Il capovolgimento psicanalitico: da Freud a Jung* [1]
Nel suo libretto consacrato alla mistica ebraica [2],
Ch. Mopsik evocava recentemente, senza discuterla, l’esistenza d’una
«tesi abbastanza nuova (che) vede nella cabala l’ispiratrice del
pensiero di Freud, il padre della psicanalisi». Questa tesi, abbastanza
strana del resto, non ha provocato praticamente nessuna analisi critica.
Ci proponiamo, in questo primo capitolo, di cercare di capire il senso
di questa presunta filiazione, al fine di dimostrare se, al contrario,
la psicanalisi non rappresenti una versione caricaturale delle antiche
iniziazioni da una parte, e dei principi ermeneutici tradizionali
dall’altra. Una delle caratteristiche più paradossali delle differenti
ideologie che hanno contribuito a plasmare il mondo moderno risiede nel
fatto ch’esse conservano tutte, almeno su certi punti, una struttura e
una vocazione “religiosa”, e questo nonostante i loro presupposti
fondamentalmente antireligiosi.
Questo fenomeno è stato costatato più volte,
soprattutto a proposito del marxismo o anche del messianismo
positivista d’A. Comte. Su questo punto, M. Eliade ha analizzato
attentamente il processo di recupero del mito dell’Età d’Oro,
nel XIX secolo, mettendo in evidenza l’esistenza d’una trasposizione,
parola per parola, delle nozioni escatologiche tradizionali nel seno del
materialismo storico.
Il concetto rivoluzionario di rigenerazione si presenta, lui stesso, come la strana combinazione d’un ideale democratico d’uguaglianza a volte venato d’occultismo [3] o, più curiosamente, d’egittomania [4], prolungando e nello stesso tempo dissacrando l’idea tradizionale di seconda nascita.
Allo stesso modo, la teoria darwiniana
dell’evoluzione degli esseri viventi, il cui impatto su Freud fu
decisivo è stata – come ha rilevato recentemente M. Denton – decisamente
imposta come un vero e proprio dogma laico e questo nonostante il suo carattere «altamente speculativo, del tutto privo di riscontri fattuali diretti …» [5].
Molto rapidamente, una delle maggiori conseguenze spirituali
dell’ipotesi di Darwin sarebbe stata di svuotare radicalmente la
dottrina biblica delle origini al fine di sostituirvi una “mitologia”
opposta, la cui particolarità inedita era la soppressione dello status
privilegiato dell’umanità primordiale.
Ora, il fatto che Freud abbia espresso, come
tutti sanno, l’idea d’una filiazione intellettuale tra Copernico,
Darwin e lui stesso [6],
secondo noi non può comprendersi che grazie a quel che si potrebbe
chiamare: una logica dell’inversione. Così la psicanalisi, come polo
ermeneutico contemporaneo, rappresenterebbe in realtà e più di ogni
altra teoria una sorta di capovolgimento del processo
iniziatico tradizionale; è del resto ciò che affermava M. Eliade, quando
scriveva: «si potrebbe anche considerare la psicanalisi come una forma
degradata d’iniziazione, cioè un’iniziazione accessibile a un mondo
dissacrato (…)» [7]. In altre parole, a un mondo in cui ogni traccia d’iniziazione regolare completa era praticamente scomparsa.
Alcuni hanno potuto d’altro canto assimilare il pensiero freudiano a una manifestazione culturale [8] del “mondo alla rovescia”: questa espressione “popolare” [9] conosciuta a seguito del trattamento apocalittico della crisi sociale.
Detto questo, notiamo che M. Eliade parla qui in effetti, non d’una religione ma d’una iniziazione “degradata” [10].
Ora, l’evidenziare questa struttura apparentemente iniziatica della
psicanalisi ha condotto, più di trent’anni fa, a uno studio
particolarmente interessante su Freud, benché quasi totalmente ignorato [11].
Si tratta dell’opera di D. Bakan intitolata Freud et la tradition mystique juive [12] la cui tesi principale era quella di sostenere il carattere e l’origine cabalistici della psicanalisi [13].
Anche se questa idea ci sembra in fondo poco convincente, la
“dimostrazione” di D. Bakan merita un esame più approfondito. Sebbene
questi fosse consapevole della dimensione laica delle concezioni
freudiane della religione, sottolineava prima di tutto l’attaccamento
dichiarato di Freud alla sua ebraicità in tanto che “fonte d’energia” [14].
L’appartenenza di Freud a numerose organizzazioni ebraiche tra cui il
B’nai Brith di Vienna era il segno di questo attaccamento. Questa
istituzione pseudo-massonica [15]
dove Freud presentò per la prima volta la sua teoria dei sogni era
anche la prova del ruolo svolto, nella vita di quest’ultimo, da
un’associazione che si era data artificialmente una struttura più o meno
“iniziatica”.
Riguardo i presunti legami tra Freud e la Cabala, Bakan osservava in secondo luogo [16]
una somiglianza tra le tecniche mistiche d’Abraham Abulafia e «il
metodo psicanalitico della libera associazione»; aggiungendo che «la
logica dell’universo reale di Dio in Abulafia [17] diverrà per Freud la logica dell’inconscio».
Osservava poi l’esistenza di caratteri comuni tra lo Zohar e gli scritti di Freud, legati soprattutto ai metodi d’interpretazione del linguaggio [18], all’importanza riconosciuta alla sessualità [19], al significato dei sogni [20], al ruolo dei giochi di parole [21],
ecc. Un altro aspetto istruttivo del libro di Bakan evocava attraverso
l’esempio di Sabbataï Zevi le «forti tendenze di Freud all’eresia» [22],
sottolineando la parentela tra il messianismo ebraico eterodosso di J.
Frank o d’Israël Baal Shem Tov (Chassidismo) e il progetto psicanalitico
dello smantellamento della Legge mosaica. È del resto l’interesse verso
Mosè che, secondo Bakan, poteva fornire la chiave del pensiero di Freud
[23]. Come “nuovo legislatore”, Freud doveva infatti abrogare l’antica Legge [24]. Il Mosè “egiziano” [25]
del padre della psicanalisi aveva imposto al popolo ebraico delle
regole di vita troppo coercitive che dovevano essere «rese obsolete dal
progresso e la nuova libertà del mondo occidentale» [26],
per questa ragione. Ma Freud non arriva solo a sostituirsi a Mosè; si è
ben presto anche equiparato a un altro profeta del Vecchio Testamento:
Giuseppe, considerato l’interprete per eccellenza dei sogni [27].
