, ammettendo che siano giustificati. Tutto considerato, anche se si ritiene trattarsi di
somiglianze riferentisi a tratti troppo particolari per risalire fino alla
tradizione primordiale, l’affinità delle tradizioni egizia e caldea, in ogni
caso sarebbe ampiamente sufficiente a renderne ragione.
Quanto alla pretesa che la scrittura ebraica primitiva
sarebbe derivata dai geroglifici, si tratta di un’ipotesi del tutto gratuita,
poiché di fatto, nessuno sa con precisione cosa fosse
questa scrittura; tutti gli indizi che si possono reperire in proposito tendono
anzi a far ritenere il contrario; non si vede poi come l’associazione dei
numeri alle lettere, essenziale in ebraico, avrebbe potuto essere ricavata dal
sistema geroglifico. Del resto, gli stretti rapporti di somiglianza esistenti
fra l’ebraico e l’arabo, e ai quali il libro in esame non accenna minimamente,
costituiscono manifestamente un ulteriore argomento
contrario a tale ipotesi poiché sarebbe davvero difficile poter sostenere
seriamente che anche la tradizione araba è di provenienza egizia!
Esamineremo brevemente la terza parte, in cui si trovano
innanzitutto talune opinioni sull’arte che, pur contenendo, tutto sommato,
delle giuste intuizioni, hanno il torto di poggiare su di un’affermazione più
che contestabile; non si può dire, almeno senza ulteriori
precisazioni, che «esiste una sola arte», poiché è troppo evidente che l’unità
di fondo, cioè l’unità delle idee espresse simbolicamente, non esclude affatto
la molteplicità delle forme. Nei capitoli successivi, l’autore fornisce un
compendio non delle scienze tradizionali autentiche, come sarebbe stato
auspicabile, ma di qualche residuo più o meno
deformato giunto fino alla nostra epoca, specialmente sotto l’aspetto
«divinatorio»; e qui l’influenza esercitata dalle concezioni «occultistiche» si
palesa in un modo particolarmente spiacevole. Aggiungiamo che è del tutto
inesatto dire che talune scienze che venivano insegnate
negli antichi templi equivalevano puramente e semplicemente alle scienze
moderne e «universitarie»; in realtà, anche quando si può riscontrare
un’apparente similitudine quanto all’oggetto di queste scienze, i rispettivi
punti di vista sono totalmente differenti, e c’è sempre un vero abisso fra le
scienze tradizionali e quelle profane.
Infine, non possiamo fare a meno di sottolineare
certi errori di dettaglio, poiché ve ne sono alcuni davvero sbalorditivi: così,
la ben nota immagine dello «sbattimento del mare» è scambiata per quella di un
«dio Samudra Matu» (sic!). Ma è questa una svista forse più scusabile di altre,
riguardanti cose che per l’autore dovrebbero essere maggiormente familiari
della tradizione indù, e, in particolare, la lingua ebraica. Non parliamo di
ciò che può essere solo questione di trascrizione, benché questa sia
terribilmente «trascurata»; ma come si può denominare costantemente Ain Bekar ciò che si chiama in realtà Aiq Bekar (sistema criptografico noto
tanto all’arabo che all’ebraico, in cui si potrebbe vedere il prototipo degli
alfabeti massonici), e confondere inoltre, quanto ai loro valori numerici, la
forma finale del kaph con quella del noun e menzionare per di più un «samek finale» che
non è mai esistito e che non è altro che un mem?
Come si può dare per certo che i traduttori della Genesi hanno reso thehôm
con le «acque», in un luogo in cui la parola che si
trova nel testo ebraico è maim e non thehôm, oppure che «Ain Soph significa letteralmente l’Antico degli Anni», mentre la rigorosa
traduzione letterale di tale nome è «senza limite»? Ietsirah è «Formazione» e non «Creazione» (che si dice Beriah); Zohar non significa «Carro celeste» (confusione evidente con la Merkabah), ma «Splendore»; e l’autore
sembra ignorare completamente cosa sia il Talmud,
poiché lo considera costituito dal Notarikon,
dalla Temourah e dalla Gematria, che non sono
affatto dei «libri», come egli afferma, bensì dei metodi
d’interpretazione cabalistica! Ci fermiamo qui; ma si converrà che errori
simili non incoraggiano certo ad accettare ciecamente le asserzioni dell’autore
su questioni che non consentono verifiche altrettanto agevoli
e ad accordare fiducia senza riserve alle sue teorie egittologiche...
