René Guénon
Forme tradizionali e cicli cosmici
Forme tradizionali e cicli cosmici
Fino ad oggi, per lo studio della Cabala, non esisteva alcun
lavoro d’insieme che, presentasse un carattere veramente serio; infatti, il
libro di Adolphe Frank, malgrado la sua fama, mostra soprattutto fino a qual
punto l’autore, imbevuto di pregiudizi universitari e per di più completamente
digiuno di ebraico, era incapace di comprendere l’argomento che si è sforzato
di trattare; quanto a certe compilazioni tanto indigeste quanto fantasiose,
come quella di Papus[2], è
meglio non parlarne. Vi era dunque una deplorevole lacuna da colmare, e ci
pareva che l’importante lavoro di Paul Vulliaud[3]
dovesse essere precisamente destinato a questo; eppure, benché questo lavoro
sia fatto molto coscienziosamente e benché in esso vi siano molte cose
interessanti, dobbiamo confessare che, leggendolo, abbiamo provato una certa
delusione.
Quest’opera, che saremmo stati lieti di poter raccomandare
senza riserve, non dà tutto quello che sembrava promettere il suo titolo assai
generale, e il suo stesso contenuto è ben lungi dall’essere senza difetti.
A dire il vero, il sottotitolo di «Saggio critico» avrebbe
già potuto metterci in guardia circa lo spirito stesso del libro, perché
sappiamo anche troppo bene cosa intendono gli studiosi «ufficiali» con il
termine «critico»; ma, non appartenendo il Vulliaud a questa categoria, sulle
prime ci siamo soltanto meravigliati che egli abbia fatto uso di una
espressione suscettibile di una così sgradevole interpretazione. In seguito,
abbiamo compreso meglio le intenzioni che, in tal modo, l’autore aveva voluto
fare intravedere; e queste intenzioni le abbiamo trovate chiaramente espresse
in una nota in cui egli dichiara di essersi assegnato un «doppio scopo»:
«Trattare della Cabala e della sua storia, e successivamente illustrare il
metodo scientifico adottato da autori, la maggior parte dei quali hanno una
lusinghiera reputazione» (vol. II, p. 206).
Non si trattava dunque, per Vulliaud, di seguire gli autori
in questione né di assumere i loro pregiudizi, bensì di combatterli, cosa di
cui non possiamo che essere lieti. Solamente, egli ha voluto combatterli sul
loro stesso terreno e, in qualche modo, con le loro stesse armi, ed è così che
ha assunto la veste, per così dire, di critico dei critici stessi. Infatti
anch’egli si pone dal punto di vista della pura e semplice erudizione; ma, per
quanto l’abbia fatto volontariamente, ci si può chiedere fino a qual punto un
atteggiamento siffatto sia stato davvero accorto e vantaggioso. Il Vulliaud
nega di essere cabalista, e lo nega con un’insistenza che ci ha stupito e che
non riusciamo a comprendere bene. Sarebbe dunque di quelli che si gloriano di
essere «profani» e che, sino ad ora, avevamo incontrato soltanto negli ambienti
«ufficiali» e nei confronti dei quali egli ha dato prova di una giusta
severità? Egli arriva fino a qualificarsi «semplice amatore», nella qual cosa
vogliamo ravvisare una auto-calunnia; non si priva così di una buona parte di quell’autorità
che gli sarebbe necessaria di fronte a degli autori di cui discute le
asserzioni? Del resto, questo partito preso di considerare una dottrina da
«profano», vale a dire «dall’esterno», ci sembra escludere ogni possibilità di
comprensione profonda. Di più, anche se questa non è che un’affettazione, non
sarà meno deplorevole, perché, pur avendo raggiunto per proprio conto tale
comprensione, si baderà allora a non farne trasparire nulla, e l’interesse
della parte dottrinale ne sarà fortemente diminuito.
Quanto alla parte critica, l’autore sembrerà più un
polemista che un giudice qualificato, cosa che equivale ad una vera
degradazione. D’altronde, quando una sola opera ha due finalità, una
probabilmente è di troppo e, nel caso del Vulliaud, è spiacevole che la seconda
di esse, così come sono segnalate più sopra, gli faccia troppo spesso
dimenticare la prima, che era invece di gran lunga la più importante. Le
discussioni e le critiche, infatti, si susseguono da un capo all’altro del suo
lavoro, e persino nei capitoli il cui titolo annuncerebbe un’esposizione
puramente dottrinale, derivandone una certa impressione di disordine e di
confusione. D’altra parte, fra queste critiche alcune sono perfettamente
giustificate, ad esempio quelle riguardanti il Renan e il Frank, ed anche certi
occultisti, sono anzi le più numerose; altre invece sono più che contestabili,
in particolare quelle che si riferiscono a Fabre d’Olivet, contro il quale il
Vulliaud sembra riecheggiare certi odi rabbinici (a meno che non abbia ereditato
l’odio dello stesso Napoleone per l’autore della Langue hébraique restituée, ma questa seconda ipotesi è molto meno
verosimile). In tutti i casi, ed anche quando si tratta delle critiche più
legittime, di quelle che possono utilmente contribuire a distruggere delle
reputazioni usurpate, non sarebbe stato possibile dire le stesse cose più
brevemente, e soprattutto più seriamente e con un tono meno aggressivo? L’opera
ne avrebbe certo tratto giovamento, prima, perché non avrebbe avuto l’apparenza
di un lavoro polemico, che ha invece troppo spesso e che dei malintenzionati
potrebbero facilmente ritorcere contro l’autore; poi, ciò che è più grave,
perché l’essenziale vi sarebbe stato meno sacrificato a talune considerazioni
che, in definitiva, sono soltanto accessorie e di limitato interesse.
