"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

giovedì 12 febbraio 2015

René Guénon, Forme tradizionali e cicli cosmici - cap. «La Cabala ebraica»

René Guénon
Forme tradizionali e cicli cosmici
 

«La Cabala ebraica»[1]

Fino ad oggi, per lo studio della Cabala, non esisteva alcun lavoro d’insieme che, presentasse un carattere veramente serio; infatti, il libro di Adolphe Frank, malgrado la sua fama, mostra soprattutto fino a qual punto l’autore, imbevuto di pregiudizi universitari e per di più completamente digiuno di ebraico, era incapace di comprendere l’argomento che si è sforzato di trattare; quanto a certe compilazioni tanto indigeste quanto fantasiose, come quella di Papus[2], è meglio non parlarne. Vi era dunque una deplorevole lacuna da colmare, e ci pareva che l’importante lavoro di Paul Vulliaud[3] dovesse essere precisamente destinato a questo; eppure, benché questo lavoro sia fatto molto coscienziosamente e benché in esso vi siano molte cose interessanti, dobbiamo confessare che, leggendolo, abbiamo provato una certa delusione.
Quest’opera, che saremmo stati lieti di poter raccomandare senza riserve, non dà tutto quello che sembrava promettere il suo titolo assai generale, e il suo stesso contenuto è ben lungi dall’essere senza difetti.
A dire il vero, il sottotitolo di «Saggio critico» avrebbe già potuto metterci in guardia circa lo spirito stesso del libro, perché sappiamo anche troppo bene cosa intendono gli studiosi «ufficiali» con il termine «critico»; ma, non appartenendo il Vulliaud a questa categoria, sulle prime ci siamo soltanto meravigliati che egli abbia fatto uso di una espressione suscettibile di una così sgradevole interpretazione. In seguito, abbiamo compreso meglio le intenzioni che, in tal modo, l’autore aveva voluto fare intravedere; e queste intenzioni le abbiamo trovate chiaramente espresse in una nota in cui egli dichiara di essersi assegnato un «doppio scopo»: «Trattare della Cabala e della sua storia, e successivamente illustrare il metodo scientifico adottato da autori, la maggior parte dei quali hanno una lusinghiera reputazione» (vol. II, p. 206).
Non si trattava dunque, per Vulliaud, di seguire gli autori in questione né di assumere i loro pregiudizi, bensì di combatterli, cosa di cui non possiamo che essere lieti. Solamente, egli ha voluto combatterli sul loro stesso terreno e, in qualche modo, con le loro stesse armi, ed è così che ha assunto la veste, per così dire, di critico dei critici stessi. Infatti anch’egli si pone dal punto di vista della pura e semplice erudizione; ma, per quanto l’abbia fatto volontariamente, ci si può chiedere fino a qual punto un atteggiamento siffatto sia stato davvero accorto e vantaggioso. Il Vulliaud nega di essere cabalista, e lo nega con un’insistenza che ci ha stupito e che non riusciamo a comprendere bene. Sarebbe dunque di quelli che si gloriano di essere «profani» e che, sino ad ora, avevamo incontrato soltanto negli ambienti «ufficiali» e nei confronti dei quali egli ha dato prova di una giusta severità? Egli arriva fino a qualificarsi «semplice amatore», nella qual cosa vogliamo ravvisare una auto-calunnia; non si priva così di una buona parte di quell’autorità che gli sarebbe necessaria di fronte a degli autori di cui discute le asserzioni? Del resto, questo partito preso di considerare una dottrina da «profano», vale a dire «dall’esterno», ci sembra escludere ogni possibilità di comprensione profonda. Di più, anche se questa non è che un’affettazione, non sarà meno deplorevole, perché, pur avendo raggiunto per proprio conto tale comprensione, si baderà allora a non farne trasparire nulla, e l’interesse della parte dottrinale ne sarà fortemente diminuito.
Quanto alla parte critica, l’autore sembrerà più un polemista che un giudice qualificato, cosa che equivale ad una vera degradazione. D’altronde, quando una sola opera ha due finalità, una probabilmente è di troppo e, nel caso del Vulliaud, è spiacevole che la seconda di esse, così come sono segnalate più sopra, gli faccia troppo spesso dimenticare la prima, che era invece di gran lunga la più importante. Le discussioni e le critiche, infatti, si susseguono da un capo all’altro del suo lavoro, e persino nei capitoli il cui titolo annuncerebbe un’esposizione puramente dottrinale, derivandone una certa impressione di disordine e di confusione. D’altra parte, fra queste critiche alcune sono perfettamente giustificate, ad esempio quelle riguardanti il Renan e il Frank, ed anche certi occultisti, sono anzi le più numerose; altre invece sono più che contestabili, in particolare quelle che si riferiscono a Fabre d’Olivet, contro il quale il Vulliaud sembra riecheggiare certi odi rabbinici (a meno che non abbia ereditato l’odio dello stesso Napoleone per l’autore della Langue hébraique restituée, ma questa seconda ipotesi è molto meno verosimile). In tutti i casi, ed anche quando si tratta delle critiche più legittime, di quelle che possono utilmente contribuire a distruggere delle reputazioni usurpate, non sarebbe stato possibile dire le stesse cose più brevemente, e soprattutto più seriamente e con un tono meno aggressivo? L’opera ne avrebbe certo tratto giovamento, prima, perché non avrebbe avuto l’apparenza di un lavoro polemico, che ha invece troppo spesso e che dei malintenzionati potrebbero facilmente ritorcere contro l’autore; poi, ciò che è più grave, perché l’essenziale vi sarebbe stato meno sacrificato a talune considerazioni che, in definitiva, sono soltanto accessorie e di limitato interesse.