Xavier Guichard: Éleusis-Alésia: Enquête sur les origines de la civilisation européenne, Imprimerie F. Paillart, Abbeville.[3]
Qualunque opinione si abbia delle vedute esposte in
quest’opera, è doveroso, in ogni caso, rendere omaggio alla mole di lavoro che
essa ha richiesto, alla pazienza ed alla perseveranza
di cui l’autore ha dato prova, dedicando a queste ricerche, nel corso di venti
anni, tutti i ritagli di tempo concessigli dalla sua professione. Guichard ha
studiato tutti i luoghi che, non solo in Francia, ma nell’Europa intera,
portano un nome apparentemente derivato, talvolta sotto forme alquanto
alterate, da quello di Alesia; ne ha reperito un numero considerevole ed ha osservato che
presentano talune particolarità topografiche comuni: essi «occupano dei siti
circondati da corsi d’acqua più o meno importanti, che, avvolgendoli, danno
loro l’aspetto di isole» e «tutti posseggono una sorgente minerale». A partire da epoche «preistoriche» o quanto meno
«protostoriche», questi «luoghi alesiani» sarebbero stati scelti, in virtù
della loro situazione privilegiata, come «luoghi d’assemblea» (sarebbe questo
il significato primitivo del nome che li designa), e ben presto sarebbero
divenuti centri abitati, ipotesi che sembrerebbe confermata dalle numerose
vestigia che generalmente vi si scoprono. Tutto questo, in definitiva, è
perfettamente plausibile e tenderebbe soltanto a dimostrare che, in quelle
regioni, la cosiddetta «civiltà» sarebbe di epoca ben più remota di quanto non
si sia soliti supporre, e che senza dubbio, da allora,
non si è avuta alcuna sostanziale soluzione di continuità. Solamente, a questo
proposito, sarebbe forse il caso di avanzare qualche riserva su talune
assimilazioni di nomi: quella stessa fra Alesia
ed Eleusis non è poi così evidente
quanto l’autore mostra di credere; peraltro, più in generale, ci si può rammaricare che alcune delle considerazioni alle
quali egli si abbandona testimoniano di conoscenze linguistiche insufficienti o
insicure su parecchi punti; ma, pur mettendo da parte i casi più o meno dubbi,
ce n’è ancora più che a sufficienza, soprattutto nell’Europa occidentale, per
giustificare le affermazioni riportate poco sopra. Va da sé, del resto, che
l’esistenza di questa antica «civiltà» non può stupire
in alcun modo, quali che possano essere stati la sua origine ed i suoi
caratteri; torneremo più in là sull’argomento.
Ma c’è dell’altro, in apparenza ancor più straordinario:
l’autore ha constatato che i «luoghi alesiani» erano
regolarmente disposti su certe linee radianti attorno ad un centro e tracciate
da un’estremità all’altra dell’Europa; egli ha reperito ventiquattro di queste
linee, che ha denominato «itinerari alesiani», tutte convergenti sul Monte
Poupet, presso Alaise, nel Doubs. Oltre a questo sistema di linee geodetiche,
ve n’è un altro, formato da una «meridiana», da una «equinoziale» e da due
«solstiziali», il cui centro è in un altro punto della stessa «alesia», segnato
da una località che porta il nome di Myon; e vi sono ancora delle serie di «luoghi alesiani» (di cui certi coincidono con qualcuno dei
precedenti) scaglionati su linee che corrispondono esattamente ai differenti
gradi di longitudine e di latitudine. Tutto questo costituisce un insieme
alquanto complesso, in cui, purtroppo, non si può dire che ogni elemento appaia
come assolutamente rigoroso: ad esempio, le ventiquattro linee del primo
sistema non formano tutte fra loro degli angoli uguali; d’altronde, basterebbe
un lievissimo errore di direzione del punto di partenza per avere uno scarto
considerevole ad una certa distanza, ciò che lascia un
margine abbastanza ampio di «approssimazione»; vi sono poi dei «luoghi
alesiani» isolati al di fuori di queste linee, dunque delle eccezioni o
anomalie... D’altra parte, non è ben chiaro quale speciale importanza potesse
avere l’«alesia» centrale; è possibile che realmente essa ne avesse una, in
epoca remota, ma è certo ben strano che non ne sia rimasta in seguito alcuna
traccia, a parte qualche «leggenda», che, in definitiva, non ha niente di
veramente eccezionale, e che si riferisce anche a molti altri luoghi; in ogni caso,
si tratta di una questione non risolta e forse insolubile, nell’attuale stato
di cose.