«Va notato (scrive Freud) che il nome di Giuseppe gioca un ruolo
importante nei miei sogni … Il mio ego trova molto facile nascondersi
dietro persone con questo nome, poiché Giuseppe era il nome dell’uomo
famoso nella Bibbia per interpretare i sogni» [28].
Tali sono, brevemente ricordate, le
principali ipotesi del libro di D. Bakan. Le difficoltà ch’esse pongono,
l’abbiamo detto, stanno nel fatto che si trova mescolata la coscienza
del carattere antireligioso del pensiero freudiano all’idea d’una
parentela, se non addirittura d’una continuità, tra questo e il
misticismo ebraico. Ora, se Bakan ha sollevato in questo studio un
problema, se non addirittura il problema della psicanalisi, la risposta ch’egli dà rimane fondamentalmente contraddittoria,
nella misura in cui la funzione ultima dell’analisi e quella della
Cabala ebraica non hanno assolutamente nessun rapporto. Eppure, e a
volte giustamente, Bakan osserva tra le due delle somiglianze che
occorre spiegare bene e questo ci parrebbe alquanto difficile senza
ricorrere all’ipotesi secondo la quale la teoria di Freud sarebbe una
forma d’iniziazione invertita.
Infatti, le analogie formali che
rileva Bakan gli servono solo per giustificare l’idea preconcetta d’una
fondamento cabalistico della psicanalisi. Semplicemente, l’intero
apparato teorico di quest’ultima sembra sconosciuto alla Cabala, e
viceversa. Sostenere ad esempio l’identità dell’estasi intellettuale nel
senso inteso da Abulafia (che è un’illuminazione divina) con «la
conoscenza psicanalitica» appare per lo meno forzato, tenuto conto del
netto ateismo di Freud [29].
Per meglio comprendere queste analogie superficiali, sarebbe forse
necessario prendere in considerazione l’esistenza d’una dimensione para-iniziatica della psicanalisi, che si rivelerebbe essere la sua vera natura. Come l’ha chiarito bene J.-J. Wunenburger nel suo studio Freudisme: cité de savants ou secte néo-gnostique?,
la «scienza freudiana» non sarebbe più, dopo esame, «l’avanguardia d’un
nuovo sapere sull’uomo, ma la più recente reminiscenza d’una saggezza
perduta» [30].
Oppure, forse è la nostalgia d’una gnosi aureolata di mistero che
spinge Bakan a retro-proiettare in un nobile passato mistico le origini
della nuova psicologia. Sempre, paradossalmente, il recente cerca, per
auto-giustificarsi, una gloriosa e antica genealogia. Ma niente nel Bahir né nello Zohar
lascia prevedere Freud. La laicizzazione ch’egli operava della Cabala,
secondo Bakan, è in fondo, appena mascherata, più una rottura che un
prolungamento. Come abbiamo mostrato in precedenza, tutto dalla
formazione dello psicanalista passando per l’interpretazione del
linguaggio, dei numeri, la ricerca fondamentale del senso nascosto dei
sogni, ecc., fa di Freud una sorta di nuovo “messia” incaricato di
diffondere in tutto il mondo una nuova mitologia capace di delucidare,
infine, i misteri della vita psichica [31].
È dunque una grande parte degli oggetti di studio dell’ermeneutica
ebraica tradizionale a trovarsi così captata e investita da un’ideologia
fondamentalmente anti-metafisica. Questo processo d’appropriazione ha
anche potuto dare l’impressione d’una prossimità tra la «cura d’uno
psicanalista e quella d’uno sciamano Cuna», agli occhi d’un antropologo
come Levi-Strauss. Nondimeno, Freud probabilmente non accetterebbe
l’idea sciamanica, assolutamente essenziale, secondo la quale, citando
Eliade, «il malato mentale si rivela un mistico mancato o meglio ancora
un mistico scimmiesco» [32].
Ora, le patologie isteriche in particolare, quelle studiate da Charcot, rientrano tutte in questo scenario [33]. Dall’eziologia psicanalitica deriva di conseguenza una secolarizzazione delle malattie dell’anima. Come sottolinea D. Bakan [34] a proposito d’un testo di Freud intitolato: Une névrose démoniaque au XVIIe siècle,
quel che un tempo appariva «sotto un abito demonologico» è oggi
considerato solo come una mera nevrosi. Freud ammette certo
l’equivalenza tra essa e la “possessione”, ma rifiuta l’esistenza
individuale dei demoni e «la proiezione che il Medioevo aveva fatto
delle sue creazioni psichiche nel mondo esteriore» [35]. La psicanalisi pertanto implica anche una laicizzazione e un’evacuazione del male
sotto la sua forma diabolica. La sua elaborazione d’altronde ha potuto
farsi solo nell’ignoranza di queste cause e, in generale,
dell’antropologia tradizionale. Quando Freud sostiene ad esempio che «in
un’epoca recente che possiamo chiamare prescientifica, l’umanità non di
preoccupava d’interpretare i sogni» [36],
enuncia una falsità raddoppiata da un pregiudizio positivista che, al
momento attuale, sembra inaccettabile. Inoltre Freud non mostra di
conoscere l’onirologia talmudica o le dottrine cabalistiche sulla
sessualità [37] che tuttavia esistono eccome.
A conti fatti, la sua impresa mira apparentemente a un isolamento
ontologico dell’uomo, che lo recide da un Reale trascendente (Dio,
sogno ispirato, ecc.) come da un reale ostile e maligno (demonologia) e
partecipa in questo senso al processo di disincanto del mondo definito da M. Weber [38].
Questo pan-psichismo, paradossalmente [39] antropocentrico, di Freud culmina in modo evidente nella teoria dell’inconscio le cui contraddizioni logiche sono state brillantemente dimostrate da Sartre [40]. Ancora, una stretta equivalenza tra questo “animale temibile” di cui parla Alain [41] e l’antica figura ebraica di Satana, definito da M. Vâlsan come «potenza di dissociazione e di dissoluzione» [42] sembra delle più probabili.