E vi sono altri difetti deplorevoli: le imperfezioni formali
sono talvolta fastidiose; non vogliamo parlare semplicemente degli errori di
stampa, che sono numerosissimi e di cui gli errata non rettificano che un’infima
parte, ma di certe mancate correzioni, troppo frequenti, che è difficile
attribuire al tipografo, anche con una gran dose di buona volontà. Vi sono pure
diversi lapsus, veramente a
sproposito; ne abbiamo rilevato un certo numero e, cosa curiosa, essi si
trovano specialmente nel secondo volume, come se questo fosse stato scritto più
affrettatamente. Così, ad esempio, il Frank non è stato «professore di
filosofia al Collegio Stanislas» (p. .241), ma al Collegio di Francia, il che è
ben differente. Ancora: il Vulliaud denomina «Cappelle» e talora anche
«Capele», l’ebraizzante Louis Cappel, di cui possiamo ristabilire l’esatto nome
con tanta maggior sicurezza in quanto, scrivendo queste righe, abbiamo sotto
gli occhi la sua stessa firma. Il Vulliaud, dunque, avrebbe visto questo nome
solamente sotto una forma latinizzata? Tutto questo non è gran che; ma, alla p.
26, è questione di un nome divino di 26 lettere e, in seguito, si trova che
questo nome ne ha 42; questo passaggio è veramente incomprensibile, e ci
chiediamo se non vi sia qualche omissione. Indicheremo un’altra negligenza del
medesimo ordine, ma che è tanto più grave, in quanto è la causa di una vera
ingiustizia: criticando un redattore dell’Enciclopedia
Britannica, il Vulliaud termina con queste parole: «Non si poteva attendere
una salda logica da un autore che nello stesso articolo ritiene che si siano
troppo sottovalutate le dottrine cabalistiche (absurdly over-estimated) e, contemporaneamente, che lo Zohar è un farrago ol absurdity» (vol. II, p. 418). Le parole inglesi sono
state citate dallo stesso Vulliaud; ora, over-estimated
non vuol dire «sottovalutato» (che sarebbe under-estimated),
ma sibbene «sopravvalutato», che è precisamente l’opposto; e così, quali che
siano poi gli errori contenuti nell’articolo di quest’autore, la contraddizione
che gli viene rimproverata, in realtà non vi si trova per niente. Certamente,
questi sono soltanto dettagli, ma, quando ci si mostra così severi verso altri
e sempre pronti a coglierli in difetto, non ci si dovrebbe sforzare di essere
irreprensibili?
Nella trascrizione delle parole ebraiche vi è una mancanza
di uniformità davvero spiacevole; sappiamo bene che nessuna trascrizione può
essere perfettamente esatta, ma almeno, quando se ne è adottata una, quale che
sia, sarebbe preferibile attenervisi costantemente. Di più, vi sono alcuni
termini che sembra siano stati tradotti con troppa fretta, e per i quali non
sarebbe stato difficile trovare un’interpretazione più soddisfacente; ne daremo
subito un esempio preciso. Alla p. 49 del volume II è rappresentata una figura
di teraphim sulla quale è iscritta,
fra le altre, la parola luz; il
Vulliaud ha riprodotto i vari sensi del verbo luz dati dal Buxtorf, facendo seguire ciascuno di essi dal punto
interrogativo, talmente gli sono sembrati poco applicabili in questo caso, ma
non ha pensato che esiste anche un sostantivo luz, che significa ordinariamente «mandorla» o «nocciolo» (e pure
«mandorlo», perché designa in pari tempo l’albero e il suo frutto). Ora, questo
stesso sostantivo è, nel linguaggio rabbinico, il nome di una particella
corporale indistruttibile, alla quale l’anima resterebbe legata dopo la morte
(ed è curioso notare che questa tradizione ebraica ha ispirato, con ogni
probabilità, talune teorie di Leibniz); quest’ultimo significato è certamente
il più plausibile e d’altronde è confermato, per noi, dal posto stesso che la
parola luz occupa nella figura.
L’autore ha talvolta il torto di affrontare incidentalmente
argomenti sui quali, evidentemente, è molto meno informato di quanto non sia
sulla Cabala, e di cui avrebbe ben potuto dispensarsi dal parlare, il che gli
avrebbe evitato alcuni abbagli che, per quanto scusabili siano (poiché è
scontato che non è possibile avere pari competenza in tutti i domini), non possono
che nuocere ad un lavoro serio. È così che abbiamo trovato (vol. II, p. 377) un
passaggio dove si parla di una cosiddetta «teosofia cinese» nella quale abbiamo
stentato a riconoscere il Taoismo, che non è una «Teosofia» secondo nessuna
delle accezioni della parola, ed il cui riassunto, fatto non sappiamo in base a
quale fonte (perché qui, per l’appunto, manca il riferimento) è eminentemente
fantasioso. Per esempio «la natura attiva, tien
= il cielo» viene contrapposta alla «natura passiva, kouen = terra»; ora, Kouen
non ha mai avuto il significato di «terra», e le espressioni «natura attiva» e
«natura passiva» fanno molto meno pensare a delle concezioni dell’Estremo
Oriente che alla «natura naturante» ed alla «natura naturata» di Spinoza. Con
la massima semplicità sono state confuse qui due dualità differenti, quella
della «perfezione attiva», Khien, e
quella della «perfezione passiva», Kouen
(diciamo «perfezione» e non «natura»), e quella del «cielo», tien, e della «terra», ti.