Comunque, vi è un’altra obiezione più grave, di cui l’autore
non pare essersi reso conto: da una parte, come abbiamo visto all’inizio, i «luoghi alesiani» sono definiti da certe condizioni
dipendenti dalla configurazione naturale del suolo; dall’altra, essi sono
situati su linee che sarebbero state tracciate artificialmente dagli uomini di
una certa epoca; come possono conciliarsi due cose d’ordine tanto differente? I
«luoghi alesiani» sono così definiti in due modi
distinti, e non si vede in virtù di che cosa essi possano arrivare a
ricongiungersi; ciò richiederebbe almeno una spiegazione, altrimenti si
dovrebbe ammettere che la questione presenta qualche aspetto poco verosimile.
Altro sarebbe affermare che la maggior parte dei luoghi con caratteristiche
«alesiane» si ripartisce secondo linee determinate; questo sarebbe forse
strano, ma, in fondo, non impossibile: infatti, può darsi che il mondo sia in
realtà molto più «geometrico» di quanto non si pensi; e in questo caso, di
fatto, gli uomini avrebbero dovuto soltanto riconoscere l’esistenza di queste
linee e trasformarle in strade che collegassero i diversi agglomerati
«alesiani»; se le linee in questione non sono una semplice illusione «cartografica», non vediamo come si possa renderne conto
altrimenti.
Abbiamo appena parlato di strade e, in effetti, è proprio
ciò che implica l’esistenza, lungo gli «itinerari alesiani» di certi
«indicatori di distanza», costituiti da località che, per lo più, portano nomi
come Calais, Versailles, Myon, Millières; queste località si trovano a distanze
dal centro che sono dei multipli esatti di una unità
di misura che l’autore designa convenzionalmente «stadio alesiano». Ciò che è
particolarmente degno di nota, è che tale unità di misura, che sarebbe stata il
prototipo dello stadio greco, del miglio romano e della lega gallica, è uguale
alla sesta parte di un grado, donde risulta che gli uomini che ne avevano fissato la lunghezza dovevano conoscere con precisione le
vere dimensioni della sfera terrestre. A questo proposito, l’autore segnala dei
fatti che indicano come le conoscenze possedute dai geografi dell’antichità
«classica», come Strabone e Tolomeo, lungi dall’essere il risultato delle loro
scoperte, non rappresentassero che i residui di una scienza molto più antica,
forse anche «preistorica», di cui la più gran parte
era allora perduta. Stupisce però il fatto che, ad onta di
constatazioni del genere, l’autore accetti le teorie «evoluzionistiche» sulle
quali si basa tutto l’insegnamento «ufficiale» relativo alla «preistoria»; che
egli le ammetta realmente o anche solo che non osi rischiare di contraddirle,
vi è nel suo atteggiamento qualcosa di non perfettamente logico, che sottrae molta
forza alla sua tesi. In realtà, questo aspetto della
questione potrebbe essere chiarito soltanto dalla nozione delle scienze
tradizionali, che invece non appare in nessuna parte di questo studio, in cui
non viene mai espresso il minimo sospetto che abbia potuto esistere una scienza
di origine non «empirica», e che non si sia formata «progressivamente» con una
lunga sequela di osservazioni, per mezzo delle quali si suppone che l’uomo sia
uscito a poco a poco da una pretesa ignoranza «primitiva», che qui è semplicemente
riportata ad un passato un po’ più lontano di quanto non si pensi comunemente.
Lo stesso modo di considerare la genesi
della «civiltà alesiana» palesa la mancanza di ogni conoscenza tradizionale da
parte dell’autore: la verità è che alle origini, ed anche molto più tardi,
tutto aveva un carattere rituale e «sacrale»; non è quindi il caso di chiedersi
se hanno potuto esercitarsi influenze «religiose» (parola, del resto,
assolutamente impropria) su tale o tal altro punto, secondo un modo di vedere
le cose davvero troppo moderno, che talvolta produce anche l’effetto di
rovesciare completamente taluni rapporti. Così, se si ammette che la
designazione dei «Campi Elisi» è in relazione con i nomi «alesiani» (il che
sembra poi alquanto ipotetico), non bisognerebbe trarne la conclusione che il
soggiorno dei morti fu concepito sul modello dei luoghi abitati presso cui i loro corpi erano inumati, ma, al contrario, che questi
stessi luoghi fossero scelti o disposti conformemente alle esigenze rituali
dipendenti da questa concezione, e che allora contavano certamente molto più
delle semplici preoccupazioni «utilitaristiche», se pure queste potevano
esistere come tali in tempi in cui la vita umana era interamente governata
dalla conoscenza tradizionale. D’altra parte, è possibile che ci sia stato un
legame fra i «miti elisi» e i «culti ctonici» (e quel che abbiamo detto sul
simbolismo della caverna spiegherebbe anche la loro relazione, in certi casi,
con i «misteri» iniziatici), ma sarebbe opportuno precisare ulteriormente il
significato che si annette a questa affermazione. In
ogni caso, la «Dea Madre» era sicuramente qualcosa di completamente diverso
dalla «Natura», a meno che con essa non voglia
intendersi la Natura naturans, la
quale implica tutt’altro che una concezione «naturalistica». Dobbiamo
aggiungere che il predominio attribuito alla «Dea Madre» non sembra poter
risalire al di là degli inizi del Kali-Yuga, del quale anzi essa sarebbe abbastanza chiaramente
caratteristica; e questo particolare permetterebbe forse di «datare» con
maggiore esattezza la «civiltà alesiana», cioè di determinare il periodo
ciclico al quale deve essere riferita: si tratta qui di qualcosa che è certo
molto anteriore, rispetto alla «storia», nel senso ordinario della parola, ma che,
malgrado ciò, non è meno distante dalle autentiche origini.