Non è necessario ricordare qui quali sono le
caratteristiche di questo concetto nella psicanalisi. L’importante si
limita per noi a segnalare in che cosa, per Jung ad esempio (come per
Freud) evocando la vita di Sant’Antonio, «il diavolo, è naturalmente la
voce dell’inconscio proprio dell’anacoreta che si leva contro la
repressione violenta della natura individuale» [43].
Vediamo bene, ancora una volta, quanto questa teoria si nutre di
concezioni teologiche tradizionali e delle sue dipendenze, ma
distorcendone la posta in gioco. Essendo il problema maggiore, dal punto
di vista ermeneutico, legato alla “funzione” che l’inconscio avrebbe
nel produrre i miti, riti, simboli veicolati dall’insieme delle
religioni, sembra ora necessario mostrare in che cosa l’impresa
junghiana può da parte sua, e tenuto conto di ciò che è stato appena
detto, sembrare o meno conciliabile con un autentico progetto di
restaurazione d’un metodo d’interpretazione puro, vale a dire
perfettamente adeguato al suo oggetto.
L’idea di fare della psicanalisi una via
d’accesso privilegiata al senso “profondo” della religione era stata
avanzata da Freud, a proposito di Jung del resto, nel suo Contribution à l’histoire du mouvement psychanalytique.
Si trattava «di stabilire un legame tra le manifestazioni nevrotiche da
una parte, le creazioni dell’immaginazione nei domini religioso e
mitologico dall’altra» [44].
L’influenza di Jung e segnatamente della sua
teoria dell’inconscio collettivo fu considerevole tra gli antropologi e
gli storici delle religioni, come testimoniano ad esempio alcuni
scritti di M. Meslin [45].
L’interesse della psicologia del profondo era in effetti di poter
interpretare il fenomeno religioso al di fuori d’ogni riferimento
teologico e metafisico e questo nonostante l’interesse, di clinico,
portato loro da Jung. Dal XIX secolo, una grande quantità d’informazioni
era stata raccolta dagli orientalisti che, gradualmente, rivelavano
alla coscienza occidentale contemporanea [46]
l’esistenza d’una pluralità di tradizioni il cui contenuto mostrava una
grande prossimità di struttura. Ed è proprio questa prossimità che Jung
stava cercando di spiegare con questo concetto d’inconscio collettivo,
definito come una matrice trans-storica e trans-individuale di miti e di
simboli. L’osservazione, ad esempio, d’una ricorrenza del topos di puer-senex
nelle letterature giudeo-cristiana, taoista, buddista, etrusca o
musulmana, ha potuto così essere considerata da uno studioso quale E.
Curtius come una “proiezione” dell’inconscio collettivo (citato da G.G.
Stroumsa, Savoir et salut, p. 54). Da lì, l’impiego del termine platonico d’archetipo avrebbe curiosamente designato un’“immagine primordiale,” semplice “quantità psichica” e, secondo Jung, priva di qualsiasi carattere trascendente [47].
Il riferimento a questi “residui arcaici” in quanto “tendenze
istintive”, innate nell’uomo, sarebbe diventato un comodo metodo di
spiegazione, facilmente utilizzabile, perfino un vero riflesso
interpretativo. Si osserva quindi, ancora una volta, questa tendenza al
recupero delle strutture antiche, ma svuotate o sviate dal loro senso,
vale a dire nel caso presente a una “precipitazione” senza precedenti
del Mondo Intelligibile, ormai trasformato in un’entità oscura e
morbosa. Si potrebbero dare altri esempi di recuperi di questo tipo:
citiamo in particolare il caso del Sé, considerato come fine del
processo d’individuazione, ossia: integrazione della personalità
dell’io; questo termine essendo ripreso dal vocabolario vedantino
normalmente applicato ad Atma, “lo Spirito Universale”. O ancora, il senso positivo dato da Jung al Trickster: creatore d’inganno, considerato di fatto una figura diabolica [48].
Per questo motivo determinante, ogni
tentativo d’armonizzazione tra le tesi di Jung e l’approccio metafisico
al reale potrà sembrare difficile, se non perfettamente illogico.
Questo serio e notevole equivoco è stato però respinto in modo del
tutto inaspettato da H. Corbin. Nel suo articolo consacrato a Jung e
intitolato La sophia éternelle, egli si domandava infatti:
«perché dunque occorre, non appena viene mostrato che vi sono dei
fattori psichici che corrispondono alle figure divine, che certuni
gridino al blasfemo come se tutto fosse perduto e queste figure
svalutate» [49]?
Questa cantonata di Corbin chiamerebbe di
fatto la seguente risposta: il “blasfemo” sta nel fatto che, per Jung,
non ci sono o piuttosto non esistono “figure divine”. In
quest’ultimo, queste vengono definitivamente associate a un “mondo
sotterraneo” e spogliate di qualsiasi statuto ontologico trascendente.
Sebbene, curiosamente, Jung accordi agli archetipi una capacità
«d’iniziativa propria», questi, considerato l’insieme della sua opera,
non sono sicuramente partecipi di alcuna Idea eterna.
Ecco, a titolo illustrativo, quel che lo psicologo scrive: «quando mi
capita di parlare d’un arcangelo, non pretendo di formulare una
costatazione metafisica», si tratta semplicemente d’un puro «fenomeno
psichico» [50].
Jung aveva peraltro già chiaramente affermato: «Io so – ed esprimo qui
una certezza che mi viene d’innumerevoli esperienze individuali – che
siamo in questo momento nell’epoca della morte e della scomparsa di Dio»
[51].
Il suo obiettivo, al contrario di quanto
crede Corbin, non era scoprire nella psiche umana una traccia o un
insieme di strutture complesse d’origine divina, come necessariamente
ammette il metafisico causa l’omologia tra Macrocosmo e Microcosmo, ma
fare di questa psiche, soprattutto nella sua parte inconscia, l’unica
fonte del corpus simbolico e mistico tradizionale. In tal
senso, i prolungamenti junghiani della psicanalisi freudiana s’iscrivono
decisamente in quello che Ch. Schönborn alquanto giustamente chiama la
via della finitezza radicale [52], ossia l’imprigionamento dell’uomo all’interno dei propri limiti mentali.
