"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

mercoledì 18 febbraio 2015

Patrick Geay, Il capovolgimento psicanalitico: da Freud a Jung

Patrick Geay
Il capovolgimento psicanalitico: da Freud a Jung* [1]

Nel suo libretto consacrato alla mistica ebraica [2], Ch. Mopsik evocava recentemente, senza discuterla, l’esistenza d’una «tesi abbastanza nuova (che) vede nella cabala l’ispiratrice del pensiero di Freud, il padre della psicanalisi». Questa tesi, abbastanza strana del resto, non ha provocato praticamente nessuna analisi critica. Ci proponiamo, in questo primo capitolo, di cercare di capire il senso di questa presunta filiazione, al fine di dimostrare se, al contrario, la psicanalisi non rappresenti una versione caricaturale delle antiche iniziazioni da una parte, e dei principi ermeneutici tradizionali dall’altra. Una delle caratteristiche più paradossali delle differenti ideologie che hanno contribuito a plasmare il mondo moderno risiede nel fatto ch’esse conservano tutte, almeno su certi punti, una struttura e una vocazione “religiosa”, e questo nonostante i loro presupposti fondamentalmente antireligiosi.
Questo fenomeno è stato costatato più volte, soprattutto a proposito del marxismo o anche del messianismo positivista d’A. Comte. Su questo punto, M. Eliade ha analizzato attentamente il processo di recupero del mito dell’Età d’Oro, nel XIX secolo, mettendo in evidenza l’esistenza d’una trasposizione, parola per parola, delle nozioni escatologiche tradizionali nel seno del materialismo storico.
Il concetto rivoluzionario di rigenerazione si presenta, lui stesso, come la strana combinazione d’un ideale democratico d’uguaglianza a volte venato d’occultismo [3] o, più curiosamente, d’egittomania [4], prolungando e nello stesso tempo dissacrando l’idea tradizionale di seconda nascita.
Allo stesso modo, la teoria darwiniana dell’evoluzione degli esseri viventi, il cui impatto su Freud fu decisivo è stata – come ha rilevato recentemente M. Denton – decisamente imposta come un vero e proprio dogma laico e questo nonostante il suo carattere «altamente speculativo, del tutto privo di riscontri fattuali diretti …» [5]. Molto rapidamente, una delle maggiori conseguenze spirituali dell’ipotesi di Darwin sarebbe stata di svuotare radicalmente la dottrina biblica delle origini al fine di sostituirvi una “mitologia” opposta, la cui particolarità inedita era la soppressione dello status privilegiato dell’umanità primordiale.
Ora, il fatto che Freud abbia espresso, come tutti sanno, l’idea d’una filiazione intellettuale tra Copernico, Darwin e lui stesso [6], secondo noi non può comprendersi che grazie a quel che si potrebbe chiamare: una logica dell’inversione. Così la psicanalisi, come polo ermeneutico contemporaneo, rappresenterebbe in realtà e più di ogni altra teoria una sorta di capovolgimento del processo iniziatico tradizionale; è del resto ciò che affermava M. Eliade, quando scriveva: «si potrebbe anche considerare la psicanalisi come una forma degradata d’iniziazione, cioè un’iniziazione accessibile a un mondo dissacrato (…)» [7]. In altre parole, a un mondo in cui ogni traccia d’iniziazione regolare completa era praticamente scomparsa.
Alcuni hanno potuto d’altro canto assimilare il pensiero freudiano a una manifestazione culturale [8] del “mondo alla rovescia”: questa espressione “popolare” [9] conosciuta a seguito del trattamento apocalittico della crisi sociale.
Detto questo, notiamo che M. Eliade parla qui in effetti, non d’una religione ma d’una iniziazione “degradata” [10]. Ora, l’evidenziare questa struttura apparentemente iniziatica della psicanalisi ha condotto, più di trent’anni fa, a uno studio particolarmente interessante su Freud, benché quasi totalmente ignorato [11].
Si tratta dell’opera di D. Bakan intitolata Freud et la tradition mystique juive [12] la cui tesi principale era quella di sostenere il carattere e l’origine cabalistici della psicanalisi [13]. Anche se questa idea ci sembra in fondo poco convincente, la “dimostrazione” di D. Bakan merita un esame più approfondito. Sebbene questi fosse consapevole della dimensione laica delle concezioni freudiane della religione, sottolineava prima di tutto l’attaccamento dichiarato di Freud alla sua ebraicità in tanto che “fonte d’energia” [14]. L’appartenenza di Freud a numerose organizzazioni ebraiche tra cui il B’nai Brith di Vienna era il segno di questo attaccamento. Questa istituzione pseudo-massonica [15] dove Freud presentò per la prima volta la sua teoria dei sogni era anche la prova del ruolo svolto, nella vita di quest’ultimo, da un’associazione che si era data artificialmente una struttura più o meno “iniziatica”.
Riguardo i presunti legami tra Freud e la Cabala, Bakan osservava in secondo luogo [16] una somiglianza tra le tecniche mistiche d’Abraham Abulafia e «il metodo psicanalitico della libera associazione»; aggiungendo che «la logica dell’universo reale di Dio in Abulafia [17] diverrà per Freud la logica dell’inconscio».