Infine, l’autore sembra preoccuparsi molto di provare che la
«civiltà europea» ha avuto origine nella stessa Europa, con esclusione di ogni
intervento di influenze straniere e soprattutto orientali;
ma, a dire il vero, non è precisamente così che dovrebbe porsi la questione.
Sappiamo che l’origine prima della tradizione, e, conseguentemente, di ogni
«civiltà», fu in realtà iperborea, quindi né orientale né occidentale; ma,
all’epoca di cui si tratta, è evidente che una corrente secondaria può essere
indicata come la fonte più diretta di questa «civiltà alesiana», e, di fatto,
diversi indizi potrebbero far pensare, a questo proposito, soprattutto alla
corrente atlantidea, nel periodo in cui essa si
diffuse dall’Occidente all’Oriente, dopo la scomparsa della stessa Atlantide.
Beninteso, si tratta di un semplice suggerimento, che però farebbe almeno
rientrare facilmente nel quadro dei dati tradizionali
quanto può esserci di veramente fondato nei risultati di tali ricerche. In ogni
caso, è fuor di dubbio che una questione come quella dei «luoghi alesiani»
potrebbe essere trattata in maniera esauriente ed esatta solamente dal punto di
vista della «geografia sacra»; ma bisogna pur dire che questa, fra le antiche
scienze tradizionali, è una di quelle la cui ricostruzione incontrerebbe attualmente le più grandi difficoltà, forse anche
insormontabili, per molti aspetti; e, di fronte a certi enigmi che si trovano
in tale dominio, è lecito chiedersi se, pure nel corso di periodi in cui non si
è prodotto alcun cataclisma notevole. la «faccia» del
mondo terrestre non sia cambiata talvolta in maniera ben strana.
Noël De La Houssaye: Les Bronzes italiotes arcaïques et leur symbolique, Éditions du Trident, Parigi.[4]
Questo studio esordisce con alcune considerazioni sulle
origini della moneta nel bacino del Mediterraneo, questione abbastanza oscura,
per la quale, come avviene in tanti altri casi, non
pare possibile risalire oltre il VI secolo a.C. Comunque, l’autore ha ben
compreso che «la moneta era per gli Antichi una cosa sacra», contrariamente
alla concezione tutta profana, propria dei moderni, e che solo ciò consente di
spiegare il carattere dei simboli impressi su di essa; è nostra opinione che si
potrebbe anche procedere oltre, e vedere in questi simboli il segno di un
controllo esercitato da un’autorità spirituale. Le considerazioni successive,
riguardanti particolarmente Roma e l’Italia, hanno più un carattere ipotetico:
l’accostamento del nome di Enea al nome latino del rame[5], pur non essendo inammissibile, sembra tuttavia piuttosto
discutibile; e ci pare troppo ristretta l’interpretazione che vede, nelle
differenti tappe del viaggio leggendario di Enea, niente altro che le tappe
della propagazione della moneta bronzea. Qualunque sia stata l’importanza di
quest’ultima, essa, tuttavia, può solo essere considerata un fatto secondario,
certo connesso a tutto l’insieme di una tradizione. Comunque, ciò che ci pare
più inverosimile è l’idea che la leggenda di Enea possa avere un qualsiasi
rapporto con l’Atlantide: innanzitutto, i suoi viaggi, dall’Asia,Minore all’Italia, non hanno avuto, evidentemente, un punto
di partenza occidentale; essi poi si riferiscono ad un’epoca che, se pure non
può essere determinata con assoluta precisione, è in ogni caso posteriore di
parecchi millenni alla scomparsa dell’Atlantide; ma questa teoria troppo
immaginosa, così come talune fantasticherie linguistiche sulle quali non è il
caso di insistere, si deve probabilmente al fatto che lo studio in esame fu
inizialmente pubblicato, in parte, sulla rivista Atlantis...