E vi sono altri difetti deplorevoli: le imperfezioni formali sono talvolta fastidiose; non vogliamo parlare semplicemente degli errori di stampa, che sono numerosissimi e di cui gli errata non rettificano che un’infima parte, ma di certe mancate correzioni, troppo frequenti, che è difficile attribuire al tipografo, anche con una gran dose di buona volontà. Vi sono pure diversi lapsus, veramente a sproposito; ne abbiamo rilevato un certo numero e, cosa curiosa, essi si trovano specialmente nel secondo volume, come se questo fosse stato scritto più affrettatamente. Così, ad esempio, il Frank non è stato «professore di filosofia al Collegio Stanislas» (p. .241), ma al Collegio di Francia, il che è ben differente. Ancora: il Vulliaud denomina «Cappelle» e talora anche «Capele», l’ebraizzante Louis Cappel, di cui possiamo ristabilire l’esatto nome con tanta maggior sicurezza in quanto, scrivendo queste righe, abbiamo sotto gli occhi la sua stessa firma. Il Vulliaud, dunque, avrebbe visto questo nome solamente sotto una forma latinizzata? Tutto questo non è gran che; ma, alla p. 26, è questione di un nome divino di 26 lettere e, in seguito, si trova che questo nome ne ha 42; questo passaggio è veramente incomprensibile, e ci chiediamo se non vi sia qualche omissione. Indicheremo un’altra negligenza del medesimo ordine, ma che è tanto più grave, in quanto è la causa di una vera ingiustizia: criticando un redattore dell’Enciclopedia Britannica, il Vulliaud termina con queste parole: «Non si poteva attendere una salda logica da un autore che nello stesso articolo ritiene che si siano troppo sottovalutate le dottrine cabalistiche (absurdly over-estimated) e, contemporaneamente, che lo Zohar è un farrago ol absurdity» (vol. II, p. 418). Le parole inglesi sono state citate dallo stesso Vulliaud; ora, over-estimated non vuol dire «sottovalutato» (che sarebbe under-estimated), ma sibbene «sopravvalutato», che è precisamente l’opposto; e così, quali che siano poi gli errori contenuti nell’articolo di quest’autore, la contraddizione che gli viene rimproverata, in realtà non vi si trova per niente. Certamente, questi sono soltanto dettagli, ma, quando ci si mostra così severi verso altri e sempre pronti a coglierli in difetto, non ci si dovrebbe sforzare di essere irreprensibili?
Nella trascrizione delle parole ebraiche vi è una mancanza di uniformità davvero spiacevole; sappiamo bene che nessuna trascrizione può essere perfettamente esatta, ma almeno, quando se ne è adottata una, quale che sia, sarebbe preferibile attenervisi costantemente. Di più, vi sono alcuni termini che sembra siano stati tradotti con troppa fretta, e per i quali non sarebbe stato difficile trovare un’interpretazione più soddisfacente; ne daremo subito un esempio preciso. Alla p. 49 del volume II è rappresentata una figura di teraphim sulla quale è iscritta, fra le altre, la parola luz; il Vulliaud ha riprodotto i vari sensi del verbo luz dati dal Buxtorf, facendo seguire ciascuno di essi dal punto interrogativo, talmente gli sono sembrati poco applicabili in questo caso, ma non ha pensato che esiste anche un sostantivo luz, che significa ordinariamente «mandorla» o «nocciolo» (e pure «mandorlo», perché designa in pari tempo l’albero e il suo frutto). Ora, questo stesso sostantivo è, nel linguaggio rabbinico, il nome di una particella corporale indistruttibile, alla quale l’anima resterebbe legata dopo la morte (ed è curioso notare che questa tradizione ebraica ha ispirato, con ogni probabilità, talune teorie di Leibniz); quest’ultimo significato è certamente il più plausibile e d’altronde è confermato, per noi, dal posto stesso che la parola luz occupa nella figura.
L’autore ha talvolta il torto di affrontare incidentalmente argomenti sui quali, evidentemente, è molto meno informato di quanto non sia sulla Cabala, e di cui avrebbe ben potuto dispensarsi dal parlare, il che gli avrebbe evitato alcuni abbagli che, per quanto scusabili siano (poiché è scontato che non è possibile avere pari competenza in tutti i domini), non possono che nuocere ad un lavoro serio. È così che abbiamo trovato (vol. II, p. 377) un passaggio dove si parla di una cosiddetta «teosofia cinese» nella quale abbiamo stentato a riconoscere il Taoismo, che non è una «Teosofia» secondo nessuna delle accezioni della parola, ed il cui riassunto, fatto non sappiamo in base a quale fonte (perché qui, per l’appunto, manca il riferimento) è eminentemente fantasioso. Per esempio «la natura attiva, tien = il cielo» viene contrapposta alla «natura passiva, kouen = terra»; ora, Kouen non ha mai avuto il significato di «terra», e le espressioni «natura attiva» e «natura passiva» fanno molto meno pensare a delle concezioni dell’Estremo Oriente che alla «natura naturante» ed alla «natura naturata» di Spinoza. Con la massima semplicità sono state confuse qui due dualità differenti, quella della «perfezione attiva», Khien, e quella della «perfezione passiva», Kouen (diciamo «perfezione» e non «natura»), e quella del «cielo», tien, e della «terra», ti.