Osservava poi l’esistenza di caratteri comuni tra lo Zohar e gli scritti di Freud, legati soprattutto ai metodi d’interpretazione del linguaggio [18], all’importanza riconosciuta alla sessualità [19], al significato dei sogni [20], al ruolo dei giochi di parole [21], ecc. Un altro aspetto istruttivo del libro di Bakan evocava attraverso l’esempio di Sabbataï Zevi le «forti tendenze di Freud all’eresia» [22], sottolineando la parentela tra il messianismo ebraico eterodosso di J. Frank o d’Israël Baal Shem Tov (Chassidismo) e il progetto psicanalitico dello smantellamento della Legge mosaica. È del resto l’interesse verso Mosè che, secondo Bakan, poteva fornire la chiave del pensiero di Freud [23]. Come “nuovo legislatore”, Freud doveva infatti abrogare l’antica Legge [24]. Il Mosè “egiziano” [25] del padre della psicanalisi aveva imposto al popolo ebraico delle regole di vita troppo coercitive che dovevano essere «rese obsolete dal progresso e la nuova libertà del mondo occidentale» [26], per questa ragione. Ma Freud non arriva solo a sostituirsi a Mosè; si è ben presto anche equiparato a un altro profeta del Vecchio Testamento: Giuseppe, considerato l’interprete per eccellenza dei sogni [27]. «Va notato (scrive Freud) che il nome di Giuseppe gioca un ruolo importante nei miei sogni … Il mio ego trova molto facile nascondersi dietro persone con questo nome, poiché Giuseppe era il nome dell’uomo famoso nella Bibbia per interpretare i sogni» [28].
Tali sono, brevemente ricordate, le principali ipotesi del libro di D. Bakan. Le difficoltà ch’esse pongono, l’abbiamo detto, stanno nel fatto che si trova mescolata la coscienza del carattere antireligioso del pensiero freudiano all’idea d’una parentela, se non addirittura d’una continuità, tra questo e il misticismo ebraico. Ora, se Bakan ha sollevato in questo studio un problema, se non addirittura il problema della psicanalisi, la risposta ch’egli dà rimane fondamentalmente contraddittoria, nella misura in cui la funzione ultima dell’analisi e quella della Cabala ebraica non hanno assolutamente nessun rapporto. Eppure, e a volte giustamente, Bakan osserva tra le due delle somiglianze che occorre spiegare bene e questo ci parrebbe alquanto difficile senza ricorrere all’ipotesi secondo la quale la teoria di Freud sarebbe una forma d’iniziazione invertita.
Infatti, le analogie formali che rileva Bakan gli servono solo per giustificare l’idea preconcetta d’una fondamento cabalistico della psicanalisi. Semplicemente, l’intero apparato teorico di quest’ultima sembra sconosciuto alla Cabala, e viceversa. Sostenere ad esempio l’identità dell’estasi intellettuale nel senso inteso da Abulafia (che è un’illuminazione divina) con «la conoscenza psicanalitica» appare per lo meno forzato, tenuto conto del netto ateismo di Freud [29]. Per meglio comprendere queste analogie superficiali, sarebbe forse necessario prendere in considerazione l’esistenza d’una dimensione para-iniziatica della psicanalisi, che si rivelerebbe essere la sua vera natura. Come l’ha chiarito bene J.-J. Wunenburger nel suo studio Freudisme: cité de savants ou secte néo-gnostique?, la «scienza freudiana» non sarebbe più, dopo esame, «l’avanguardia d’un nuovo sapere sull’uomo, ma la più recente reminiscenza d’una saggezza perduta» [30]. Oppure, forse è la nostalgia d’una gnosi aureolata di mistero che spinge Bakan a retro-proiettare in un nobile passato mistico le origini della nuova psicologia. Sempre, paradossalmente, il recente cerca, per auto-giustificarsi, una gloriosa e antica genealogia. Ma niente nel Bahir né nello Zohar lascia prevedere Freud. La laicizzazione ch’egli operava della Cabala, secondo Bakan, è in fondo, appena mascherata, più una rottura che un prolungamento. Come abbiamo mostrato in precedenza, tutto dalla formazione dello psicanalista passando per l’interpretazione del linguaggio, dei numeri, la ricerca fondamentale del senso nascosto dei sogni, ecc., fa di Freud una sorta di nuovo “messia” incaricato di diffondere in tutto il mondo una nuova mitologia capace di delucidare, infine, i misteri della vita psichica [31]. È dunque una grande parte degli oggetti di studio dell’ermeneutica ebraica tradizionale a trovarsi così captata e investita da un’ideologia fondamentalmente anti-metafisica. Questo processo d’appropriazione ha anche potuto dare l’impressione d’una prossimità tra la «cura d’uno psicanalista e quella d’uno sciamano Cuna», agli occhi d’un antropologo come Levi-Strauss. Nondimeno, Freud probabilmente non accetterebbe l’idea sciamanica, assolutamente essenziale, secondo la quale, citando Eliade, «il malato mentale si rivela un mistico mancato o meglio ancora un mistico scimmiesco» [32].
Ora, le patologie isteriche in particolare, quelle studiate da Charcot, rientrano tutte in questo scenario [33]. Dall’eziologia psicanalitica deriva di conseguenza una secolarizzazione delle malattie dell’anima. Come sottolinea D. Bakan [34] a proposito d’un testo di Freud intitolato: Une névrose démoniaque au XVIIe siècle, quel che un tempo appariva «sotto un abito demonologico» è oggi considerato solo come una mera nevrosi. Freud ammette certo l’equivalenza tra essa e la “possessione”, ma rifiuta l’esistenza individuale dei demoni e «la proiezione che il Medioevo aveva fatto delle sue creazioni psichiche nel mondo esteriore» [35]. La psicanalisi pertanto implica anche una laicizzazione e un’evacuazione del male sotto la sua forma diabolica. La sua elaborazione d’altronde ha potuto farsi solo nell’ignoranza di queste cause e, in generale, dell’antropologia tradizionale. Quando Freud sostiene ad esempio che «in un’epoca recente che possiamo chiamare prescientifica, l’umanità non di preoccupava d’interpretare i sogni» [36], enuncia una falsità raddoppiata da un pregiudizio positivista che, al momento attuale, sembra inaccettabile. Inoltre Freud non mostra di conoscere l’onirologia talmudica o le dottrine cabalistiche sulla sessualità [37] che tuttavia esistono eccome.