C’è quindi voluta tutta la miopia di certi nostri contemporanei per
sostenere ad esempio l’equivalenza degli antichi «riti d’iniziazione»
con «il processo d’individuazione» [53];
l’idea che «l’opera alchemica di Jung interessa a sua volta degli
Occidentali che desiderano ancorarsi a una tradizione d’Occidente …» [54]; l’esistenza d’una somiglianza tra il mondo degli archetipi junghiani e il mondo delle Idee platoniche [55]; il fatto che «solo oggi cominciamo a capire queste idee molto avanzate (quelle del Bardo-Thödol)
grazie alla nuova psicologia del profondo che, per la prima volta, ha
osato oltrepassare i confini della nostra coscienza sveglia per
avventurarsi negli strati più profondi della psiche umana» [56], ecc.
Aggiungiamo che anche un teologo cattolico
come J. Daniélou si era fatto garante per i lavori di Jung sul
simbolismo, senza forse rendersi conto delle conseguenze temibili che
questo poteva avere, anche riguardo alla dottrina della Chiesa [57].
Oggi, gli scritti di E. Drewermann permettono pienamente di misurare
l’ampiezza di queste conseguenze. Il suo attaccamento alla psicologia
del profondo lo conduce infatti riconoscere per le «leggende
giudeo-cristiane», i sacramenti, i riti, ecc., esclusivamente un’origine
inconscia a partire dagli archetipi junghiani. In modo tale che le
Scritture, considerate normalmente dagli esegeti come rivelate, si
troverebbero ormai poste sotto il controllo d’infrastrutture
autonome e in qualche modo rigorosamente separate dal Verbo; per quanto
questo principio possa addirittura avere ancora un senso in questa
prospettiva per lo meno discutibile. Volendo correggere la teologica per
mezzo della psicanalisi, associando l’esercizio del sacerdozio alla
psicoterapia analitica, E. Drewermann contribuisce a dare a questo paradosso una dimensione che probabilmente mai aveva ancora raggiunto [58].
Del resto, secondo Jung stesso, un teologo non gli aveva forse detto
«che le visioni di Ezechiele erano solo sintomi morbosi, e che quando
Mosè e gli altri profeti ascoltavano delle “voci” parlare loro, essi
soffrivano d’allucinazioni» [59]?
Così saremmo forse in presenza d’una forma d’autodistruzione del dogma, particolarmente sottile e grossolano allo stesso tempo.
In ogni caso, il nominalismo fondamentale di Jung [60],
sul quale insisteremo nella seconda parte (cap. 5), fa del mito, della
visione ispirata, del simbolo, della dottrina stessa, proprio delle
produzioni d’una attività immaginativa puramente umana e in
ultima analisi rigorosamente incosciente. Come dice chiaramente M.-L.
von Franz, «quello che oggi chiamiamo l’inconscio collettivo non era
ancora mai stato concepito come psicologico nel senso moderno del
termine, ma era stato fino ad allora proiettato nello spazio cosmico
esterno all’anima», ecc. [61].
All’occorrenza, si tratta più esattamente di de-divinizzare l’origine
dei miti per non farne che «l’espressione immediata dell’attività
vitale» [62].
Come accennavamo sopra, è veramente
sorprendente costatare in questo momento l’esistenza d’un progetto di
conciliazione, oggettivamente incoerente, tra le concezioni tradizionali
del mondo e le ipotesi junghiane circa le ragioni dell’esistenza d’un
fondo psichico comune a tutta l’umanità. La realtà innegabile di
quest’ultimo troverà nel seguito della nostra ricerca una spiegazione
del tutto diversa da quella data da Jung, la cui opera non è, in
definitiva, che uno degli ultimi prolungamenti logici dell’anti-Realismo
medievale. Certo è che il suo carattere ampiamente sovversivo [63], dal punto di vista metafisico, dovrebbe spingere l’ermeneuta a un maggiore discernimento e precisione nella sua ricerca del vero significato.
L’ipotesi che abbiamo avanzato sulla natura
della psicanalisi come fenomeno culturale mirante al recupero del
dominio iniziatico potrebbe nondimeno sembrare insostenibile. Infatti,
molto presto, gli psicanalisti, in particolare attraverso l’esempio
dello sciamanismo, hanno sistematicamente cercato di svalutare questo
dominio, assimilando quel che Eliade chiamava «cambio di regime
ontologico» a una comune patologia mentale.
L’intero processo d’iniziazione, i viaggi
celesti, le visioni, sogni e ascensioni, le dottrine cosmologiche e
metafisiche, la mitologia ancestrale degli sciamani si trovavano a priori
ridotti all’opera di nevrotici. Questa concezione fu sostenuta da
Devereux e moltissimi altri psicologi. Non tenteremo qui di confutare
questo punto di vista che M. Eliade aveva criticato [64] e che fu, più recentemente, severamente contestato dall’etnologo Ph. Mitrani nel suo articolo intitolato Aperçu critique des approches psychiatriques du chamanisme [65].
L’importante è osservare la negazione,
presso gli psicanalisti, d’una possibile efficacia spirituale
dell’iniziazione, ciò che sembra del tutto normale in considerazione dei
postulati agnostici del sistema freudiano. Tuttavia, come abbiamo
mostrato sopra, un certo numero tra loro hanno cercato di fondere
psicanalisi e iniziazione, sia sul piano teorico sia pratico. Questa
tendenza, relativamente nuova, fu inizialmente marginale, poi non ha
smesso fino a oggi d’avere un’espansione decisamente rilevante.
Diversi casi sono stati menzionati sopra tra
cui quello di J.-P. Schnetzler (cfr. n. 54) che cerca, all’interno
della Massoneria detta regolare, un innesto abbastanza “sospetto” di
certe concezioni psicanalitiche sul vecchio fondo iniziatico, d’origine
prevalentemente artigianale, che rappresenta ancora questa
organizzazione. Ci soffermeremo semplicemente sui lavori di due
analisti, R. Desoille e P. Solié, per giustificare meglio la nostra
posizione.