L’enumerazione dei simboli che figurano sulle monete sembra
completa, nei limiti del possibile, e alla fine dell’opera sono state aggiunte
delle tavole sinottiche, che consentono di rendersi conto della loro
ripartizione tutt’intorno al bacino mediterraneo; ma, quanto al significato di
questi simboli, ci sarebbe stato certo molto di più da dire, ed
a questo proposito abbiamo riscontrato delle lacune un poco sorprendenti. Così
non ci spieghiamo come si possa dire che la prua di
una nave associata alla figura di Giano sull’as romano «riguardi Saturno, e lui solo», quando invece è
abbastanza noto che la nave o la barca era fra gli attributi dello stesso
Giano. A proposito di Saturno, poi, è curioso che si possa chiamare «era
pastorale» quella che è in realtà l’«era agricola», cioè esattamente
il contrario, essendo i pastori essenzialmente popoli nomadi, mentre gli
agricoltori sono popoli sedentari; quindi, come potrebbe l’«era pastorale»
coincidere con la «formazione delle città»? Le osservazioni relative
ai Dioscuri non ne chiariscono affatto il significato, e lo stesso si
può dire per i Cabiri; ma, soprattutto, come si spiega il fatto che l’autore
non pare abbia rilevato che il simbolismo di questi ultimi è in stretta
relazione con la metallurgia, e in particolar modo con il rame, ciò che poi
sarebbe stato in stretta connessione con l’argomento da lui trattato?
Noël De La Houssaye: Le Phoenix, poème symbolique, Éditions du Trident, Parigi.[6]
Non abbiamo titoli per giudicare un poema come tale,
tuttavia, dal punto di vista simbolico, questo ci sembra meno chiaro di quanto
sarebbe stato auspicabile, e persino il carattere «ciclico» e «solare» del mito
della Fenice non viene adeguatamente messo in risalto.
Quanto al simbolo dell’uovo, confessiamo di non esser riusciti a capire come viene considerato; l’ispirazione dell’opera nel suo
complesso, a dispetto del titolo, dà l’impressione di essere più «filosofica»
che simbolica. D’altra parte, l’autore mostra di credere seriamente
all’esistenza di una certa organizzazione denominata «Fratelli di Heliopolis» e
i suoi rapporti con una tradizione egizia: sovente, in Europa, ci si fanno
delle strane idee sull’Egitto… Del resto, è ben sicuro l’autore che la Fenice
fu originariamente associata alla Heliopolis egizia? È
esistita anche una Heliopolis in Siria e, se si osserva che la Siria non fu
sempre e soltanto il paese che porta ancor oggi questo nome, ci
si può avvicinare ulteriormente alle origini; infatti, la verità è che le
diverse «Città del Sole» di epoca relativamente recente non furono mai altro
che immagini secondarie della «Terra solare» iperborea, e che in tal modo,
attraverso tutte le forme derivate che si conoscono «storicamente», il simbolismo
della Fenice si trova in diretto collegamento con la Tradizione primordiale.
Lettres d’Humanité, volume III.[7]
Lettres d’Humanité,
pubblicazione dell’Associazione Guillaume Budé, contiene nel suo volume III
(1944) un curioso studio di Paul Maury, intitolato Le Secret de Virgile et l’architecture des
«Bucoliques». Infatti, l’autore vi ha scoperto l’esistenza di una vera «architettura», straordinaria quasi quanto quella della Divina Commedia. Riassumerla è impresa
alquanto difficoltosa, tuttavia, tenteremo di indicarne almeno i tratti
principali. L’autore ha rilevato innanzitutto una simmetria fra le Egloghe I e
IX (le prove della Terra), fra la II e l’VIII (le
prove dell’Amore), fra la III e la VII (la Musica liberatrice), fra la IV e la
VI (le rivelazioni soprannaturali). Queste, otto egloghe costituiscono una
duplice progressione, ascendente da una parte, per le prime
quattro, discendente dall’altra per le ultime quattro, a guisa di doppia
scala, la cui sommità è occupata dall’Egloga V (Dafne), che l’autore definisce
la «Bucolica maggiore». Rimane l’Egloga X (Gallo), che si contrappone alla V
«come l’amor profano all’amor sacro, l’uomo incarnato,
imperfettamente iniziato, all’ideale dell’uomo rinnovato»; sono questi «i due
limiti fra i quali circolano le anime, fra il globo terracqueo e l’Olimpo». Il
tutto forma allora il disegno di una sorta di «cappella», o piuttosto di una «basilica pitagorica», di cui l’Egloga V costituisce
l’abside, mentre la X si situa all’estremità opposta, fra queste due, le altre
egloghe si dispongono lateralmente da una parte e dall’altra, e quelle
simmetriche sono naturalmente una di fronte all’altra.