A conti fatti, la sua impresa mira apparentemente a un isolamento ontologico dell’uomo, che lo recide da un Reale trascendente (Dio, sogno ispirato, ecc.) come da un reale ostile e maligno (demonologia) e partecipa in questo senso al processo di disincanto del mondo definito da M. Weber [38].
Questo pan-psichismo, paradossalmente [39] antropocentrico, di Freud culmina in modo evidente nella teoria dell’inconscio le cui contraddizioni logiche sono state brillantemente dimostrate da Sartre [40]. Ancora, una stretta equivalenza tra questo “animale temibile” di cui parla Alain [41] e l’antica figura ebraica di Satana, definito da M. Vâlsan come «potenza di dissociazione e di dissoluzione» [42] sembra delle più probabili.
Non è necessario ricordare qui quali sono le caratteristiche di questo concetto nella psicanalisi. L’importante si limita per noi a segnalare in che cosa, per Jung ad esempio (come per Freud) evocando la vita di Sant’Antonio, «il diavolo, è naturalmente la voce dell’inconscio proprio dell’anacoreta che si leva contro la repressione violenta della natura individuale» [43]. Vediamo bene, ancora una volta, quanto questa teoria si nutre di concezioni teologiche tradizionali e delle sue dipendenze, ma distorcendone la posta in gioco. Essendo il problema maggiore, dal punto di vista ermeneutico, legato alla “funzione” che l’inconscio avrebbe nel produrre i miti, riti, simboli veicolati dall’insieme delle religioni, sembra ora necessario mostrare in che cosa l’impresa junghiana può da parte sua, e tenuto conto di ciò che è stato appena detto, sembrare o meno conciliabile con un autentico progetto di restaurazione d’un metodo d’interpretazione puro, vale a dire perfettamente adeguato al suo oggetto.
L’idea di fare della psicanalisi una via d’accesso privilegiata al senso “profondo” della religione era stata avanzata da Freud, a proposito di Jung del resto, nel suo Contribution à l’histoire du mouvement psychanalytique. Si trattava «di stabilire un legame tra le manifestazioni nevrotiche da una parte, le creazioni dell’immaginazione nei domini religioso e mitologico dall’altra» [44].
L’influenza di Jung e segnatamente della sua teoria dell’inconscio collettivo fu considerevole tra gli antropologi e gli storici delle religioni, come testimoniano ad esempio alcuni scritti di M. Meslin [45]. L’interesse della psicologia del profondo era in effetti di poter interpretare il fenomeno religioso al di fuori d’ogni riferimento teologico e metafisico e questo nonostante l’interesse, di clinico, portato loro da Jung. Dal XIX secolo, una grande quantità d’informazioni era stata raccolta dagli orientalisti che, gradualmente, rivelavano alla coscienza occidentale contemporanea [46] l’esistenza d’una pluralità di tradizioni il cui contenuto mostrava una grande prossimità di struttura. Ed è proprio questa prossimità che Jung stava cercando di spiegare con questo concetto d’inconscio collettivo, definito come una matrice trans-storica e trans-individuale di miti e di simboli. L’osservazione, ad esempio, d’una ricorrenza del topos di puer-senex nelle letterature giudeo-cristiana, taoista, buddista, etrusca o musulmana, ha potuto così essere considerata da uno studioso quale E. Curtius come una “proiezione” dell’inconscio collettivo (citato da G.G. Stroumsa, Savoir et salut, p. 54). Da lì, l’impiego del termine platonico d’archetipo avrebbe curiosamente designato un’“immagine primordiale,” semplice “quantità psichica” e, secondo Jung, priva di qualsiasi carattere trascendente [47]. Il riferimento a questi “residui arcaici” in quanto “tendenze istintive”, innate nell’uomo, sarebbe diventato un comodo metodo di spiegazione, facilmente utilizzabile, perfino un vero riflesso interpretativo. Si osserva quindi, ancora una volta, questa tendenza al recupero delle strutture antiche, ma svuotate o sviate dal loro senso, vale a dire nel caso presente a una “precipitazione” senza precedenti del Mondo Intelligibile, ormai trasformato in un’entità oscura e morbosa. Si potrebbero dare altri esempi di recuperi di questo tipo: citiamo in particolare il caso del Sé, considerato come fine del processo d’individuazione, ossia: integrazione della personalità dell’io; questo termine essendo ripreso dal vocabolario vedantino normalmente applicato ad Atma, “lo Spirito Universale”. O ancora, il senso positivo dato da Jung al Trickster: creatore d’inganno, considerato di fatto una figura diabolica [48].
Per questo motivo determinante, ogni tentativo d’armonizzazione tra le tesi di Jung e l’approccio metafisico al reale potrà sembrare difficile, se non perfettamente illogico. Questo serio e notevole equivoco è stato però respinto in modo del tutto inaspettato da H. Corbin. Nel suo articolo consacrato a Jung e intitolato La sophia éternelle, egli si domandava infatti: «perché dunque occorre, non appena viene mostrato che vi sono dei fattori psichici che corrispondono alle figure divine, che certuni gridino al blasfemo come se tutto fosse perduto e queste figure svalutate» [49]?