Poiché siamo stati indotti a parlare di dottrine orientali, faremo a questo proposito un’altra osservazione: dopo aver rilevato molto giustamente il disaccordo che regna fra gli egittologi o gli altri «specialisti» dello stesso genere, il che fa sì che sia impossibile fidarsi delle loro opinioni, il Vulliaud segnala che la stessa cosa capita fra gli indianisti (vol. II, p. 363), il che è esatto; ma come non si è accorto che quest’ultimo caso non era paragonabile agli altri? Infatti, quando si tratta di popoli come gli antichi Egiziani e gli Assiri, scomparsi senza lasciare successori legittimi, non abbiamo evidentemente alcun mezzo di controllo diretto, ed è lecito dar prova di un certo scetticismo circa il valore di ricostruzioni frammentarie ed ipotetiche; ma, al contrario, per l’India o la Cina, le cui civiltà continuano fino ai nostri giorni e sono tuttora viventi, è perfettamente possibile sapere a cosa attenersi; quel che importa non è tanto ciò che dicono gli indianisti, ma quel che pensano gli stessi Indù. Il Vulliaud, che ha cura di ricorrere soltanto a delle fonti ebraiche per sapere che cosa è veramente la Cabala, ed ha in questo tutte le ragioni, poiché la Cabala è la stessa tradizione ebraica, potrebbe ammettere che si debba agire altrimenti quando si vogliano studiare altre tradizioni?
Vi sono altre cose che il Vulliaud non conosce molto meglio delle dottrine dell’Estremo Oriente, e che pure avrebbero dovuto essergli più accessibili, non foss’altro che per il fatto di essere occidentali. Così, ad esempio, il Rosicrucianesimo, su cui non pare saperne molto più degli storici «profani» e «ufficiali», e di cui sembra essergli sfuggito il carattere essenzialmente ermetico. Al riguardo, sa soltanto che si tratta di qualcosa di ben diverso dalla Cabala (l’idea occultista e moderna di una «Rosa-Croce Cabalistica» è infatti una pura fantasia), ma, per appoggiare questa asserzione e non limitarsi ad una semplice negazione, sarebbe stato necessario dimostrare precisamente che la Cabala e l’Ermetismo sono due forme tradizionali distinte in tutto e per tutto. Sempre in tema di Rosicrucianesimo, non pensiamo che si possa «procurare una piccola emozione ai notabili della scienza classica» ricordando che Cartesio ha cercato di mettersi in contatto con i Rosa-Croce durante il suo soggiorno in Germania (vol. II, p. 235), perché si tratta di un fatto notorio; quel che è certo è che non vi poté riuscire, e lo spirito stesso delle sue opere, contrario quanto è possibile ad ogni esoterismo, è insieme la prova e la spiegazione di questo scacco. È sorprendente veder citare, come l’indizio di una possibile affiliazione di Cartesio alla Fratellanza, una dedica (quella del Thesaurus mathematicus), che è manifestamente ironica e dove al contrario si sente tutto il dispetto di un uomo che non aveva potuto ottenere l’affiliazione cercata. Ancora più singolari sono gli errori del Vulliaud riguardo alla Massoneria; subito dopo essersi burlato di Éliphas Lévi[4], il quale in effetti ha aggiunto confusioni a confusioni quando ha voluto mettersi a parlare di Cabala, il Vulliaud, parlando della Massoneria, formula delle affermazioni che non sono certo meno divertenti. Citiamo il brano destinato a dimostrare che non vi è nessun legame fra la Cabala e la Massoneria: «Vi è un’osservazione da fare, circa il fatto di limitare la Massoneria alle frontiere europee. La Massoneria è universale, mondiale. È essa parimenti cabalistica presso i Cinesi e i Negri?» (vol. II, p. 319). Certamente, le società segrete cinesi e africane (le ultime si riferiscono più specialmente a quelle del Congo) non hanno avuto alcun rapporto con la Cabala, ma non ne hanno avuti di più con la Massoneria; e se questa non è «limitata alle frontiere europee», è unicamente perché gli Europei l’hanno introdotta nelle altre parti del mondo.
Ed ecco una nota non meno curiosa: «Come si spiega questa anomalia (se si ammette che la Massoneria è di ispirazione cabalistica): frammassone Voltaire, che provava solo disprezzo per la razza ebraica?» (p. 324). Il Vulliaud ignora dunque che Voltaire non fu accolto nella Loggia «Les Neuf Sœurs» che a titolo puramente onorifico, e soltanto sei mesi prima della sua morte? D’altronde, se anche avesse scelto un esempio più felice, questo non avrebbe provato ancora nulla, poiché vi sono molti Massoni, dovremmo dire addirittura la maggior parte, persino nei gradi più alti, ai quali è estranea ogni conoscenza reale della Massoneria (e potremmo includere fra questi certi dignitari del Grande Oriente di Francia che il Vulliaud, senza dubbio suggestionato dai loro titoli, cita a torto come delle autorità). Il nostro autore sarebbe stato meglio ispirato invocando, a sostegno della sua tesi, il fatto che esistono, in Germania e in Svezia, delle organizzazioni massoniche da cui i Giudei sono rigorosamente esclusi; bisogna pensare che non ne sapesse niente, poiché non vi ha fatto la minima allusione.