Nel sua libro Théorie et pratique du rêve éveillé dirigé [66], R. Desoille aveva cercato di stabilire quello che G. Durand ha definito «terapeutica d’elevazione psichica, se non morale» [67].
Si trattava in particolare, al fine di “guarigione”, di provocare
nell’immaginazione del paziente un sogno suscettibile di modificare il
suo psichismo in un senso considerato positivo. Tra le immagini
utilizzate da R. Desoille, ritornava abbastanza spesso quella
dell’«ascensione d’una vetta in cima alla quale vive un Saggio» (p. 91),
che poteva condurre, com’è il caso più avanti (pp. 127-156), verso un
profeta (Mosè o Salomone).
Questo metodo, largamente dipendente sul
piano ermeneutico dall’archetipo junghiano, è interessante in quanto
sembra portare a una simulazione immaginaria e di conseguenza
riduttrice dei modelli ascensionali tradizionali. Senza anticipare quel
che svilupperemo nella terza parte di questo lavoro, riteniamo che,
leggendo le opere di R. Desoille con la necessaria prospettiva, sarebbe
difficile non costatare una somiglianza tra i suoi processi e la
struttura dei racconti visionari tradizionali di tipo ascensionale [68]. Ma non rimane questa puramente formale?
Infatti, questi racconti comportano, per chi li vive, l’ingresso in un
aldilà del mondo sensibile, più reale, considerato come Luogo
d’elezione per ottenere delle conoscenze segrete insegnategli da uno
spirito celeste, un angelo, o un profeta. Generalmente, questo Viaggio è
anche l’occasione d’una trasformazione spirituale dell’iniziato, che lo
fa così accedere a un grado ontologico superiore. All’opposto, la
tecnica di R. Desoille, se si basa sul prestigio qualitativo della
verticalità, non è meno limitata a un uso puramente psicologico, poiché
la finalità delle sedute d’“immaginazione guidata” non mira che al
trattamento degli stati depressivi.
Questa deriva psichiatrica ricorda il modo
molto singolare che spesso gli Occidentali hanno di comprendere e
praticare lo yoga che, nelle loro menti, diventa un vago esercizio
fisico suscettibile di generare un benessere mentale e affettivo.
Seguendo questa interpretazione, il metodo indù di Liberazione (Moksha) sarebbe ridotto a una comune ginnastica di sostentamento «alla portata di tutti» [69].
Sebbene il problema sia diverso, la presenza residua di simboli
ascensionali nell’analisi concepita da Desoille potrebbe corrispondere a
una medicalizzazione profana, in un senso illegittimo, di riti che
avevano in origine una funzione del tutto diversa.
La manipolazione tecnica del soggetto
immaginante ch’egli opera sottintende essa stessa una concezione
ristretta dell’immaginazione, ridotta a una mera attività produttrice
d’immagini, che non possiede alcuno statuto esistenziale proprio. In
altre parole, il Saggio o il profeta sognati dal paziente di R. Desoille
non hanno alcuna realtà se non nello psichismo del malato. Ora, è molto
diverso quando si studiano, ad esempio, i metodi esoterici di
realizzazione spirituale che, nel loro complesso, comportano
necessariamente la possibilità concreta d’un incontro con un
santo o un profeta, in modo visionario. Si dovrebbe segnatamente
menzionare l’esempio, nella tradizione del sufismo, di quel discepolo
che, secondo M. Chodkiewicz, fu colto da uno stato spirituale (hal) «durante il quale vide il suo shaykh distruggerlo a colpi di piccone poi ricostruirlo» [70], con l’intenzione di compiere una «rigenerazione psichica» [71] istantanea del suo essere. Quest’opera, resa percepibile per mezzo d’una immagine proiettata nel Cuore
del discepolo dal suo maestro, è dovuta all’azione d’una forza
purificatrice agente. Un tale impiego iniziatico della facoltà
immaginativa è tuttavia concepibile solo con riferimento a
un’antropologia sacra e a una “mistica cosmologica” che situi questo
mondo sottile intermedio (psichico) tra il dominio corporeo e il mondo
delle realtà spirituali. È infatti per mezzo della sua sola potenza spirituale,
informale per essenza, che il maestro perviene ad attualizzare una
simile metamorfosi del suo giovane allievo. In questa prospettiva, è
quindi opportuno precisare il ruolo esclusivamente mediatore
dell’Immaginazione visionaria. La psicanalisi, dato il suo rifiuto,
fondamentale, del terzo termine (spirituale), fa dell’immaginazione uno
“spazio” ripiegato su se stesso e dell’immagine un elemento
dinamizzante, privo di portata anagogica.
Detto questo, se ancora distinguiamo
nettamente le concezioni di R. Desoille dai metodi iniziatici
tradizionali, questo diventa più difficile, d’acchito, se cerchiamo di
opporli ai lavori di P. Solié.
L’autore di Psychanalyse et imaginal [72]
appartiene infatti a quella categoria d’analisti che, secondo M.
Cazenave, «riprende esplicitamente la tesi della filiazione sciamanica
della psicanalisi moderna …», ciò che P. Solié già dichiarava nel suo
libro intitolato Médecines initiatiques aux sources des psychothérapies,
quando scriveva: «qualunque cura psicanalitica profonda … costituisce
un’iniziazione su misura. Essa ha il suo cerimoniale, i suoi riti (…).
Siamo certamente gli sciamani del nostro secolo». Prima d’esaminare
brevemente questa concezione, notiamo ch’essa sembra interinare in modo
decisivo l’ipotesi che formulavamo all’inizio di questo capitolo. Il
problema maggiore che pone questo psicanalista sta nell’iniezione
ch’egli effettua, all’interno delle sue ricerche, d’un vocabolario in
principio di tutt’altra origine, che potremmo qualificare metafisica.
Certo, P. Solié intende conferire al trattamento, apertamente e in modo
inedito, un valore “iniziaziatico”, ma non vediamo a prima vista come
sarebbe possibile giustificare logicamente, se non con un artificio, un simile tentativo d’assimilazione.