Questa cantonata di Corbin chiamerebbe di fatto la seguente risposta: il “blasfemo” sta nel fatto che, per Jung, non ci sono o piuttosto non esistono “figure divine”. In quest’ultimo, queste vengono definitivamente associate a un “mondo sotterraneo” e spogliate di qualsiasi statuto ontologico trascendente. Sebbene, curiosamente, Jung accordi agli archetipi una capacità «d’iniziativa propria», questi, considerato l’insieme della sua opera, non sono sicuramente partecipi di alcuna Idea eterna. Ecco, a titolo illustrativo, quel che lo psicologo scrive: «quando mi capita di parlare d’un arcangelo, non pretendo di formulare una costatazione metafisica», si tratta semplicemente d’un puro «fenomeno psichico» [50]. Jung aveva peraltro già chiaramente affermato: «Io so – ed esprimo qui una certezza che mi viene d’innumerevoli esperienze individuali – che siamo in questo momento nell’epoca della morte e della scomparsa di Dio» [51].
Il suo obiettivo, al contrario di quanto crede Corbin, non era scoprire nella psiche umana una traccia o un insieme di strutture complesse d’origine divina, come necessariamente ammette il metafisico causa l’omologia tra Macrocosmo e Microcosmo, ma fare di questa psiche, soprattutto nella sua parte inconscia, l’unica fonte del corpus simbolico e mistico tradizionale. In tal senso, i prolungamenti junghiani della psicanalisi freudiana s’iscrivono decisamente in quello che Ch. Schönborn alquanto giustamente chiama la via della finitezza radicale [52], ossia l’imprigionamento dell’uomo all’interno dei propri limiti mentali. C’è quindi voluta tutta la miopia di certi nostri contemporanei per sostenere ad esempio l’equivalenza degli antichi «riti d’iniziazione» con «il processo d’individuazione» [53]; l’idea che «l’opera alchemica di Jung interessa a sua volta degli Occidentali che desiderano ancorarsi a una tradizione d’Occidente …» [54]; l’esistenza d’una somiglianza tra il mondo degli archetipi junghiani e il mondo delle Idee platoniche [55]; il fatto che «solo oggi cominciamo a capire queste idee molto avanzate (quelle del Bardo-Thödol) grazie alla nuova psicologia del profondo che, per la prima volta, ha osato oltrepassare i confini della nostra coscienza sveglia per avventurarsi negli strati più profondi della psiche umana» [56], ecc.
Aggiungiamo che anche un teologo cattolico come J. Daniélou si era fatto garante per i lavori di Jung sul simbolismo, senza forse rendersi conto delle conseguenze temibili che questo poteva avere, anche riguardo alla dottrina della Chiesa [57]. Oggi, gli scritti di E. Drewermann permettono pienamente di misurare l’ampiezza di queste conseguenze. Il suo attaccamento alla psicologia del profondo lo conduce infatti riconoscere per le «leggende giudeo-cristiane», i sacramenti, i riti, ecc., esclusivamente un’origine inconscia a partire dagli archetipi junghiani. In modo tale che le Scritture, considerate normalmente dagli esegeti come rivelate, si troverebbero ormai poste sotto il controllo d’infrastrutture autonome e in qualche modo rigorosamente separate dal Verbo; per quanto questo principio possa addirittura avere ancora un senso in questa prospettiva per lo meno discutibile. Volendo correggere la teologica per mezzo della psicanalisi, associando l’esercizio del sacerdozio alla psicoterapia analitica, E. Drewermann contribuisce a dare a questo paradosso una dimensione che probabilmente mai aveva ancora raggiunto [58]. Del resto, secondo Jung stesso, un teologo non gli aveva forse detto «che le visioni di Ezechiele erano solo sintomi morbosi, e che quando Mosè e gli altri profeti ascoltavano delle “voci” parlare loro, essi soffrivano d’allucinazioni» [59]?
Così saremmo forse in presenza d’una forma d’autodistruzione del dogma, particolarmente sottile e grossolano allo stesso tempo.
In ogni caso, il nominalismo fondamentale di Jung [60], sul quale insisteremo nella seconda parte (cap. 5), fa del mito, della visione ispirata, del simbolo, della dottrina stessa, proprio delle produzioni d’una attività immaginativa puramente umana e in ultima analisi rigorosamente incosciente. Come dice chiaramente M.-L. von Franz, «quello che oggi chiamiamo l’inconscio collettivo non era ancora mai stato concepito come psicologico nel senso moderno del termine, ma era stato fino ad allora proiettato nello spazio cosmico esterno all’anima», ecc. [61]. All’occorrenza, si tratta più esattamente di de-divinizzare l’origine dei miti per non farne che «l’espressione immediata dell’attività vitale» [62].
Come accennavamo sopra, è veramente sorprendente costatare in questo momento l’esistenza d’un progetto di conciliazione, oggettivamente incoerente, tra le concezioni tradizionali del mondo e le ipotesi junghiane circa le ragioni dell’esistenza d’un fondo psichico comune a tutta l’umanità. La realtà innegabile di quest’ultimo troverà nel seguito della nostra ricerca una spiegazione del tutto diversa da quella data da Jung, la cui opera non è, in definitiva, che uno degli ultimi prolungamenti logici dell’anti-Realismo medievale. Certo è che il suo carattere ampiamente sovversivo [63], dal punto di vista metafisico, dovrebbe spingere l’ermeneuta a un maggiore discernimento e precisione nella sua ricerca del vero significato.