Poiché siamo stati indotti a parlare di dottrine orientali,
faremo a questo proposito un’altra osservazione: dopo aver rilevato molto
giustamente il disaccordo che regna fra gli egittologi o gli altri
«specialisti» dello stesso genere, il che fa sì che sia impossibile fidarsi delle
loro opinioni, il Vulliaud segnala che la stessa cosa capita fra gli indianisti
(vol. II, p. 363), il che è esatto; ma come non si è accorto che quest’ultimo
caso non era paragonabile agli altri? Infatti, quando si tratta di popoli come
gli antichi Egiziani e gli Assiri, scomparsi senza lasciare successori
legittimi, non abbiamo evidentemente alcun mezzo di controllo diretto, ed è
lecito dar prova di un certo scetticismo circa il valore di ricostruzioni
frammentarie ed ipotetiche; ma, al contrario, per l’India o la Cina, le cui
civiltà continuano fino ai nostri giorni e sono tuttora viventi, è
perfettamente possibile sapere a cosa attenersi; quel che importa non è tanto
ciò che dicono gli indianisti, ma quel che pensano gli stessi Indù. Il
Vulliaud, che ha cura di ricorrere soltanto a delle fonti ebraiche per sapere
che cosa è veramente la Cabala, ed ha in questo tutte le ragioni, poiché la
Cabala è la stessa tradizione ebraica, potrebbe ammettere che si debba agire
altrimenti quando si vogliano studiare altre tradizioni?
Vi sono altre cose che il Vulliaud non conosce molto meglio
delle dottrine dell’Estremo Oriente, e che pure avrebbero dovuto essergli più
accessibili, non foss’altro che per il fatto di essere occidentali. Così, ad
esempio, il Rosicrucianesimo, su cui non pare saperne molto più degli storici
«profani» e «ufficiali», e di cui sembra essergli sfuggito il carattere
essenzialmente ermetico. Al riguardo, sa soltanto che si tratta di qualcosa di
ben diverso dalla Cabala (l’idea occultista e moderna di una «Rosa-Croce
Cabalistica» è infatti una pura fantasia), ma, per appoggiare questa asserzione
e non limitarsi ad una semplice negazione, sarebbe stato necessario dimostrare
precisamente che la Cabala e l’Ermetismo sono due forme tradizionali distinte
in tutto e per tutto. Sempre in tema di Rosicrucianesimo, non pensiamo che si
possa «procurare una piccola emozione ai notabili della scienza classica»
ricordando che Cartesio ha cercato di mettersi in contatto con i Rosa-Croce
durante il suo soggiorno in Germania (vol. II, p. 235), perché si tratta di un
fatto notorio; quel che è certo è che non vi poté riuscire, e lo spirito stesso
delle sue opere, contrario quanto è possibile ad ogni esoterismo, è insieme la
prova e la spiegazione di questo scacco. È sorprendente veder citare, come
l’indizio di una possibile affiliazione di Cartesio alla Fratellanza, una
dedica (quella del Thesaurus mathematicus),
che è manifestamente ironica e dove al contrario si sente tutto il dispetto di
un uomo che non aveva potuto ottenere l’affiliazione cercata. Ancora più
singolari sono gli errori del Vulliaud riguardo alla Massoneria; subito dopo
essersi burlato di Éliphas Lévi[4], il
quale in effetti ha aggiunto confusioni a confusioni quando ha voluto mettersi
a parlare di Cabala, il Vulliaud, parlando della Massoneria, formula delle
affermazioni che non sono certo meno divertenti. Citiamo il brano destinato a
dimostrare che non vi è nessun legame fra la Cabala e la Massoneria: «Vi è
un’osservazione da fare, circa il fatto di limitare la Massoneria alle
frontiere europee. La Massoneria è universale, mondiale. È essa parimenti
cabalistica presso i Cinesi e i Negri?» (vol. II, p. 319). Certamente, le
società segrete cinesi e africane (le ultime si riferiscono più specialmente a
quelle del Congo) non hanno avuto alcun rapporto con la Cabala, ma non ne hanno
avuti di più con la Massoneria; e se questa non è «limitata alle frontiere
europee», è unicamente perché gli Europei l’hanno introdotta nelle altre parti
del mondo.
Ed ecco una nota non meno curiosa: «Come si spiega questa
anomalia (se si ammette che la Massoneria è di ispirazione cabalistica):
frammassone Voltaire, che provava solo disprezzo per la razza ebraica?» (p.