È pure interessante estrarre le frasi che seguono, dalla nota che conclude il medesimo capitolo (p. 328): «Parecchie persone potrebbero rimproverarci di aver ragionato come se vi fosse una forma soltanto di Massoneria. Noi non ignoriamo gli anatemi della Massoneria spiritualistica contro il Grande Oriente di Francia ma, tutto sommato, consideriamo il conflitto fra le due scuole massoniche come una lite in famiglia». Faremo osservare che non esistono soltanto «due scuole massoniche», ma ve n’è un gran numero, che il Grande Oriente di Francia, come del resto quello d’Italia, non è riconosciuto dalle altre organizzazioni, perché rigetta taluni land marks o principi fondamentali della Massoneria, il che costituisce dopo tutto una «lite» abbastanza seria (mentre, fra le altre «scuole», le divergenze sono lungi dall’essere altrettanto gravi). Quanto all’espressione «Massoneria spiritualistica», essa non corrisponde assolutamente a niente, visto che si tratta di un’invenzione di alcuni occultisti, di cui il Vulliaud è, in generale, meno pronto ad accettare le suggestioni. E, poco oltre, vediamo menzionati come esempi di «Massoneria spiritualistica» il Ku-Klux-Klan e gli Orangisti (supponiamo si tratti del Royal Order of Orange), vale a dire due associazioni semplicemente protestanti, che senza dubbio possono annoverare dei Massoni fra i loro membri, ma che, in se stesse, non hanno più rapporti con la Massoneria di quanti non ne abbiano le società segrete del Congo, di cui ci siamo occupati in precedenza. Sicuramente, il Vulliaud ha tutto il diritto di ignorare tutte queste cose ed altre ancora e non pensiamo certo di dovergliene fare un rimprovero; ma, ancora una volta, che cosa l’obbligava a parlarne, visto che queste cose erano un po’ al di fuori dell’argomento e che, d’altra parte, egli non ha avuto la pretesa di essere assolutamente completo, sul tema? In ogni caso, se ci teneva, avrebbe durato forse meno fatica a raccogliere, almeno su alcuni punti, delle informazioni sufficientemente esatte, che non a scoprire una quantità di libri rari e sconosciuti, che si compiace di citare con una certa ostentazione.
Beninteso, tutte queste riserve non ci impediscono di riconoscere i meriti effettivi dell’opera, né di rendere omaggio allo sforzo considerevole di cui è prova; al contrario, se abbiamo tanto insistito sui suoi difetti, è perché riteniamo che significhi rendere un servigio ad un autore, fargli delle critiche concernenti punti ben precisi. Ora dobbiamo dire che il Vulliaud, contrariamente agli autori moderni che lo contestano (e fra questi, cosa strana, vi sono molti Israeliti), ha molto bene stabilito l’antichità della Cabala, il suo carattere specificamente giudaico e strettamente ortodosso; è di moda infatti, tra i critici «razionalisti», contrapporre la tradizione esoterica al rabbinismo exoterico, come se questi non fossero i due aspetti complementari di un’unica dottrina. Nello stesso tempo, Vulliaud ha distrutto un certo numero di leggende troppo diffuse (grazie a questi stessi «razionalisti») e prive di ogni fondamento, come quella che pretende di ricollegare la Cabala alle dottrine neo-platoniche, quella di Léon che attribuisce lo Zohar a Mosè, facendone così un’opera che data soltanto dal XIII secolo, quella che vuol fare di Spinoza un cabalista, ed altre ancora, più o meno importanti. Inoltre, egli ha perfettamente stabilito che la Cabala non è affatto «panteistica», come hanno preteso taluni (certo a causa del fatto che essi credono di poterla mettere in relazione con le teorie di Spinoza, che sono, esse sì, davvero «panteistiche»); e giustamente osserva poi che «si è fatto uno strano abuso di questo termine», applicato a casaccio e attraverso alle concezioni più disparate, con la sola intenzione di «cercare di ingenerare spavento» (vol. I, p. 429) e anche, aggiungeremo, perché si crede in tal modo di essere dispensati da ogni discussione ulteriore. Questa assurda accusa è gratuitamente e frequentemente rivolta anche contro tutte le dottrine orientali; ma essa produce sempre il suo effetto sopra taluni spiriti timorati, benché la parola «panteismo», a forza d’essere adoperata abusivamente, finisca per non significare più nulla; quando, dunque, si comprenderà che le denominazioni inventate per i sistemi della filosofia moderna non sono applicabili che a questi esclusivamente?