La principale difficoltà sulla quale ci soffermeremo consiste nell’uso molto particolare che fa del termine immaginale,
di cui Corbin fu l’introduttore. Questa difficoltà è tanto maggiore
quanto la definizione che ne dà Solié sembra corrispondere abbastanza
precisamente a quella data dall’islamologo, ossia: un «intermondo tra le
realtà sensibili e le realtà platoniche intelligibili» [73],
ciò che coincide apparentemente con quello che dicevamo sopra riguardo
alla situazione e alla funzione del mondo intermedio. Tuttavia, ed è qui
che verte la nostra critica, P. Solié continua la sua definizione
aggiungendo: «… che si avvicina al mondo degli archetipi di Jung», poi:
«il mundus imaginalis costituisce quindi una struttura d’Immagini (Eidolon, Eidos) che è il riflesso antropomorfizzato d’un altro mondo, sia nell’“infrarosso” sia nell’“ultravioletto”…».
Questo approccio un poco “surrealista”, in
tutto conforme allo stile volentieri eccentrico dell’autore, sottintende
dunque la possibilità d’una quasi identificazione del concetto di mondo
immaginale, abitato da quelli che chiama gli “immaginali”, al mondo
degli archetipi junghiani. Ora, anche se P. Solié si fa carico
dell’opposizione corbiniana tra immaginale e immaginario [74], si costata comunque un equivoco, riguardante la natura esatta del mundus imaginalis. Per Solié, gli Dei sono effettivamente “in noi”, ma perché l’inconscio dà loro esistenza. In nessun caso sono realtà divine trascendenti,
che si manifesterebbero al mondo o al nostro spirito. Così intesa, la
psicanalisi diventa una gigantesca operazione di spoliazione e
d’annessione del corpus iniziatico tradizionale, sia sul piano dottrinale sia su quello tecnico. La sua metamorfosi in una presunta via iniziatica
la renderebbe quasi, per un osservatore disattento, equivalente a
quello che lo storico delle religioni intende con questa espressione. Si
tratta in tutti i casi d’un fenomeno unico nella storia recente delle
idee, che una scienza umana viene progressivamente a presentarsi con
tutte le caratteristiche abituali d’una iniziazione tradizionale [75].
Anche se questo “calco” non ha per ambizione consapevole o riconosciuta
l’inversione di quest’ultima, resta il fatto che il suo effetto
immediato è di produrre quello che abbiamo chiamato una caricatura [76] dell’iniziazione e una confusione non meno temibile nella comprensione delle dottrine mistiche ch’egli cerca d’imitare.
* Patrick Geay, Hermès trahi: Impostures philosophiques et néo-spiritualisme d’après l’œuvre de René Guénon, L’Harmattan, Paris, 2011, parte I, cap. I.
Tratto da: https://letteraespirito.wordpress.com/il-capovolgimento-psicanalitico-da-freud-a-jung/
Tratto da: https://letteraespirito.wordpress.com/il-capovolgimento-psicanalitico-da-freud-a-jung/
1. Su questa espressione [renversement], cfr. R. Guénon, Symboles fondamentaux de la Science sacrée, Gallimard, 1982, cap. LXII.
2. La cabale, Jacques Grancher, 1988, p. 28.
3. Cfr. R. Darnton, La fin des Lumières. Le mesmérisme et la Révolution, Perrin, 1984.
4. R. Guénon ha sottolineato, relativamente a questo fenomeno, l’influenza della sua dimensione negativa, vedere in particolare Symboles fondamentaux de la Science sacrée, cap. XX; Le Règne de la Quantité et les signes des Temps, Gallimard, 1986, cap. XXVII, e a titolo illustrativo gli Extraits de lettres à Hillel, apparso nel Cahier de l’Herne René Guénon, 1986, pp. 112-114.
5. Cfr. L’Évolution, une théorie en crise, Flammarion, 1992.
6. Cfr. Introduction à la psychanalyse, Payot, 1985, pp. 266-267.
7. Cfr. Initiations, rites, sociétés secrètes, Gallimard, 1976, p. 270, n. 56. Segnaliamo tuttavia che questo punto di vista era già stato sostenuto da R. Guénon ne Le Règne de la Quantité …, cap. XXXIV, dieci anni prima.
8. Cfr. F. Tristan, Le monde à l’envers,
Hachette, 1980, pp 86-88. In questo studio, molto ben illustrato, si
osserva tuttavia un’ambiguità legata al fatto che l’autore utilizza
abbastanza regolarmente il termine incoscente e anche immaginario, in
relazione al dominio che affronta, assimilandolo a torto al “mundus
imaginalis”, cfr. pp. 4, 15, 39.
9. Sul senso dato qui a questa parola, cfr. R. Guénon, Initiation et réalisation spirituelle, Éd. Traditionnelles, 1980, cap. XXVIII.
10. Questo
dettaglio è importante nella misura in cui, contrariamente all’analisi
(spesso pertinente) di J. Borella, che presenta la psicanalisi come
un’“anti-religione” (cfr. La crise du symbolisme religieux,
L’Âge d’Homme, 1990, p. 192), il metodo psicanalitico simula più nel suo
funzionamento l’iniziazione tradizionale, come affermato giustamente ma
troppo brevemente da J. Van Rillaer in Les illusions de la psychanalyse, Mardaga, 1980, p. 249.
11. Così come J. Chémouni indicava recentemente in , Freud, la psychanalyse et le judaïsme, un messianisme sécularisé, Éditions Universitaires, 1991, p. 10, citando una frase di G. Rosolato.
12. Payot, 1977, riassunto in un nostro capitolo: FTMJ.
13. Cfr. ad esempio FTMJ, pp. 54, 72.
14. Questo punto molto enigmatico è stato discusso da J. Chémouni in Freud, la psychanalyse et le judaïsme, senza che una definizione precisa sia stata data a questo “qualcosa”
d’ebreo che sembra aver condizionato la nascita della psicanalisi e che
non è la religione ebraica, cfr. p. 160. Questa “energia” sarebbe forse
da mettere in relazione con il “lato malefico” e dissolvente del
nomadismo deviato, che, scriveva R. Guénon «predomina inevitabilmente
presso gli ebrei distaccati dalla loro tradizione», cfr. Le Règne de la Quantité …, p. 222, n. 1.