L’ipotesi che abbiamo avanzato sulla natura della psicanalisi come fenomeno culturale mirante al recupero del dominio iniziatico potrebbe nondimeno sembrare insostenibile. Infatti, molto presto, gli psicanalisti, in particolare attraverso l’esempio dello sciamanismo, hanno sistematicamente cercato di svalutare questo dominio, assimilando quel che Eliade chiamava «cambio di regime ontologico» a una comune patologia mentale.
L’intero processo d’iniziazione, i viaggi celesti, le visioni, sogni e ascensioni, le dottrine cosmologiche e metafisiche, la mitologia ancestrale degli sciamani si trovavano a priori ridotti all’opera di nevrotici. Questa concezione fu sostenuta da Devereux e moltissimi altri psicologi. Non tenteremo qui di confutare questo punto di vista che M. Eliade aveva criticato [64] e che fu, più recentemente, severamente contestato dall’etnologo Ph. Mitrani nel suo articolo intitolato Aperçu critique des approches psychiatriques du chamanisme [65].
L’importante è osservare la negazione, presso gli psicanalisti, d’una possibile efficacia spirituale dell’iniziazione, ciò che sembra del tutto normale in considerazione dei postulati agnostici del sistema freudiano. Tuttavia, come abbiamo mostrato sopra, un certo numero tra loro hanno cercato di fondere psicanalisi e iniziazione, sia sul piano teorico sia pratico. Questa tendenza, relativamente nuova, fu inizialmente marginale, poi non ha smesso fino a oggi d’avere un’espansione decisamente rilevante.
Diversi casi sono stati menzionati sopra tra cui quello di J.-P. Schnetzler (cfr. n. 54) che cerca, all’interno della Massoneria detta regolare, un innesto abbastanza “sospetto” di certe concezioni psicanalitiche sul vecchio fondo iniziatico, d’origine prevalentemente artigianale, che rappresenta ancora questa organizzazione. Ci soffermeremo semplicemente sui lavori di due analisti, R. Desoille e P. Solié, per giustificare meglio la nostra posizione.
Nel sua libro Théorie et pratique du rêve éveillé dirigé [66], R. Desoille aveva cercato di stabilire quello che G. Durand ha definito «terapeutica d’elevazione psichica, se non morale» [67]. Si trattava in particolare, al fine di “guarigione”, di provocare nell’immaginazione del paziente un sogno suscettibile di modificare il suo psichismo in un senso considerato positivo. Tra le immagini utilizzate da R. Desoille, ritornava abbastanza spesso quella dell’«ascensione d’una vetta in cima alla quale vive un Saggio» (p. 91), che poteva condurre, com’è il caso più avanti (pp. 127-156), verso un profeta (Mosè o Salomone).
Questo metodo, largamente dipendente sul piano ermeneutico dall’archetipo junghiano, è interessante in quanto sembra portare a una simulazione immaginaria e di conseguenza riduttrice dei modelli ascensionali tradizionali. Senza anticipare quel che svilupperemo nella terza parte di questo lavoro, riteniamo che, leggendo le opere di R. Desoille con la necessaria prospettiva, sarebbe difficile non costatare una somiglianza tra i suoi processi e la struttura dei racconti visionari tradizionali di tipo ascensionale [68]. Ma non rimane questa puramente formale? Infatti, questi racconti comportano, per chi li vive, l’ingresso in un aldilà del mondo sensibile, più reale, considerato come Luogo d’elezione per ottenere delle conoscenze segrete insegnategli da uno spirito celeste, un angelo, o un profeta. Generalmente, questo Viaggio è anche l’occasione d’una trasformazione spirituale dell’iniziato, che lo fa così accedere a un grado ontologico superiore. All’opposto, la tecnica di R. Desoille, se si basa sul prestigio qualitativo della verticalità, non è meno limitata a un uso puramente psicologico, poiché la finalità delle sedute d’“immaginazione guidata” non mira che al trattamento degli stati depressivi.
Questa deriva psichiatrica ricorda il modo molto singolare che spesso gli Occidentali hanno di comprendere e praticare lo yoga che, nelle loro menti, diventa un vago esercizio fisico suscettibile di generare un benessere mentale e affettivo. Seguendo questa interpretazione, il metodo indù di Liberazione (Moksha) sarebbe ridotto a una comune ginnastica di sostentamento «alla portata di tutti» [69]. Sebbene il problema sia diverso, la presenza residua di simboli ascensionali nell’analisi concepita da Desoille potrebbe corrispondere a una medicalizzazione profana, in un senso illegittimo, di riti che avevano in origine una funzione del tutto diversa.