Il Vulliaud mostra ancora come una pretesa «filosofia mistica» dei Giudei, diversa dalla Cabala, è cosa che non è mai esistita in realtà; ma ha poi il torto di impiegare la parola «misticismo» per qualificare la Cabala stessa. Certo, questo dipende dal senso che si dà alla parola, e quello che egli indica (che ne farebbe press’a poco un sinonimo di «Gnosi» o conoscenza trascendente) sarebbe sostenibile se ci si dovesse preoccupare soltanto dell’etimologia, poiché è esatto che «misticismo» e «mistero» hanno la stessa radice (vol. I, pp. 124 e 131-132); ma, in definitiva, bisogna pure tener conto dell’uso consolidato che ne ha modificato e ristretto considerevolmente il significato. D’altra parte, in entrambi i casi non ci è possibile accettare l’affermazione che «il misticismo è un sistema filosofico» (p. 126); e se troppo spesso, nel Vulliaud, la Cabala assume un’apparenza «filosofica», è questa una conseguenza del punto di vista «esteriore» al quale egli ha voluto attenersi. Per noi la Cabala è assai più una metafisica che una filosofia, ed è ben più iniziatica che mistica; d’altronde, avremo forse occasione di esporre le differenze essenziali fra la via degli iniziati e quella dei mistici (le quali, si noti di sfuggita, corrispondono rispettivamente alla «via secca» ed alla «via umida» degli alchimisti). Comunque sia, i vari risultati che abbiamo segnalato potrebbero essere ormai considerati definitivamente acquisiti, se l’incomprensione di qualche preteso sapiente non venisse sempre a rimettere tutto in discussione, riportandosi a un punto di vista storico, a cui il Vulliaud ha accordato (saremmo tentati di dire disgraziatamente, senza per questo misconoscere l’importanza relativa) fin troppo spazio, rispetto al punto di vista propriamente dottrinale.
Per quest’ultimo, indicheremo come particolarmente interessanti, nel primo volume i capitoli concernenti En-Soph e le Sephiroth (cap. LX), la Shekinah e Metatron (cap. XIII), quantunque sarebbe stato da augurarsi di trovarvi un po’ più di argomentazioni e di precisazioni, come pure in quello in cui sono esposti i procedimenti cabalistici (cap. V). In effetti, ci chiediamo se coloro i quali non hanno alcuna conoscenza precedente della Cabala verrebbero sufficientemente illuminati dalla lettura di tali capitoli.
Per quanto concerne quelle che si potrebbero chiamare le applicazioni della Cabala, le quali, benché secondarie rispetto alla dottrina pura, non sono certo da trascurare, menzioneremo nel secondo volume i capitoli dedicati al rituale (cap. XIV), agli amuleti (cap. XV) ed alle concezioni messianiche (cap. XVI). Essi contengono delle cose davvero nuove o almeno assai poco note; in particolare, si possono trovare nel cap. XVI numerose notizie sull’aspetto sociale e politico che contribuisce in buona parte al dare alla tradizione cabalistica il suo carattere nettamente e peculiarmente giudaico. Per come si presenta nel suo insieme, l’opera del Vulliaud ci pare soprattutto adatta a rettificare un gran numero di idee false, il che è sicuramente qualcosa, e anzi molto, ma non è forse abbastanza per un lavoro così importante e che vuol essere più di una semplice introduzione. Se l’autore ne darà un giorno una nuova edizione, è auspicabile che tratti per quanto possibile separatamente la parte dottrinale, che sfoltisca sensibilmente la prima parte, ampliando ulteriormente la seconda, anche se, così facendo. correrà il rischio di non passare più per il «semplice amatore», di cui ha voluto assegnarsi il ruolo troppo limitato.
Per concludere questa disamina del libro del Vulliaud, faremo ancora qualche osservazione su di una questione che merita una particolare attenzione, e che ha un certo rapporto con le considerazioni che abbiamo già avuto occasione di esporre, specialmente nel nostro studio su Le Roi du Monde; intendiamo parlare della Shekinah e di Metatron. Nel suo significato più ampio, la Shekinah è la «presenza reale» della Divinità; e bisogna notare per prima cosa che i passi della Scrittura dove ne è fatta menzione tutta speciale sono soprattutto quelli in cui si tratta dell’istituzione di un centro spirituale: la costruzione del Tabernacolo, l’edificazione dei Templi di Salomone e di Zorobabele. Un tale centro, costituito in condizioni regolarmente definite, doveva essere, in effetti, il luogo della manifestazione divina, sempre rappresentata come «Luce»; e, sebbene il Vulliaud neghi ogni rapporto fra la Cabala e la Massoneria (pur riconoscendo che il simbolo del «Grande Architetto» è una metafora abituale per i rabbini), l’espressione di «luogo illuminatissimo e regolarissimo» che quest’ultima ha conservato, pare proprio essere un ricordo dell’antica scienza sacerdotale che presiedeva alla costruzione dei templi, e che del resto non era esclusiva dei Giudei.
Non è il caso di occuparci qui della teoria delle «influenze spirituali» (preferiamo questa espressione a quella di «benedizioni» per tradurre l’ebraico berakoth, tanto più che è questo il senso che ha conservato nettamente in arabo la parola Barakah); ma, anche limitandosi a considerare le cose da questo solo punto di vista, sarebbe possibile spiegare il detto di Elia Levita, riportato dal Vulliaud: «I Maestri della Cabala hanno in proposito grandi segreti».