324). Il Vulliaud ignora dunque che Voltaire non fu accolto nella Loggia «Les Neuf Sœurs» che a titolo puramente
onorifico, e soltanto sei mesi prima della sua morte? D’altronde, se anche
avesse scelto un esempio più felice, questo non avrebbe provato ancora nulla,
poiché vi sono molti Massoni, dovremmo dire addirittura la maggior parte,
persino nei gradi più alti, ai quali è estranea ogni conoscenza reale della
Massoneria (e potremmo includere fra questi certi dignitari del Grande Oriente
di Francia che il Vulliaud, senza dubbio suggestionato dai loro titoli, cita a
torto come delle autorità). Il nostro autore sarebbe stato meglio ispirato
invocando, a sostegno della sua tesi, il fatto che esistono, in Germania e in
Svezia, delle organizzazioni massoniche da cui i Giudei sono rigorosamente
esclusi; bisogna pensare che non ne sapesse niente, poiché non vi ha fatto la
minima allusione.
È pure interessante estrarre le frasi che seguono, dalla
nota che conclude il medesimo capitolo (p. 328): «Parecchie persone potrebbero
rimproverarci di aver ragionato come se vi fosse una forma soltanto di
Massoneria. Noi non ignoriamo gli anatemi della Massoneria spiritualistica
contro il Grande Oriente di Francia ma, tutto sommato, consideriamo il
conflitto fra le due scuole massoniche come una lite in famiglia». Faremo
osservare che non esistono soltanto «due scuole massoniche», ma ve n’è un gran
numero, che il Grande Oriente di Francia, come del resto quello d’Italia, non è
riconosciuto dalle altre organizzazioni, perché rigetta taluni land marks o principi fondamentali della
Massoneria, il che costituisce dopo tutto una «lite» abbastanza seria (mentre,
fra le altre «scuole», le divergenze sono lungi dall’essere altrettanto gravi).
Quanto all’espressione «Massoneria spiritualistica», essa non corrisponde
assolutamente a niente, visto che si tratta di un’invenzione di alcuni
occultisti, di cui il Vulliaud è, in generale, meno pronto ad accettare le
suggestioni. E, poco oltre, vediamo menzionati come esempi di «Massoneria
spiritualistica» il Ku-Klux-Klan e
gli Orangisti (supponiamo si tratti del Royal
Order of Orange), vale a dire due associazioni semplicemente protestanti,
che senza dubbio possono annoverare dei Massoni fra i loro membri, ma che, in
se stesse, non hanno più rapporti con la Massoneria di quanti non ne abbiano le
società segrete del Congo, di cui ci siamo occupati in precedenza. Sicuramente,
il Vulliaud ha tutto il diritto di ignorare tutte queste cose ed altre ancora e
non pensiamo certo di dovergliene fare un rimprovero; ma, ancora una volta, che
cosa l’obbligava a parlarne, visto che queste cose erano un po’ al di fuori
dell’argomento e che, d’altra parte, egli non ha avuto la pretesa di essere
assolutamente completo, sul tema? In ogni caso, se ci teneva, avrebbe durato
forse meno fatica a raccogliere, almeno su alcuni punti, delle informazioni
sufficientemente esatte, che non a scoprire una quantità di libri rari e
sconosciuti, che si compiace di citare con una certa ostentazione.
Beninteso, tutte queste riserve non ci impediscono di
riconoscere i meriti effettivi dell’opera, né di rendere omaggio allo sforzo
considerevole di cui è prova; al contrario, se abbiamo tanto insistito sui suoi
difetti, è perché riteniamo che significhi rendere un servigio ad un autore,
fargli delle critiche concernenti punti ben precisi. Ora dobbiamo dire che il
Vulliaud, contrariamente agli autori moderni che lo contestano (e fra questi,
cosa strana, vi sono molti Israeliti), ha molto bene stabilito l’antichità
della Cabala, il suo carattere specificamente giudaico e strettamente
ortodosso; è di moda infatti, tra i critici «razionalisti», contrapporre la
tradizione esoterica al rabbinismo exoterico, come se questi non fossero i due
aspetti complementari di un’unica dottrina. Nello stesso tempo, Vulliaud ha
distrutto un certo numero di leggende troppo diffuse (grazie a questi stessi
«razionalisti») e prive di ogni fondamento, come quella che pretende di
ricollegare la Cabala alle dottrine neo-platoniche, quella di Léon che
attribuisce lo Zohar a Mosè,
facendone così un’opera che data soltanto dal XIII secolo, quella che vuol fare
di Spinoza un cabalista, ed altre ancora, più o meno importanti. Inoltre, egli
ha perfettamente stabilito che la Cabala non è affatto «panteistica», come
hanno preteso taluni (certo a causa del fatto che essi credono di poterla
mettere in relazione con le teorie di Spinoza, che sono, esse sì, davvero
«panteistiche»); e giustamente osserva poi che «si è fatto uno strano abuso di
questo termine», applicato a casaccio e attraverso alle concezioni più
disparate, con la sola intenzione di «cercare di ingenerare spavento» (vol. I,
p. 429) e anche, aggiungeremo, perché si crede in tal modo di essere dispensati
da ogni discussione ulteriore. Questa assurda accusa è gratuitamente e
frequentemente rivolta anche contro tutte le dottrine orientali; ma essa
produce sempre il suo effetto sopra taluni spiriti timorati, benché la parola
«panteismo», a forza d’essere adoperata abusivamente, finisca per non
significare più nulla; quando, dunque, si comprenderà che le denominazioni
inventate per i sistemi della filosofia moderna non sono applicabili che a
questi esclusivamente?