E non è tutto, essendo le osservazioni successive ancor più
straordinarie: si tratta del numero dei versi delle
differenti egloghe, in cui si ritrovano altre simmetrie multiple, che
certamente non possono considerarsi involontarie. A prima vista, per la verità,
alcune di tali simmetrie numeriche sembrano soltanto approssimative; ma le
lievi differenze constatate in tal modo hanno indotto l’autore a determinare ed a «localizzare» certe alterazioni del testo (versi omessi
o aggiunti), del resto poco frequenti, e che coincidono precisamente con quelle
che erano già state sospettate in precedenza, in base a criteri puramente
filologici. Dopo di ciò, le simmetrie diventano tutte
esatte; purtroppo non possiamo riprodurre qui le diverse tavole in cui esse
sono indicate, senza le quali resterebbero incomprensibili. Pertanto, ci
limiteremo a dire che i numeri principali messi in evidenza e ripetuti con significativa insistenza sono: 183, per mezzo del quale,
stando a Plutarco, «i Pitagorici avevano rappresentato l’armonia stessa del
grande Cosmo», 333 e 666; anche quest’ultimo è «un numero pitagorico,
triangolare di 36, a sua volta triangolo di 8, l’Ogdoade doppio della Tetrade».
Aggiungeremo che è essenzialmente un numero «solare» e faremo notare che il
significato attribuitogli nell’Apocalisse non costituisce
affatto, come afferma l’autore, un «capovolgimento dei valori», ma
rappresenta in realtà un’applicazione dell’aspetto opposto di questo numero
che, come tanti altri simboli, ha in sé contemporaneamente un significato
«benefico» e uno «malefico». Virgilio, evidentemente, si riferiva al primo di
questi significati; ora, è esatto dire che egli abbia voluto fare del 666, in
particolare la «cifra di Cesare», come sembrerebbe
confermato dal fatto che, secondo il commentatore Servio, la Dafne dell’Egloga
V, quella centrale, non sarebbe altri che Cesare stesso? La cosa non sarebbe affatto inverosimile, e questa interpretazione
viene suffragata da altri accostamenti abbastanza rilevanti; d’altra parte, in
ciò non si dovrebbe vedere un’applicazione semplicemente «politica», nel senso
usuale del termine, se si pone mente all’aspetto non solo «religioso» (come
riconosce l’autore), ma anche realmente «esoterico» della figura di Cesare. Non
possiamo dire di più sull’argomento, ma riteniamo di averne parlato abbastanza,
da far risaltare l’interesse di questo studio, di cui raccomandiamo
particolarmente la lettura a coloro che si interessano
al simbolismo dei numeri.
Nella medesima pubblicazione, altri articoli dedicati a
Ippocrate richiedono alcune riflessioni: attualmente,
negli ambienti medici, si parla molto di un «ritorno a Ippocrate», ma, cosa
piuttosto strana, pare lo si consideri in due modi differenti e addirittura
opposti, riguardo alle intenzioni, perché mentre alcuni l’intendono,
giustamente, nel senso di una restaurazione di idee tradizionali, altri, come
nel caso in esame, vorrebbero farne il contrario. Costoro, infatti, pretendono
di attribuire alla medicina ippocratica un carattere «filosofico», cioè,
conformemente al significato che essi danno alla parola, «razionalistico» e
persino «laico» (dimenticando che Ippocrate stesso apparteneva ad una famiglia di sacerdoti, perché, diversamente, non
avrebbe potuto essere medico), opponendolo a questo titolo all’antica medicina
sacerdotale, nella quale, naturalmente, conforme agli abituali pregiudizi
moderni, essi vogliono vedere soltanto «empirismo» e «superstizione»! In
proposito, non crediamo sia inutile attirare l’attenzione dei seguaci
dell’ippocratismo tradizionale e impegnarli, quando se ne presenterà
l’occasione, a rimettere le cose a posto ed a reagire
contro questa erronea interpretazione; sarebbe infatti davvero deplorevole
lasciar sviare così dal suo fine normale e legittimo un movimento che, anche se
finora è solamente indice di una semplice tendenza, non è certo privo di
interesse, da parecchi punti di vista.