Ora, la questione è tanto più complessa in quanto la Shekinah si presenta sotto molteplici aspetti; essa ne ha due principali: l’uno interno e l’altro esterno (vol. I, p. 495); ma qui il Vulliaud avrebbe potuto spiegarsi un po’ più chiaramente, tanto più che, malgrado la sua intenzione di limitarsi a trattare della «Cabala ebraica», egli ha segnalato proprio «i rapporti tra le teologie ebraica e cristiana, a proposito della Shekinah» (p. 493). Ora vi è, nella tradizione cristiana, una frase che designa con la massima possibile chiarezza i due aspetti di cui si tratta: Gloria in excelsis Deo, et in terra Pax hominibus bonae voluntatis. Le parole Gloria e Pax si riferiscono rispettivamente all’aspetto interno, in rapporto al Principio, ed a quello esterno, in rapporto al mondo manifestato; e se si considerano in tal modo queste due parole, si comprenderà immediatamente perché vengono pronunciate dagli Angeli (Malakim) per annunciare la nascita del «Dio con noi» o «in noi» (Emmanuel). Si potrebbe anche, per il primo aspetto, ricordare la teoria dei teologi circa la «Luce di gloria» nella quale e per la quale si opera la visione beatifica (in excelsis); e, per il secondo, diremo ancora che la «Pace» nel senso esoterico, è indicata dappertutto come l’attributo spirituale dei centri spirituali stabiliti in questo mondo (terra). D’altronde, il termine arabo Sakinah, manifestamente identico a quello ebraico, si traduce con «Grande Pace», che è l’esatto equivalente della Pax Profunda dei Rosa-Croce, e, per questa via, si potrebbe senza dubbio spiegare che cosa questi intendevano per «Tempio dello Spirito Santo». Parimenti si potrebbero interpretare in modo preciso un certo numero di testi evangelici, tanto più che «la tradizione segreta concernente la Shekinah avrebbe qualche rapporto con la luce del Messia» (p. 503). È dunque senza intenzione che il Vulliaud, dando quest’ultima indicazione, dice trattarsi della tradizione «riservata a coloro che perseguono il cammino che conduce al Pardes», cioè, come abbiamo spiegato altrove, al centro spirituale supremo?
Questo induce ancora ad un’altra osservazione: poco oltre, è questione di un «mistero relativo al giubileo» (p. 506), il quale si ricollega in un certo senso all’idea di «Pace» e, a questo proposito, si cita il seguente passo dello Zohar (III, 586): «Il fiume che esce dall’Eden porta il nome di Jobel, come quello di Geremia (XVII, 8): “Esso stenderà le sue radici verso il fiume”, da cui risulta che l’idea centrale del Giubileo è il ritorno di tutte le cose al loro stato primitivo». È chiaro che qui si tratta del ritorno allo «stato primordiale» considerato da tutte le tradizioni e di cui ci siamo occupati nel nostro studio su Dante; e, quando si aggiunge che «il ritorno di tutte le cose allo stato originario annunzierà l’era messianica» (p. 507), chi avrà letto questo studio potrà ricordarsi ciò che abbiamo detto circa i rapporti fra il «Paradiso terrestre» e la «Gerusalemme celeste». D’altra parte, dovunque e sempre, nelle diverse fasi della manifestazione ciclica, ciò di cui si tratta è il Pardes, il centro del mondo, dal simbolismo tradizionale di tutti i popoli paragonato al cuore, centro dell’essere e «residenza divina» (Brahma-pura nella dottrina indù), come il tabernacolo che ne è l’immagine e che, per questo motivo, è chiamato in ebraico mishkan o «abitacolo di Dio» (p. 493), termine che ha la stessa radice della parola Shekinah. Da un altro punto di vista, la Shekinak è la sintesi delle Sephiroth; ora, nell’albero sefìrotico, la «colonna di destra» è il lato della Misericordia, e la «colonna di sinistra» è il lato del Rigore; dobbiamo dunque ritrovare questi due aspetti anche nella Shekinah. Infatti, «se l’uomo pecca e s’allontana dalla Shekinah, cade sotto il potere delle potenze (Sârim) che dipendono dal Rigore» (pagina 507), e allora la Shekinah è detta «mano di rigore», il che ricorda immediatamente il ben noto simbolo della «mano di giustizia». Ma, al contrario, se l’uomo si avvicina alla Shekinah, egli si libera e la Shekinah è la «mano destra» di Dio, vale a dire che la «mano di giustizia» diviene allora la «mano benedicente». Sono questi i misteri della «Casa di giustizia» (Beith-Din), che è ancora un’altra designazione del Centro spirituale supremo; e c’è appena bisogno di far notare che i due lati considerati sono quelli in cui si ripartiscono gli eletti e i dannati nelle rappresentazioni cristiane del «Giudizio ultimo». Si potrebbe ugualmente stabilire un accostamento con le due vie che i Pitagorici raffiguravano con la lettera Y, simboleggiate exotericamente dal Mito di Ercole fra la Virtù e il Vizio; con le due porte celeste e infernale, associate, presso i Latini, al simbolismo di Giano; con le due fasi cicliche ascendente e discendente che, presso gli Indù, venivano similmente ricollegate al simbolismo di Ganesha. Infine, è facile comprendere per questa via l’autentico significato di espressioni come quelle di «retta intenzione» e di «buona volontà» (Pax hominibus bonae voluntatis, e chi conosce i numerosi simboli ai quali abbiamo qui appena accennato, si renderà conto che non a caso la festa di Natale coincide con il solstizio invernale), quando si ha cura di lasciare da parte tutte le interpretazioni esteriori, filosofiche e morali, date loro a partire dagli stoici, fino a Kant.