Il Vulliaud mostra ancora come una pretesa «filosofia
mistica» dei Giudei, diversa dalla Cabala, è cosa che non è mai esistita in
realtà; ma ha poi il torto di impiegare la parola «misticismo» per qualificare
la Cabala stessa. Certo, questo dipende dal senso che si dà alla parola, e
quello che egli indica (che ne farebbe press’a poco un sinonimo di «Gnosi» o
conoscenza trascendente) sarebbe sostenibile se ci si dovesse preoccupare
soltanto dell’etimologia, poiché è esatto che «misticismo» e «mistero» hanno la
stessa radice (vol. I, pp. 124 e 131-132); ma, in definitiva, bisogna pure
tener conto dell’uso consolidato che ne ha modificato e ristretto
considerevolmente il significato. D’altra parte, in entrambi i casi non ci è
possibile accettare l’affermazione che «il misticismo è un sistema filosofico»
(p. 126); e se troppo spesso, nel Vulliaud, la Cabala assume un’apparenza
«filosofica», è questa una conseguenza del punto di vista «esteriore» al quale
egli ha voluto attenersi. Per noi la Cabala è assai più una metafisica che una
filosofia, ed è ben più iniziatica che mistica; d’altronde, avremo forse
occasione di esporre le differenze essenziali fra la via degli iniziati e quella
dei mistici (le quali, si noti di sfuggita, corrispondono rispettivamente alla
«via secca» ed alla «via umida» degli alchimisti). Comunque sia, i vari
risultati che abbiamo segnalato potrebbero essere ormai considerati
definitivamente acquisiti, se l’incomprensione di qualche preteso sapiente non
venisse sempre a rimettere tutto in discussione, riportandosi a un punto di
vista storico, a cui il Vulliaud ha accordato (saremmo tentati di dire
disgraziatamente, senza per questo misconoscere l’importanza relativa) fin
troppo spazio, rispetto al punto di vista propriamente dottrinale.
Per quest’ultimo, indicheremo come particolarmente
interessanti, nel primo volume i capitoli concernenti En-Soph e le Sephiroth
(cap. LX), la Shekinah e Metatron (cap. XIII), quantunque sarebbe
stato da augurarsi di trovarvi un po’ più di argomentazioni e di precisazioni,
come pure in quello in cui sono esposti i procedimenti cabalistici (cap. V). In
effetti, ci chiediamo se coloro i quali non hanno alcuna conoscenza precedente
della Cabala verrebbero sufficientemente illuminati dalla lettura di tali
capitoli.
Per quanto concerne quelle che si potrebbero chiamare le
applicazioni della Cabala, le quali, benché secondarie rispetto alla dottrina
pura, non sono certo da trascurare, menzioneremo nel secondo volume i capitoli
dedicati al rituale (cap. XIV), agli amuleti (cap. XV) ed alle concezioni
messianiche (cap. XVI). Essi contengono delle cose davvero nuove o almeno assai
poco note; in particolare, si possono trovare nel cap. XVI numerose notizie
sull’aspetto sociale e politico che contribuisce in buona parte al dare alla
tradizione cabalistica il suo carattere nettamente e peculiarmente giudaico.
Per come si presenta nel suo insieme, l’opera del Vulliaud ci pare soprattutto
adatta a rettificare un gran numero di idee false, il che è sicuramente
qualcosa, e anzi molto, ma non è forse abbastanza per un lavoro così importante
e che vuol essere più di una semplice introduzione. Se l’autore ne darà un
giorno una nuova edizione, è auspicabile che tratti per quanto possibile
separatamente la parte dottrinale, che sfoltisca sensibilmente la prima parte,
ampliando ulteriormente la seconda, anche se, così facendo. correrà il rischio
di non passare più per il «semplice amatore», di cui ha voluto assegnarsi il
ruolo troppo limitato.
Per concludere questa disamina del libro del Vulliaud,
faremo ancora qualche osservazione su di una questione che merita una
particolare attenzione, e che ha un certo rapporto con le considerazioni che
abbiamo già avuto occasione di esporre, specialmente nel nostro studio su Le Roi du Monde; intendiamo parlare
della Shekinah e di Metatron. Nel suo significato più ampio,
la Shekinah è la «presenza reale»
della Divinità; e bisogna notare per prima cosa che i passi della Scrittura
dove ne è fatta menzione tutta speciale sono soprattutto quelli in cui si
tratta dell’istituzione di un centro spirituale: la costruzione del
Tabernacolo, l’edificazione dei Templi di Salomone e di Zorobabele. Un tale
centro, costituito in condizioni regolarmente definite, doveva essere, in
effetti, il luogo della manifestazione divina, sempre rappresentata come
«Luce»; e, sebbene il Vulliaud neghi ogni rapporto fra la Cabala e la
Massoneria (pur riconoscendo che il simbolo del «Grande Architetto» è una
metafora abituale per i rabbini), l’espressione di «luogo illuminatissimo e
regolarissimo» che quest’ultima ha conservato, pare proprio essere un ricordo
dell’antica scienza sacerdotale che presiedeva alla costruzione dei templi, e
che del resto non era esclusiva dei Giudei.
Non è il caso di occuparci qui della teoria delle «influenze
spirituali» (preferiamo questa espressione a quella di «benedizioni» per
tradurre l’ebraico berakoth, tanto
più che è questo il senso che ha conservato nettamente in arabo la parola Barakah); ma, anche limitandosi a
considerare le cose da questo solo punto di vista, sarebbe possibile spiegare
il detto di Elia Levita, riportato dal Vulliaud: «I Maestri della Cabala hanno
in proposito grandi segreti».