Lettres d’Humanité, volume IV.[8]
Lettres d’Humanité (volume IV, 1945) comprende un lungo studio
su Le Dieu Janus et les origines de Rome
di Pierre Grimal, in cui si trovano, da un punto di vista storico, numerose
notizie interessanti e poco conosciute, ma da cui purtroppo non si trae nessuna
conclusione realmente importante. Certo, l’autore ha tutte le ragioni di
criticare gli «storici delle religioni» che vogliono ricondurre ogni cosa a
idee «semplicistiche e grossolane» come quelle delle «forze della natura» o
delle «funzioni sociali»; ma le sue spiegazioni, pur
essendo sottili, sono in fondo molto più soddisfacenti? Qualunque idea si abbia
della esistenza più o meno ipotetica di una parola
arcaica ianus designante l’«atto di
andare», con il significato conseguente di «passaggio», non vediamo come si
potrebbe sostenere che, in origine, non vi era alcuna parentela fra questa
parola e il nome del dio Giano, poiché una semplice differenza di declinazione
non esclude affatto una comunanza di radice. A dire il vero, queste sono
soltanto sottigliezze filologiche senza alcuna importanza. Anche se si ammette
che, originariamente, il nome di Giano non è stato latino (per il Grimal,
infatti, Giano sarebbe stato dapprima un «dio straniero»), per quale motivo la radice i,
«andare», comune al latino ed al sanscrito, non si sarebbe trovata anche in
altre lingue? Si potrebbe fare anche un’altra ipotesi
abbastanza verosimile: perché i Romani, al momento di adottare questa divinità,
non ne avrebbero tradotto il nome, qualunque fosse, con uno equivalente nella
loro lingua, come fecero poi con i nomi degli dei greci, per assimilarli ai
propri? Insomma, la tesi del Grimal è che l’antico dio Giano non
sarebbe stato affatto un «dio delle porte», e che tale carattere non gli
sarebbe stato aggiunto che «tardivamente», come conseguenza di una confusione
fra due termini differenti, anche se formalmente simili; ma tutto ciò non ci
sembra in alcun modo convincente, poiché la supposizione di una coincidenza che
si vorrebbe «fortuita» non può spiegare mai nulla. D’altronde, è fin troppo
evidente che il significato profondo del simbolismo del «dio delle porte» gli
sfugge; ha egli visto il suo rapporto stretto con il ruolo di Giano per quel
che concerne il ciclo annuale (ciò che poi lo collega
direttamente al fatto che lo stesso Giano, come egli afferma, è stato un «dio
del Cielo»), anche nella sua veste di dio dell’iniziazione? Quest’ultimo punto,
del resto, è passato completamente sotto silenzio; si dice, è vero, che «Giano
fu un iniziatore, il dio stesso degli iniziatori», ma questo termine viene usato soltanto in un’accezione deviata e profana, che
in realtà non ha nulla a che vedere con l’iniziazione…
Seguono delle osservazioni curiose sulla esistenza
di un dio bifrons altrove che a Roma,
e segnatamente nel bacino orientale del Mediterraneo, ma è esagerato volerne
concludere che «Giano a Roma è soltanto l’incarnazione di un Urano siriano»;
come abbiamo detto spesso, le similitudini fra tradizioni differenti non
implicano necessariamente «prestiti» reciproci, ma lo si potrà mai far
comprendere a coloro i quali credono che il «metodo storico» sia applicabile in
ogni caso?
Nello stesso volume, c’è un articolo su Béatrice dans la vie et l’œuvre de Dante
che non presenta alcun interesse dal nostro punto di vista, ma richiede tuttavia
un’osservazione: come è possibile, dopo tutti gli studi fatti sui «Fedeli
d’Amore» da Luigi Valli e molti altri, che si ignori completamente (o almeno
che si ostenti un’ignoranza siffatta), quando si parla di Dante, l’esistenza di
un significato esoterico e iniziatico? Nello scritto in questione si accenna
solamente all’interpretazione teologica del Mandonnet, certo parziale e
insufficiente, ma che, sebbene esclusivamente exoterica, riconosce, malgrado tutto, un significato superiore al grossolano «letteralismo»
che pretende di vedere in Beatrice soltanto «una donna in carne e ossa». Ed è
proprio questo «letteralismo» che si vuole ancora sostenere con forza, in quanto si presterebbe ad «una spiegazione più psicologica
e più umana», cioè, in definitiva, più consona al gusto dei moderni, e più
conforme a quei pregiudizi «estetici» e «letterari», del tutto estranei a Dante
ed ai suoi contemporanei!