«La Cabala dà alla Shekinah un Paraedro, che porta dei nomi identici ai suoi, e che possiede per conseguenza i medesimi caratteri» (pp. 496-498), e che naturalmente ha tanti aspetti diversi quanti la stessa Skekinah; il suo nome è Metatron, che è numericamente equivalente a quello di Shaddai, l’«Onnipotente» (che si dice sia il nome del Dio di Abramo). L’etimologia del termine Metatron è molto incerta; a questo proposito, il Vulliaud riferisce parecchie ipotesi, e una di queste la fa derivare dal caldaico Mitra che significa «pioggia» e che ha anche, quanto alla sua radice, un certo rapporto con la «luce». Se è così, d’altronde, la rassomiglianza con il Mitra indù e zoroastriano non costituisce una ragione sufficiente per ammettere un «prestito» del giudaismo a dottrine straniere, non più di quanto possa costituirlo la parte attribuita alla pioggia nelle varie tradizioni orientali. A questo proposito, faremo notare che la tradizione ebraica parla di una «rugiada di luce» che emana dall’«Albero della Vita» e per mezzo della quale si effettuerà la resurrezione dei morti (p. 99), come pure di una «effusione di rugiada» che rappresenta l’influenza celeste comunicantesi a tutti i mondi (p. 465) e che richiama singolarmente il simbolismo alchemico e rosicruciano.
«La parola Metatron implica tutte le accezioni di guardiano, di Signore, di inviato, di mediatore» (p. 499); esso è «l’Angelo della Faccia», ed anche «il Principe del Mondo» (Sâr ha-ôlam); esso è «l’autore delle teofanie, delle manifestazioni divine nel mondo sensibile» (p. 492). Diremmo volentieri che è il «Polo celeste» e, poiché questo ha il suo riflesso nel «Polo terrestre» con il quale è in relazione diretta secondo l’«asse del mondo», non è forse questo il motivo per cui si dice che Metatron stesso istruì Mosè? Citiamo ancora queste righe: «Il suo nome è Mikael, il Gran Prete che è olocausto e oblazione davanti a Dio. E tutto ciò che gli Israeliti fanno sulla terra, viene compiuto in conformità con quanto accade nel mondo celeste. Il Grande Pontefice quaggiù simboleggia Mikael, principe della Clemenza… In tutti i passi della Scrittura in cui si parla dell’apparizione di Mikael, si tratta della gloria della Shekinah» (pp. 500-501). Quello che qui viene detto degli Israeliti può esser detto di tutti i popoli che possiedono una tradizione ortodossa; a maggior ragione va detto dei rappresentanti della tradizione primordiale, da cui derivano tutte le altre e a cui tutte le altre sono subordinate. D’altra parte, Metatron non ha soltanto l’aspetto della Clemenza, ma anche quello della Giustizia; nel mondo celeste non vi è soltanto il «Gran Prete» (Kohen ha-gadol), ma anche il «Gran Principe» (Sâr ha-gadol), il che significa che in lui si trovano tanto il principio del potere regale quanto quello del potere sacerdotale o pontificale, al quale corrisponde propriamente la funzione di «mediatore».
Parimenti, bisogna osservare che Melek, «re», e Maleak, «angelo» o «inviato», non sono in realtà che due forme di un’unica parola; di più, Malaki, «il mio inviato» (cioè l’inviato di Dio ovvero «l’angelo nel quale è Dio», Maleak ha-Elohim) è l’anagramma di Mikael. Conviene aggiungere che, se Mikael si identifica con Metatron, come abbiamo appena visto, ciononostante non ne rappresenta che un aspetto; accanto alla faccia luminosa vi è anche una faccia oscura, e qui siamo di fronte ad altri misteri. Infatti può sembrare strano che Samuele sia ugualmente chiamato Sâr ha-ôlam, e siamo alquanto stupiti che il Vulliaud si sia limitato a registrare questo fatto senza il minimo commento (p. 512). È quest’ultimo aspetto, e soltanto questo, che è «il genio di questo mondo», in un senso inferiore, il Princeps huius mundi di cui si parla nel Vangelo; e il suo rapporto con Metatron di cui è come l’ombra, giustifica l’impiego di una stessa designazione in un duplice senso, e, nello stesso tempo, fa comprendere perché il numero 666 dell’Apocalisse è anche un numero solare (esso è formato in particolare dal nome Sorath, demone del Sole, ed opposto come tale all’angelo Mikael). Del resto, il Vulliaud rileva che, secondo Sant’Ippolito, «il Messia e l’Anticristo hanno entrambi per emblema il leone» (vol. II, p. 373), che è parimenti un simbolo solare; e la medesima osservazione potrebbe essere fatta per il serpente e per molti altri simboli. Dal punto di vista cabalistico, si tratta ancora delle due facce opposte del Metatron; più in generale, vi sarebbe la possibilità di sviluppare, circa il doppio significato dei simboli, tutta una teoria che ancora sembra non sia mai stata esposta con chiarezza. Almeno per il momento non insisteremo oltre su questo aspetto della questione, che è forse uno di quelli dove si incontrano le maggiori difficoltà, per quanto attiene alla sua spiegazione.