La manipolazione tecnica del soggetto immaginante ch’egli opera sottintende essa stessa una concezione ristretta dell’immaginazione, ridotta a una mera attività produttrice d’immagini, che non possiede alcuno statuto esistenziale proprio. In altre parole, il Saggio o il profeta sognati dal paziente di R. Desoille non hanno alcuna realtà se non nello psichismo del malato. Ora, è molto diverso quando si studiano, ad esempio, i metodi esoterici di realizzazione spirituale che, nel loro complesso, comportano necessariamente la possibilità concreta d’un incontro con un santo o un profeta, in modo visionario. Si dovrebbe segnatamente menzionare l’esempio, nella tradizione del sufismo, di quel discepolo che, secondo M. Chodkiewicz, fu colto da uno stato spirituale (hal) «durante il quale vide il suo shaykh distruggerlo a colpi di piccone poi ricostruirlo» [70], con l’intenzione di compiere una «rigenerazione psichica» [71] istantanea del suo essere. Quest’opera, resa percepibile per mezzo d’una immagine proiettata nel Cuore del discepolo dal suo maestro, è dovuta all’azione d’una forza purificatrice agente. Un tale impiego iniziatico della facoltà immaginativa è tuttavia concepibile solo con riferimento a un’antropologia sacra e a una “mistica cosmologica” che situi questo mondo sottile intermedio (psichico) tra il dominio corporeo e il mondo delle realtà spirituali. È infatti per mezzo della sua sola potenza spirituale, informale per essenza, che il maestro perviene ad attualizzare una simile metamorfosi del suo giovane allievo. In questa prospettiva, è quindi opportuno precisare il ruolo esclusivamente mediatore dell’Immaginazione visionaria. La psicanalisi, dato il suo rifiuto, fondamentale, del terzo termine (spirituale), fa dell’immaginazione uno “spazio” ripiegato su se stesso e dell’immagine un elemento dinamizzante, privo di portata anagogica.
Detto questo, se ancora distinguiamo nettamente le concezioni di R. Desoille dai metodi iniziatici tradizionali, questo diventa più difficile, d’acchito, se cerchiamo di opporli ai lavori di P. Solié.
L’autore di Psychanalyse et imaginal [72] appartiene infatti a quella categoria d’analisti che, secondo M. Cazenave, «riprende esplicitamente la tesi della filiazione sciamanica della psicanalisi moderna …», ciò che P. Solié già dichiarava nel suo libro intitolato Médecines initiatiques aux sources des psychothérapies, quando scriveva: «qualunque cura psicanalitica profonda … costituisce un’iniziazione su misura. Essa ha il suo cerimoniale, i suoi riti (…). Siamo certamente gli sciamani del nostro secolo». Prima d’esaminare brevemente questa concezione, notiamo ch’essa sembra interinare in modo decisivo l’ipotesi che formulavamo all’inizio di questo capitolo. Il problema maggiore che pone questo psicanalista sta nell’iniezione ch’egli effettua, all’interno delle sue ricerche, d’un vocabolario in principio di tutt’altra origine, che potremmo qualificare metafisica. Certo, P. Solié intende conferire al trattamento, apertamente e in modo inedito, un valore “iniziaziatico”, ma non vediamo a prima vista come sarebbe possibile giustificare logicamente, se non con un artificio, un simile tentativo d’assimilazione.
La principale difficoltà sulla quale ci soffermeremo consiste nell’uso molto particolare che fa del termine immaginale, di cui Corbin fu l’introduttore. Questa difficoltà è tanto maggiore quanto la definizione che ne dà Solié sembra corrispondere abbastanza precisamente a quella data dall’islamologo, ossia: un «intermondo tra le realtà sensibili e le realtà platoniche intelligibili» [73], ciò che coincide apparentemente con quello che dicevamo sopra riguardo alla situazione e alla funzione del mondo intermedio. Tuttavia, ed è qui che verte la nostra critica, P. Solié continua la sua definizione aggiungendo: «… che si avvicina al mondo degli archetipi di Jung», poi: «il mundus imaginalis costituisce quindi una struttura d’Immagini (Eidolon, Eidos) che è il riflesso antropomorfizzato d’un altro mondo, sia nell’“infrarosso” sia nell’“ultravioletto”…».
Questo approccio un poco “surrealista”, in tutto conforme allo stile volentieri eccentrico dell’autore, sottintende dunque la possibilità d’una quasi identificazione del concetto di mondo immaginale, abitato da quelli che chiama gli “immaginali”, al mondo degli archetipi junghiani. Ora, anche se P. Solié si fa carico dell’opposizione corbiniana tra immaginale e immaginario [74], si costata comunque un equivoco, riguardante la natura esatta del mundus imaginalis. Per Solié, gli Dei sono effettivamente “in noi”, ma perché l’inconscio dà loro esistenza. In nessun caso sono realtà divine trascendenti, che si manifesterebbero al mondo o al nostro spirito. Così intesa, la psicanalisi diventa una gigantesca operazione di spoliazione e d’annessione del corpus iniziatico tradizionale, sia sul piano dottrinale sia su quello tecnico. La sua metamorfosi in una presunta via iniziatica la renderebbe quasi, per un osservatore disattento, equivalente a quello che lo storico delle religioni intende con questa espressione. Si tratta in tutti i casi d’un fenomeno unico nella storia recente delle idee, che una scienza umana viene progressivamente a presentarsi con tutte le caratteristiche abituali d’una iniziazione tradizionale [75]. Anche se questo “calco” non ha per ambizione consapevole o riconosciuta l’inversione di quest’ultima, resta il fatto che il suo effetto immediato è di produrre quello che abbiamo chiamato una caricatura [76] dell’iniziazione e una confusione non meno temibile nella comprensione delle dottrine mistiche ch’egli cerca d’imitare.
* Patrick Geay, Hermès trahi: Impostures philosophiques et néo-spiritualisme d’après l’œuvre de René Guénon, L’Harmattan, Paris, 2011, parte I, cap. I.
Tratto da: https://letteraespirito.wordpress.com/il-capovolgimento-psicanalitico-da-freud-a-jung/
1. Su questa espressione [renversement], cfr. R. Guénon, Symboles fondamentaux de la Science sacrée, Gallimard, 1982, cap. LXII.