Ora, la questione è tanto più complessa in quanto la Shekinah si presenta sotto molteplici
aspetti; essa ne ha due principali: l’uno interno e l’altro esterno (vol. I, p.
495); ma qui il Vulliaud avrebbe potuto spiegarsi un po’ più chiaramente, tanto
più che, malgrado la sua intenzione di limitarsi a trattare della «Cabala
ebraica», egli ha segnalato proprio «i rapporti tra le teologie ebraica e
cristiana, a proposito della Shekinah»
(p. 493). Ora vi è, nella tradizione cristiana, una frase che designa con la
massima possibile chiarezza i due aspetti di cui si tratta: Gloria in excelsis Deo, et in terra Pax
hominibus bonae voluntatis. Le parole Gloria
e Pax si riferiscono rispettivamente
all’aspetto interno, in rapporto al Principio, ed a quello esterno, in rapporto
al mondo manifestato; e se si considerano in tal modo queste due parole, si
comprenderà immediatamente perché vengono pronunciate dagli Angeli (Malakim) per annunciare la nascita del
«Dio con noi» o «in noi» (Emmanuel).
Si potrebbe anche, per il primo aspetto, ricordare la teoria dei teologi circa
la «Luce di gloria» nella quale e per la quale si opera la visione beatifica (in excelsis); e, per il secondo, diremo
ancora che la «Pace» nel senso esoterico, è indicata dappertutto come
l’attributo spirituale dei centri spirituali stabiliti in questo mondo (terra). D’altronde, il termine arabo Sakinah, manifestamente identico a
quello ebraico, si traduce con «Grande Pace», che è l’esatto equivalente della Pax Profunda dei Rosa-Croce, e, per
questa via, si potrebbe senza dubbio spiegare che cosa questi intendevano per
«Tempio dello Spirito Santo». Parimenti si potrebbero interpretare in modo
preciso un certo numero di testi evangelici, tanto più che «la tradizione
segreta concernente la Shekinah
avrebbe qualche rapporto con la luce del Messia» (p. 503). È dunque senza
intenzione che il Vulliaud, dando quest’ultima indicazione, dice trattarsi
della tradizione «riservata a coloro che perseguono il cammino che conduce al Pardes», cioè, come abbiamo spiegato
altrove, al centro spirituale supremo?
Questo induce ancora ad un’altra osservazione: poco oltre, è
questione di un «mistero relativo al giubileo» (p. 506), il quale si ricollega
in un certo senso all’idea di «Pace» e, a questo proposito, si cita il seguente
passo dello Zohar (III, 586): «Il
fiume che esce dall’Eden porta il nome di Jobel,
come quello di Geremia (XVII, 8): “Esso stenderà le sue radici verso il fiume”,
da cui risulta che l’idea centrale del Giubileo è il ritorno di tutte le cose
al loro stato primitivo». È chiaro che qui si tratta del ritorno allo «stato
primordiale» considerato da tutte le tradizioni e di cui ci siamo occupati nel
nostro studio su Dante; e, quando si aggiunge che «il ritorno di tutte le cose
allo stato originario annunzierà l’era messianica» (p. 507), chi avrà letto
questo studio potrà ricordarsi ciò che abbiamo detto circa i rapporti fra il
«Paradiso terrestre» e la «Gerusalemme celeste». D’altra parte, dovunque e
sempre, nelle diverse fasi della manifestazione ciclica, ciò di cui si tratta è
il Pardes, il centro del mondo, dal
simbolismo tradizionale di tutti i popoli paragonato al cuore, centro
dell’essere e «residenza divina» (Brahma-pura
nella dottrina indù), come il tabernacolo che ne è l’immagine e che, per questo
motivo, è chiamato in ebraico mishkan
o «abitacolo di Dio» (p. 493), termine che ha la stessa radice della parola Shekinah. Da un altro punto di vista, la
Shekinak è la sintesi delle Sephiroth; ora, nell’albero sefìrotico,
la «colonna di destra» è il lato della Misericordia, e la «colonna di sinistra»
è il lato del Rigore; dobbiamo dunque ritrovare questi due aspetti anche nella Shekinah. Infatti, «se l’uomo pecca e
s’allontana dalla Shekinah, cade
sotto il potere delle potenze (Sârim)
che dipendono dal Rigore» (pagina 507), e allora la Shekinah è detta «mano di rigore», il che ricorda immediatamente il
ben noto simbolo della «mano di giustizia». Ma, al contrario, se l’uomo si
avvicina alla Shekinah, egli si
libera e la Shekinah è la «mano
destra» di Dio, vale a dire che la «mano di giustizia» diviene allora la «mano
benedicente». Sono questi i misteri della «Casa di giustizia» (Beith-Din), che è ancora un’altra
designazione del Centro spirituale supremo; e c’è appena bisogno di far notare
che i due lati considerati sono quelli in cui si ripartiscono gli eletti e i
dannati nelle rappresentazioni cristiane del «Giudizio ultimo». Si potrebbe
ugualmente stabilire un accostamento con le due vie che i Pitagorici
raffiguravano con la lettera Y, simboleggiate exotericamente dal Mito di Ercole
fra la Virtù e il Vizio; con le due porte celeste e infernale, associate,
presso i Latini, al simbolismo di Giano; con le due fasi cicliche ascendente e
discendente che, presso gli Indù, venivano similmente ricollegate al simbolismo
di Ganesha. Infine, è facile
comprendere per questa via l’autentico significato di espressioni come quelle
di «retta intenzione» e di «buona volontà» (Pax
hominibus bonae voluntatis, e chi conosce i numerosi simboli ai quali
abbiamo qui appena accennato, si renderà conto che non a caso la festa di
Natale coincide con il solstizio invernale), quando si ha cura di lasciare da
parte tutte le interpretazioni esteriori, filosofiche e morali, date loro a
partire dagli stoici, fino a Kant.