Georges Dumézil: L’Héritage indo-européen à Rome,
Gallimard, Parigi.[9]
Il Dumézil, partendo da un punto di vista semplicemente
profano, si è imbattuto, nel corso delle sue ricerche, in taluni dati
tradizionali, da cui ha tratto delle deduzioni non prive di interesse,
ma che non sono sempre interamente giustificate e che non si potrebbero
accettare senza riserve, tanto più che egli si sforza quasi costantemente di
appoggiarle a considerazioni linguistiche, di cui il meno che si possa dire è
che sono fortemente ipotetiche. Poiché d’altronde questi dati sono
necessariamente molto frammentari, l’autore ha «fissato» la sua attenzione
esclusivamente e, in certo modo, sistematicamente su taluni particolari, ad
esempio sulla divisione «tripartita», che egli vuol ritrovare dappertutto e che
sussiste infatti in molti casi; ma che peraltro non è
la sola di cui si debba tener conto, anche limitandosi al dominio in cui egli
si è specializzato.
Nel volume in esame, ha inteso dare un quadro dello stato
attuale dei suoi studi, e bisogna riconoscere che, almeno, non ha la pretesa di
esser pervenuto a risultati definitivi; del resto, le sue scoperte successive lo hanno già indotto a modificare a più riprese le proprie
conclusioni. Si tratta essenzialmente di isolare gli elementi che, nella
tradizione romana, sembrano risalire direttamente all’epoca in cui i popoli che
si è convenuto di denominare «indo-europei» non si
erano ancora suddivisi in parecchi rami distinti, di cui ciascuno doveva per
l’avvenire condurre una esistenza indipendente dagli altri. Alla base della
teoria del Dumézil è la considerazione della terna di divinità costituite da Jupiter, Mars e Quirinus[10], viste in correlazione con tre funzioni sociali; d’altra
parte, sembra che egli cerchi un po’ troppo di ricondurre ogni cosa al punto di
vista sociale, il che rischia di produrre con una certa facilità un
rovesciamento dei rapporti reali fra i principi e le loro applicazioni.
Inoltre, il suo orizzonte è manifestamente limitato da una certa mentalità
«giuridica», non sappiamo se acquisita dedicandosi soprattutto allo studio
della civiltà romana o, al contrario, dovuta ad una
tendenza preesistente, per cui è stato particolarmente attratto da quella
civiltà; comunque le due cose non ci sembrano del tutto senza rapporto fra
loro.
Non è qui il caso di esaminare in dettaglio le questioni
trattate in questo libro, segnaleremo tuttavia un’osservazione davvero curiosa,
tanto più che su di essa poggia una parte considerevole delle argomentazioni
dell’autore; si tratta del fatto che molti racconti altrove presentati come
«miti» si ritrovano, nei loro tratti essenziali, in quella che viene considerata la storia dei primordi di Roma, dal che si
dovrebbe concludere che i Romani hanno trasformato in «storia antica» ciò che
primitivamente era in realtà la loro «mitologia». A giudicare dagli esempi
forniti dal Dumézil, sembrerebbe esservi qualcosa di vero in questa
interpretazione, anche se, probabilmente, non bisogna abusarne,
generalizzandola oltre misura. Per la verità, ci si potrebbe anche chiedere se
la storia, soprattutto quando si tratta di «storia
sacra», non può, in certi casi, riprodurre effettivamente il mito e offrirne
come un’immagine «umanizzata», ma va da sé che un tale interrogativo, il quale,
in definitiva, si riconduce alla questione del valore simbolico dei fatti
storici, non può neppure porsi per lo spirito moderno.
[1] Recensione pubblicata su Études Traditionnelles, novembre 1936.
[2] Recensione pubblicata su Études Traditionnelles, novembre 1937 [tr. it.:
Il messaggio della sfinge, Atanòr,
Roma, 1972 ‑ N.d.R.].
[3] Recensione pubblicata su Études Traditionnelles, giugno 1938.
[4] Recensione pubblicata su Études Traditionnelles, gennaio 1945.
[5] [Aeramen – N.d.R.]
[6] Recensione pubblicata su Études Traditionnelles, gennaio 1945.
[7] Recensione pubblicata su Études Traditionnelles, gennaio 1945.
[8] Recensione pubblicata su Études Traditionnelles, gennaio-febbraio 1948.
[9] Recensione pubblicata su Études Traditionnelles, dicembre 1949.
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