2. La cabale, Jacques Grancher, 1988, p. 28.
3. Cfr. R. Darnton, La fin des Lumières. Le mesmérisme et la Révolution, Perrin, 1984.
4. R. Guénon ha sottolineato, relativamente a questo fenomeno, l’influenza della sua dimensione negativa, vedere in particolare Symboles fondamentaux de la Science sacrée, cap. XX; Le Règne de la Quantité et les signes des Temps, Gallimard, 1986, cap. XXVII, e a titolo illustrativo gli Extraits de lettres à Hillel, apparso nel Cahier de l’Herne René Guénon, 1986, pp. 112-114.
5. Cfr. L’Évolution, une théorie en crise, Flammarion, 1992.
6. Cfr. Introduction à la psychanalyse, Payot, 1985, pp. 266-267.
7. Cfr. Initiations, rites, sociétés secrètes, Gallimard, 1976, p. 270, n. 56. Segnaliamo tuttavia che questo punto di vista era già stato sostenuto da R. Guénon ne Le Règne de la Quantité …, cap. XXXIV, dieci anni prima.
8. Cfr. F. Tristan, Le monde à l’envers, Hachette, 1980, pp 86-88. In questo studio, molto ben illustrato, si osserva tuttavia un’ambiguità legata al fatto che l’autore utilizza abbastanza regolarmente il termine incoscente e anche immaginario, in relazione al dominio che affronta, assimilandolo a torto al “mundus imaginalis”, cfr. pp. 4, 15, 39.
9. Sul senso dato qui a questa parola, cfr. R. Guénon, Initiation et réalisation spirituelle, Éd. Traditionnelles, 1980, cap. XXVIII.
10. Questo dettaglio è importante nella misura in cui, contrariamente all’analisi (spesso pertinente) di J. Borella, che presenta la psicanalisi come un’“anti-religione” (cfr. La crise du symbolisme religieux, L’Âge d’Homme, 1990, p. 192), il metodo psicanalitico simula più nel suo funzionamento l’iniziazione tradizionale, come affermato giustamente ma troppo brevemente da J. Van Rillaer in Les illusions de la psychanalyse, Mardaga, 1980, p. 249.
11. Così come J. Chémouni indicava recentemente in , Freud, la psychanalyse et le judaïsme, un messianisme sécularisé, Éditions Universitaires, 1991, p. 10, citando una frase di G. Rosolato.
12. Payot, 1977, riassunto in un nostro capitolo: FTMJ.
13. Cfr. ad esempio FTMJ, pp. 54, 72.
14. Questo punto molto enigmatico è stato discusso da J. Chémouni in Freud, la psychanalyse et le judaïsme, senza che una definizione precisa sia stata data a questo “qualcosa” d’ebreo che sembra aver condizionato la nascita della psicanalisi e che non è la religione ebraica, cfr. p. 160. Questa “energia” sarebbe forse da mettere in relazione con il “lato malefico” e dissolvente del nomadismo deviato, che, scriveva R. Guénon «predomina inevitabilmente presso gli ebrei distaccati dalla loro tradizione», cfr. Le Règne de la Quantité …, p. 222, n. 1.
15. Vedere su questo soggetto, J. Chémouni, Freud …, pp. 60-71 e D. Ligou, Dictionnaire de la Franc-Maçonnerie, P.U.F., 1987, pp. 143-144.
16. Cfr. FTMJ, pp. 75, 76.
17. Su di lui, vedere M. Idel, L’expérience mystique d’Abraham Aboulafia, Cerf, 1989.
18. Cfr. FTMJ, p. 82.
19. Ibid., p. 205.
20. Ibid., p. 206, l’autore menziona qui il trattato Berakhoth che fa parte del Talmud de Babylone e contiene importanti sviluppi sull’onirocritica ebraica.
21. Ibid., p. 209. A questo proposito, Bakan tenta di stabilire un parallelo tra i metodi (tradizionali) d’interpretazione delle lettere (ebraiche): Zeruf, Gematria, Notarikon, Temurah e quelli di Freud.
22. Ibid., p. 104.
23. Ibid., p. 107.
24. Ibid., p. 111.
25. Si ritrova in Freud questo stesso fascino (evocato sopra, cfr. n. 4) per l’Egitto; ciò che gli faceva credere effettivamente a un’origine egiziana di Mosè, cfr. Moïse et le monothéisme, I, II, Gallimard, 1948. J. Chémouni segnala un’utilizzazione molto suggestiva di questa tradizione da parte di Freud a proposito delle caratteristiche psichiche dell’Uomo-lupo, cfr. Freud …, p. 148. Notiamo di passaggio l’esistenza d’una ossessione simile per i miti egiziani in E. Drewermann, questa volta riguardo all’origine del racconto della natività di Gesù, cfr. De la naissance des dieux, à la naissance du Christ, Seuil, 1992.
26. Cfr. FTMJ, p. 113.
27. Sull’oniromanzia ebraica, cfr. A. Caquot, Les songes et les interprétations selon Canaan et Israël, in Les songes et leur interprétation, Sources orientales, Seuil, 1959.