15. Vedere su questo soggetto, J. Chémouni, Freud …, pp. 60-71 e D. Ligou, Dictionnaire de la Franc-Maçonnerie, P.U.F., 1987, pp. 143-144.
16. Cfr. FTMJ, pp. 75, 76.
17. Su di lui, vedere M. Idel, L’expérience mystique d’Abraham Aboulafia, Cerf, 1989.
18. Cfr. FTMJ, p. 82.
19. Ibid., p. 205.
20. Ibid., p. 206, l’autore menziona qui il trattato Berakhoth che fa parte del Talmud de Babylone e contiene importanti sviluppi sull’onirocritica ebraica.
21. Ibid.,
p. 209. A questo proposito, Bakan tenta di stabilire un parallelo tra i
metodi (tradizionali) d’interpretazione delle lettere (ebraiche): Zeruf, Gematria, Notarikon, Temurah e quelli di Freud.
22. Ibid., p. 104.
23. Ibid., p. 107.
24. Ibid., p. 111.
25. Si ritrova in
Freud questo stesso fascino (evocato sopra, cfr. n. 4) per l’Egitto;
ciò che gli faceva credere effettivamente a un’origine egiziana di Mosè,
cfr. Moïse et le monothéisme, I, II, Gallimard, 1948. J.
Chémouni segnala un’utilizzazione molto suggestiva di questa tradizione
da parte di Freud a proposito delle caratteristiche psichiche
dell’Uomo-lupo, cfr. Freud …, p. 148. Notiamo di passaggio
l’esistenza d’una ossessione simile per i miti egiziani in E.
Drewermann, questa volta riguardo all’origine del racconto della
natività di Gesù, cfr. De la naissance des dieux, à la naissance du Christ, Seuil, 1992.
26. Cfr. FTMJ, p. 113.
27. Sull’oniromanzia ebraica, cfr. A. Caquot, Les songes et les interprétations selon Canaan et Israël, in Les songes et leur interprétation, Sources orientales, Seuil, 1959.
28. Frase citata da D. Bakan in FTMJ, p. 130, tratta da La science des rêves.
29. FTMJ, p. 78.
30. Cfr. L’homme et la société, nº 59-62, 1981.
31. È
sorprendente osservarea qual punto Freud era ansioso di vedere la
psicanalisi stabilirsi in tutti i paesi: l’Austria, la Svizzera, gli
Stati Uniti, l’Inghilterra, l’India, il Canada, l’Australia, la
Germania, l’Italia, la Francia, la Svezia, la Russia, ecc., cfr. Freud, Contribution à l’histoire du mouvement psychanalytique, cap. II, in Cinq leçons de psychanalyse, Payot, 1980. Si tratta quindi davvero d’una conquista messianica del mondo, come lo riconosce J. Chémouni, cfr. Freud …, conclusione, il cui scopo era quello di sovvertire la gentilità, come è stato suggerito da S. Rothman e P. Isenberg, ibid., p. 10, e la Chiesa cattolica …
32. Cfr. Le chamanisme et les techniques archaïques de l’extase, Payot, 1988, p. 39. Questo dato è capitale.
33. Su Charcot, cfr. W. Bannour, Jean Martin Charcot et l’hystérie,
Métailié, 1992 Notiamo a suo riguardo l’interessante ipotesi di R.
Darnton che scriveva: «può darsi che la psicanalisi si sia sviluppata a
partire da una linea di scienziati occultisti, collegante Freud, Charcot
e Braid a Bertrand, Puységur e Mesmer, proprio come la chimica era
emersa dall’alchimia», cfr. La fin des Lumières. Le mesmérisme et la Révolution, p. 209.
34. Cfr. FTMJ, p. 174.
35. Cf. Une névrose démoniaque au XVIIe siècle, dans L’inquiétante étrangeté, Gallimard, 1990, p. 270.
36. Cfr. Le rêve et son interprétation, Gallimard, 1978, p. 7.
37. Su questo soggetto, vedere La lettre sur la sainteté. Le secret de la relation entre l’homme et la femme dans la cabale, Verdier, 1986.
38. Cfr., ad esempio, Le savant et le politique, 10/18, 1982, p. 96.
39. Tenuto conto del suo rifiuto del geocentrismo.
40. Ricordiamo
brevemente le conclusioni del suo argomento principale: «come può la
tendenza repressa “nascondersi” se essa non l’avvolge: 1) la
consapevolezza d’essere repressa; 2) la consapevolezza d’essere stata
respinta perché essa è quello che è; 3) un progetto di travestimento?».
Cfr. L’être et le néant, Gallimard, 1943, pp. 90-92. Più
recentemente, R. Bouveresse-Quillot e R. Quillot hanno tentato
d’effettuare un bilancio delle obiezioni fatte a Freud in Les critiques de la psychanalyse, P.U.F., 1991.
41. Cfr. Éléments de philisophie, Libro II, cap. XVI, Gallimard, 1977, p. 149.
42. Cfr. Ibn ‘Arabî, La Parure des Abdâl, Éditions de l’Œuvre / Archè-Edidit, 1992 p. 38, n. 37. Vedere anche la definizione che dà R. Guénon ne La crise du monde moderne, Gallimard, 1992, p. 116, n. 1.
43. Cfr, Jung, Types psychologiques, Georg, 1986, p. 56.
44. Cfr, cap. II, p. 111.
45. Cfr. Pour une science des religions, Seuil, 1973, pp. 129-138.
46. Su questo punto, vedere Ch.-A. Gilis, René Guénon et l’avènement du troisième Sceau, Éd. Traditionnelles, 1991, p. 49.
47. Cfr. Types psychologiques, p. 429.
48. Cfr. M.D. Verano, Psychanalyse, socellerie et humour, nella rivista Charis, nº 1, Archè, 1988 e M. Eliade, La nostalgie des origines, Gallimard, 1978, pp. 279-282.
49. Cfr. Cahier de l’Herne C.G. Jung, 1984, p. 267.
50. Cfr. Psychologie et orientalisme, risposta a M. Buber, Payot, 1984.
51. Frase estratta da Psychologie et religion, citato da Ch. Gaillard in Jung et la mystique, p. 125, Nouvelle revue de psychanalyse, nº 22, 1980.