Ma torniamo ancora alla Shekinah: essa è rappresentata nel mondo inferiore dall’ultima delle dieci Sephiroth, che è denominata Malkuth, cioè il «Regno», designazione alquanto degna di nota, dal nostro punto di vista (così come quella di Tsedek, «il Giusto» che ne è talora un sinonimo); e Malkuth è «il serbatoio dove confluiscono le acque provenienti dal fiume dall’alto, vale a dire tutte le emanazioni (grazie o influenze spirituali) che essa sparge in abbondanza» (vol. I, p. 509). Questo «fiume dall’alto» e le acque che ne discendono ci ricordano stranamente il ruolo attribuito al fiume celeste Gangâ nella tradizione indù, e si potrebbe anche osservare che la Shakti, di cui Gangâ è un aspetto, non è priva di una certa analogia con la Shekinah, non foss’altro che a causa della funzione «provvidenziale» che è loro comune. Sappiamo bene che l’abituale esclusivismo delle concezioni giudaiche non accetta di buon grado questi accostamenti, tuttavia essi non sono per questo meno reali, e per noi, che non abbiamo l’abitudine di lasciarci influenzare da certi pregiudizi, constatare tali accostamenti presenta un grandissimo interesse, perché vi troviamo la conferma della essenziale unità dottrinale, che si dissimula sotto l’apparente diversità delle forme esteriori.
Il serbatoio delle acque celesti è naturalmente identico al centro spirituale del nostro mondo: di là si dipartono i quattro fiumi del Pardes, dirigendosi verso i quattro punti cardinali. Per gli Ebrei, questo centro spirituale è la collina santa di Sion, alla quale danno l’appellativo di «cuore del mondo», e che in tal modo diviene per essi l’equivalente del Mêru degli Indù o dell’Alborj dei Persiani. «Il Tabernacolo della santità di Jehovah, la residenza della Shekinah, è il Santo dei Santi, cioè il cuore del Tempio che è esso stesso il centro di Sion (Gerusalemme), come la Santa Sion è il centro della terra di Israele, come la Terra di Israele è il centro del mondo» (p. 509).
Pure in questa maniera Dante presenta Gerusalemme come il «polo spirituale», come abbiamo avuto occasione di spiegare; ma quando si abbandona il punto di vista propriamente ebraico, ciò diviene soprattutto simbolico e non costituisce più una localizzazione nel senso stretto di questa parola. Tutti i centri spirituali secondari, costituiti in vista dei differenti adattamenti della tradizione primordiale a delle condizioni determinate, sono immagini del centro supremo. In realtà, Sion può non essere altro che uno di questi centri secondari, e, ciò malgrado, può identificarsi simbolicamente con il centro supremo, in virtù di questa analogia, e ciò che abbiamo già detto altrove a proposito della «Terra Santa», che non è solamente la Terra di Israele, permetterà di comprenderlo più facilmente. Un’altra espressione ben degna di nota, come sinonimo di «Terra Santa», è quella di «Terra dei Viventi»; è detto che «la Terra dei Viventi comprende sette terre e il Vulliaud, a questo proposito, rileva che «questa terra è Chanaan, in cui vivevano sette popoli» (vol. II, p. 116).
Senza dubbio, nel senso letterale, questo è esatto; ma, simbolicamente, queste sette terre non potrebbero corrispondere ai sette Dwîpa che, secondo la tradizione indù, hanno il Mêru per centro comune? E, se è così, quando gli antichi mondi o le creazioni anteriori alla nostra sono rappresentati dai «sette re di Edom» (il numero essendo qui in relazione con i sette «giorni» della Genesi), non è forse questa una rassomiglianza troppo accentuata per essere accidentale, con le ere dei sette Manu, contate dall’inizio del Kalpa sino all’epoca attuale? Queste nostre riflessioni vogliono soltanto essere un esempio delle conseguenze che è possibile trarre dai dati contenuti nell’opera del Vulliaud; purtroppo, c’è da temere che la maggior parte dei lettori non possa rendersene conto e dedurle con i mezzi propri. Ma, facendo seguire così la parte critica della nostra esposizione da una parte dottrinale, abbiamo fatto un poco, nei limiti che avevamo dovuto assegnarci, quello che ci saremmo augurati di trovare nello stesso Vulliaud.




[1] Articolo pubblicato su Ignis, 1925. [N.d.C.]

[2] [Pseudonimo del dottor Gérard Encausse (1865-1916), medico francese autore di numerose opere sull’occultismo – N.d.R.]

[3] La Kabbale Juive: histoire et doctrine, Éd. Nourry, Parigi 1923, due volumi in 8°, rispettivamente di pp. 520 e 460.


[4] [Pseudonimo di Alphonse-Louis Constant (1810-1875), fondatore del moderno occultismo –N.d.R.]

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