«La Cabala dà alla Shekinah
un Paraedro, che porta dei nomi identici ai suoi, e che possiede per
conseguenza i medesimi caratteri» (pp. 496-498), e che naturalmente ha tanti
aspetti diversi quanti la stessa Skekinah;
il suo nome è Metatron, che è
numericamente equivalente a quello di Shaddai,
l’«Onnipotente» (che si dice sia il nome del Dio di Abramo). L’etimologia del
termine Metatron è molto incerta; a
questo proposito, il Vulliaud riferisce parecchie ipotesi, e una di queste la
fa derivare dal caldaico Mitra che
significa «pioggia» e che ha anche, quanto alla sua radice, un certo rapporto
con la «luce». Se è così, d’altronde, la rassomiglianza con il Mitra indù e zoroastriano non
costituisce una ragione sufficiente per ammettere un «prestito» del giudaismo a
dottrine straniere, non più di quanto possa costituirlo la parte attribuita
alla pioggia nelle varie tradizioni orientali. A questo proposito, faremo
notare che la tradizione ebraica parla di una «rugiada di luce» che emana
dall’«Albero della Vita» e per mezzo della quale si effettuerà la resurrezione
dei morti (p. 99), come pure di una «effusione di rugiada» che rappresenta
l’influenza celeste comunicantesi a tutti i mondi (p. 465) e che richiama
singolarmente il simbolismo alchemico e rosicruciano.
«La parola Metatron
implica tutte le accezioni di guardiano, di Signore, di inviato, di mediatore»
(p. 499); esso è «l’Angelo della Faccia», ed anche «il Principe del Mondo» (Sâr ha-ôlam); esso è «l’autore delle
teofanie, delle manifestazioni divine nel mondo sensibile» (p. 492). Diremmo
volentieri che è il «Polo celeste» e, poiché questo ha il suo riflesso nel
«Polo terrestre» con il quale è in relazione diretta secondo l’«asse del
mondo», non è forse questo il motivo per cui si dice che Metatron stesso istruì Mosè? Citiamo ancora queste righe: «Il suo
nome è Mikael, il Gran Prete che è
olocausto e oblazione davanti a Dio. E tutto ciò che gli Israeliti fanno sulla
terra, viene compiuto in conformità con quanto accade nel mondo celeste. Il
Grande Pontefice quaggiù simboleggia Mikael,
principe della Clemenza… In tutti i passi della Scrittura in cui si parla
dell’apparizione di Mikael, si tratta
della gloria della Shekinah» (pp.
500-501). Quello che qui viene detto degli Israeliti può esser detto di tutti i
popoli che possiedono una tradizione ortodossa; a maggior ragione va detto dei
rappresentanti della tradizione primordiale, da cui derivano tutte le altre e a
cui tutte le altre sono subordinate. D’altra parte, Metatron non ha soltanto l’aspetto della Clemenza, ma anche quello
della Giustizia; nel mondo celeste non vi è soltanto il «Gran Prete» (Kohen ha-gadol), ma anche il «Gran
Principe» (Sâr ha-gadol), il che
significa che in lui si trovano tanto il principio del potere regale quanto
quello del potere sacerdotale o pontificale, al quale corrisponde propriamente
la funzione di «mediatore».
Parimenti, bisogna osservare che Melek, «re», e Maleak,
«angelo» o «inviato», non sono in realtà che due forme di un’unica parola; di
più, Malaki, «il mio inviato» (cioè
l’inviato di Dio ovvero «l’angelo nel quale è Dio», Maleak ha-Elohim) è l’anagramma di Mikael. Conviene aggiungere che, se Mikael si identifica con Metatron,
come abbiamo appena visto, ciononostante non ne rappresenta che un aspetto;
accanto alla faccia luminosa vi è anche una faccia oscura, e qui siamo di fronte
ad altri misteri. Infatti può sembrare strano che Samuele sia ugualmente
chiamato Sâr ha-ôlam, e siamo
alquanto stupiti che il Vulliaud si sia limitato a registrare questo fatto
senza il minimo commento (p. 512). È quest’ultimo aspetto, e soltanto questo,
che è «il genio di questo mondo», in un senso inferiore, il Princeps huius mundi di cui si parla nel
Vangelo; e il suo rapporto con Metatron di cui è come l’ombra,
giustifica l’impiego di una stessa designazione in un duplice senso, e, nello
stesso tempo, fa comprendere perché il numero 666 dell’Apocalisse è anche un numero solare (esso è formato in particolare
dal nome Sorath, demone del Sole, ed
opposto come tale all’angelo Mikael).