52. Cfr. La vie éternelle, Réincarnation, Résurrection, Divinisation, Mame, 1992, p. 49.
53. Cfr. S. Marjash, Sur la psychologie du rêve de C.G. Jung, p. 130, in Le rêve et les sociétés humaines, Gallimard, 1967.
54. Cfr. J. Biès, René Guénon, héraut de la dernière chance, Cahier de l’Herne René Guénon,
1986, p. 37, che non esita ad affermare più avanti: «Il punto di vista
psicologico di Jung e il punto di vista metafisico di Guénon creano una
differenza di piano, non un’opposizione de facto», cfr. n. 38.
Ciò che è in flagrante contraddizione con il punto di vista di Guénon
sulla questione. Nel quadro della Massoneria, lo psichiatra J.-P.
Schnetzler ha potuto scrivere nella stessa ottica: «I contributi della
psicanalisi da una parte, i dati più recenti della psicologia
transpersonale negli U.S.A. d’altra parte, riuniscono e completano i
dati delle saggezze tradizionali affermando che si tratta proprio del
morire all’io»; cf. Mort et renaissance, in Travaux de la Loge nationale de recherches Villard de Honnecourt, G.L.N.F., 1984, p. 201, nº. 8.
55. Cfr. M. Eliade, Mythes, rêves et mystères,
p. 57, Gallimard, 1985. La perspicacia di quest’autore riguardo la
natura della psicanalisi freudiana (rilevata all’inizio di questo
capitolo) non sembra essersi estesa a quella di Jung.
56. Cfr. Le livre tibétain des morts,
prefazione di Lama Anagarika Govinda, Dervy 1980, p. 8. L’influenza di
Jung sul buddismo occidentalizzato è stata particolarmente grande, come
ne testimonia l’opera di Suzuki, Fromm, de Martino, Bouddhisme zen et psychanalyse, P.U.F., 1986. Notiamo che il Dalai Lama ha recentemente pubblicato un libro con E. Drewermann.
57. Cfr. Essai sur le mystère de l’histoire, Seuil, 1953, p. 131. L’autore aveva peraltro partecipato a numerose conferenze organizzate da O. Frœbe al Circolo Eranos (Ascona) che fu un vero e proprio “centro” d’influenza della psicanalisi junghiana.
58. Cfr. De
la naissance des dieux à la naissance du Christ. Une interprétation des
récits de la nativité de Jésus d’après la psychologie des profondeurs.
59. Cfr. Essai d’exploration de l’inconscient, Gallimard, 1989, p. 70.
60. Cfr. Jung, Types psychologiques, pp. 28-65.
61. Cfr. Psyché et matière, in Cahier de l’Herne C.G. Jung, p. 325.
62. Cfr. Jung, Types psychologiques, p. 446.
63. Cfr. R. Guénon, Tradition et “inconscient”, in Symboles fondamentaux de la Science sacrée,
cap. V. È inoltre opportuno, nella prospettiva propria all’antropologia
storica di J. Le Goff, evocare la diffidenza del medievalista rispetto
all’«ideologia sospetta degli archetipi» che qualifica come
«elucubrazione mistificante». Quest’ultimo cita in quest’occasione, in L’imaginaire médiéval, Gallimard, 1985, p. VI, n. 2, l’opera di B. Obrist, Les débuts de l’imagerie alchimique, ch’egli dice ha mostrato «l’inanità delle interpretazioni junghiane delle immagini astrologiche».
64. Cfr. Le chamanisme et les techniques archaïques de l’extase, pp. 36-43, Payot, 1988.
65. Diogène, nº 158, Gallimard, 1992, pp. 130-147.
66. Éd. du Mont-Blanc, Genève, 1961.
67. Cfr. Les structures anthropologiques de l’imaginaire, Dunod, 1987, p. 138.
68. Citiamo in un primo momento, a titolo documentario, I.P. Couliano, Expériences de l’extase, Payot, 1984.
69. Cfr. M. Eliade, Techniques du Yoga, Gallimard, 1975, p. 12.
70. Cfr. Quelques aspects des techniques spirituelles dans la tariqâ naqshbandiyya, 1985. Ringraziamo M. Chodkiewicz per averci comunicato il suo studio.
71. Cfr. R. Guénon, L’Octogone, in Symboles fondamentaux de la Science sacrée, pp. 276-277.
72. Éd. Imago, 1980. Introduzione di M. Cazenave.
73. Cfr. Psychanalyse et imaginal, p. 197.
74. Ibid., p. 182.
75. Sul probabile
ruolo dello sciamanesimo degenerato nell’elaborazione d’una
contraffazione psicanalitica dell’iniziazione, cfr. R. Guénon, Le Règne de la Quantité …, cap. XXV.
76. A titolo
d’illustrazione, J. Borella ha attirato l’attenzione sullo strano
fenomeno dei Sette Anelli che legavano Freud ai membri del famoso
Comitato segreto fondato da E. Jones (cfr. J. Borella, Du symbole selon René Guénon, pag. 219, n. 10, Cahier de l’Herne René Guénon.
La funzione di questi “talismani” resta oggi oscura. Per quali ragioni
infatti Freud abbia dato a Jones, Rank, Ferenczi, Abraham, Sachs,
Eitingon, un “intaglio greco” che questi ultimi fecero sparire (cfr. E.
Jones, La vie et l’œuvre de Sigmund Freud, P.U.F., 1961, T. II,
pp. 164-165)? Lungi dall’essere aneddotica, questa pratica rivela in
tutti i casi la presenza d’una abitudine, inattesa in un ambiente di
«liberi pensatori» (E. Jones), che può ricordare, in maniera
parodistica, il rito medievale degli anelli medicinali. Altro fatto
singolare, questo gruppo di sette (con Freud) evoca similmente una
contraffazione della regola che impone che una loggia massonica possa
essere aperta solo in presenza di almeno sette maestri.
Quanto a Jung, J. Borella ha egualmente segnalato, citando dei dati forniti da M. Eliade (Fragments d’un journal,
Gallimard, 1973, pp. 117, 181), l’esistenza d’un rituale “magico” con
anelli e bicchieri di vino, grazie al quale lo psicologo si “legava”
(secondo O. Frœbe) a certi individui.
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