Del resto, il Vulliaud rileva che, secondo Sant’Ippolito, «il Messia e
l’Anticristo hanno entrambi per emblema il leone» (vol. II, p. 373), che è
parimenti un simbolo solare; e la medesima osservazione potrebbe essere fatta
per il serpente e per molti altri simboli. Dal punto di vista cabalistico, si
tratta ancora delle due facce opposte del Metatron;
più in generale, vi sarebbe la possibilità di sviluppare, circa il doppio
significato dei simboli, tutta una teoria che ancora sembra non sia mai stata
esposta con chiarezza. Almeno per il momento non insisteremo oltre su questo
aspetto della questione, che è forse uno di quelli dove si incontrano le
maggiori difficoltà, per quanto attiene alla sua spiegazione.
Ma torniamo ancora alla Shekinah:
essa è rappresentata nel mondo inferiore dall’ultima delle dieci Sephiroth, che è denominata Malkuth, cioè il «Regno», designazione
alquanto degna di nota, dal nostro punto di vista (così come quella di Tsedek, «il Giusto» che ne è talora un
sinonimo); e Malkuth è «il serbatoio
dove confluiscono le acque provenienti dal fiume dall’alto, vale a dire tutte
le emanazioni (grazie o influenze spirituali) che essa sparge in abbondanza»
(vol. I, p. 509). Questo «fiume dall’alto» e le acque che ne discendono ci
ricordano stranamente il ruolo attribuito al fiume celeste Gangâ nella tradizione indù, e si potrebbe anche osservare che la Shakti, di cui Gangâ è un aspetto, non è priva di una certa analogia con la Shekinah, non foss’altro che a causa
della funzione «provvidenziale» che è loro comune. Sappiamo bene che l’abituale
esclusivismo delle concezioni giudaiche non accetta di buon grado questi
accostamenti, tuttavia essi non sono per questo meno reali, e per noi, che non
abbiamo l’abitudine di lasciarci influenzare da certi pregiudizi, constatare
tali accostamenti presenta un grandissimo interesse, perché vi troviamo la
conferma della essenziale unità dottrinale, che si dissimula sotto l’apparente
diversità delle forme esteriori.
Il serbatoio delle acque celesti è naturalmente identico al
centro spirituale del nostro mondo: di là si dipartono i quattro fiumi del Pardes, dirigendosi verso i quattro
punti cardinali. Per gli Ebrei, questo centro spirituale è la collina santa di
Sion, alla quale danno l’appellativo di «cuore del mondo», e che in tal modo
diviene per essi l’equivalente del Mêru
degli Indù o dell’Alborj dei
Persiani. «Il Tabernacolo della santità di Jehovah,
la residenza della Shekinah, è il
Santo dei Santi, cioè il cuore del Tempio che è esso stesso il centro di Sion
(Gerusalemme), come la Santa Sion è il centro della terra di Israele, come la
Terra di Israele è il centro del mondo» (p. 509).
Pure in questa maniera Dante presenta Gerusalemme come il
«polo spirituale», come abbiamo avuto occasione di spiegare; ma quando si
abbandona il punto di vista propriamente ebraico, ciò diviene soprattutto
simbolico e non costituisce più una localizzazione nel senso stretto di questa
parola. Tutti i centri spirituali secondari, costituiti in vista dei differenti
adattamenti della tradizione primordiale a delle condizioni determinate, sono
immagini del centro supremo. In realtà, Sion può non essere altro che uno di
questi centri secondari, e, ciò malgrado, può identificarsi simbolicamente con
il centro supremo, in virtù di questa analogia, e ciò che abbiamo già detto
altrove a proposito della «Terra Santa», che non è solamente la Terra di
Israele, permetterà di comprenderlo più facilmente. Un’altra espressione ben
degna di nota, come sinonimo di «Terra Santa», è quella di «Terra dei Viventi»;
è detto che «la Terra dei Viventi comprende sette terre e il Vulliaud, a questo
proposito, rileva che «questa terra è Chanaan, in cui vivevano sette popoli»
(vol. II, p. 116).
Senza dubbio, nel senso letterale, questo è esatto; ma,
simbolicamente, queste sette terre non potrebbero corrispondere ai sette Dwîpa che, secondo la tradizione indù,
hanno il Mêru per centro comune? E,
se è così, quando gli antichi mondi o le creazioni anteriori alla nostra sono
rappresentati dai «sette re di Edom» (il numero essendo qui in relazione con i
sette «giorni» della Genesi), non è
forse questa una rassomiglianza troppo accentuata per essere accidentale, con
le ere dei sette Manu, contate
dall’inizio del Kalpa sino all’epoca
attuale? Queste nostre riflessioni vogliono soltanto essere un esempio delle
conseguenze che è possibile trarre dai dati contenuti nell’opera del Vulliaud;
purtroppo, c’è da temere che la maggior parte dei lettori non possa rendersene
conto e dedurle con i mezzi propri. Ma, facendo seguire così la parte critica
della nostra esposizione da una parte dottrinale, abbiamo fatto un poco, nei
limiti che avevamo dovuto assegnarci, quello che ci saremmo augurati di trovare
nello stesso Vulliaud.
[1] Articolo pubblicato su Ignis, 1925. [N.d.C.]
[2] [Pseudonimo del dottor Gérard Encausse (1865-1916),
medico francese autore di numerose opere sull’occultismo – N.d.R.]
[3] La Kabbale Juive:
histoire et doctrine, Éd. Nourry,
Parigi 1923, due volumi in 8°, rispettivamente di pp. 520 e 460.
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