28. Frase citata da D. Bakan in FTMJ, p. 130, tratta da La science des rêves.
29. FTMJ, p. 78.
30. Cfr. L’homme et la société, nº 59-62, 1981.
31. È sorprendente osservarea qual punto Freud era ansioso di vedere la psicanalisi stabilirsi in tutti i paesi: l’Austria, la Svizzera, gli Stati Uniti, l’Inghilterra, l’India, il Canada, l’Australia, la Germania, l’Italia, la Francia, la Svezia, la Russia, ecc., cfr. Freud, Contribution à l’histoire du mouvement psychanalytique, cap. II, in Cinq leçons de psychanalyse, Payot, 1980. Si tratta quindi davvero d’una conquista messianica del mondo, come lo riconosce J. Chémouni, cfr. Freud …, conclusione, il cui scopo era quello di sovvertire la gentilità, come è stato suggerito da S. Rothman e P. Isenberg, ibid., p. 10, e la Chiesa cattolica …
32. Cfr. Le chamanisme et les techniques archaïques de l’extase, Payot, 1988, p. 39. Questo dato è capitale.
33. Su Charcot, cfr. W. Bannour, Jean Martin Charcot et l’hystérie, Métailié, 1992 Notiamo a suo riguardo l’interessante ipotesi di R. Darnton che scriveva: «può darsi che la psicanalisi si sia sviluppata a partire da una linea di scienziati occultisti, collegante Freud, Charcot e Braid a Bertrand, Puységur e Mesmer, proprio come la chimica era emersa dall’alchimia», cfr. La fin des Lumières. Le mesmérisme et la Révolution, p. 209.
34. Cfr. FTMJ, p. 174.
35. Cf. Une névrose démoniaque au XVIIe siècle, dans L’inquiétante étrangeté, Gallimard, 1990, p. 270.
36. Cfr. Le rêve et son interprétation, Gallimard, 1978, p. 7.
37. Su questo soggetto, vedere La lettre sur la sainteté. Le secret de la relation entre l’homme et la femme dans la cabale, Verdier, 1986.
38. Cfr., ad esempio, Le savant et le politique, 10/18, 1982, p. 96.
39. Tenuto conto del suo rifiuto del geocentrismo.
40. Ricordiamo brevemente le conclusioni del suo argomento principale: «come può la tendenza repressa “nascondersi” se essa non l’avvolge: 1) la consapevolezza d’essere repressa; 2) la consapevolezza d’essere stata respinta perché essa è quello che è; 3) un progetto di travestimento?». Cfr. L’être et le néant, Gallimard, 1943, pp. 90-92. Più recentemente, R. Bouveresse-Quillot e R. Quillot hanno tentato d’effettuare un bilancio delle obiezioni fatte a Freud in Les critiques de la psychanalyse, P.U.F., 1991.
41. Cfr. Éléments de philisophie, Libro II, cap. XVI, Gallimard, 1977, p. 149.
42. Cfr. Ibn ‘Arabî, La Parure des Abdâl, Éditions de l’Œuvre / Archè-Edidit, 1992 p. 38, n. 37. Vedere anche la definizione che dà R. Guénon ne La crise du monde moderne, Gallimard, 1992, p. 116, n. 1.
43. Cfr, Jung, Types psychologiques, Georg, 1986, p. 56.
44. Cfr, cap. II, p. 111.
45. Cfr. Pour une science des religions, Seuil, 1973, pp. 129-138.
46. Su questo punto, vedere Ch.-A. Gilis, René Guénon et l’avènement du troisième Sceau, Éd. Traditionnelles, 1991, p. 49.
47. Cfr. Types psychologiques, p. 429.
48. Cfr. M.D. Verano, Psychanalyse, socellerie et humour, nella rivista Charis, nº 1, Archè, 1988 e M. Eliade, La nostalgie des origines, Gallimard, 1978, pp. 279-282.
49. Cfr. Cahier de l’Herne C.G. Jung, 1984, p. 267.
50. Cfr. Psychologie et orientalisme, risposta a M. Buber, Payot, 1984.
51. Frase estratta da Psychologie et religion, citato da Ch. Gaillard in Jung et la mystique, p. 125, Nouvelle revue de psychanalyse, nº 22, 1980.
52. Cfr. La vie éternelle, Réincarnation, Résurrection, Divinisation, Mame, 1992, p. 49.
53. Cfr. S. Marjash, Sur la psychologie du rêve de C.G. Jung, p. 130, in Le rêve et les sociétés humaines, Gallimard, 1967.
54. Cfr. J. Biès, René Guénon, héraut de la dernière chance, Cahier de l’Herne René Guénon, 1986, p. 37, che non esita ad affermare più avanti: «Il punto di vista psicologico di Jung e il punto di vista metafisico di Guénon creano una differenza di piano, non un’opposizione de facto», cfr. n. 38. Ciò che è in flagrante contraddizione con il punto di vista di Guénon sulla questione. Nel quadro della Massoneria, lo psichiatra J.-P. Schnetzler ha potuto scrivere nella stessa ottica: «I contributi della psicanalisi da una parte, i dati più recenti della psicologia transpersonale negli U.S.A. d’altra parte, riuniscono e completano i dati delle saggezze tradizionali affermando che si tratta proprio del morire all’io»; cf. Mort et renaissance, in Travaux de la Loge nationale de recherches Villard de Honnecourt, G.L.N.F., 1984, p. 201, nº. 8.
55. Cfr. M. Eliade, Mythes, rêves et mystères, p. 57, Gallimard, 1985. La perspicacia di quest’autore riguardo la natura della psicanalisi freudiana (rilevata all’inizio di questo capitolo) non sembra essersi estesa a quella di Jung.
56. Cfr. Le livre tibétain des morts, prefazione di Lama Anagarika Govinda, Dervy 1980, p. 8. L’influenza di Jung sul buddismo occidentalizzato è stata particolarmente grande, come ne testimonia l’opera di Suzuki, Fromm, de Martino, Bouddhisme zen et psychanalyse, P.U.F., 1986. Notiamo che il Dalai Lama ha recentemente pubblicato un libro con E. Drewermann.
57. Cfr. Essai sur le mystère de l’histoire, Seuil, 1953, p. 131. L’autore aveva peraltro partecipato a numerose conferenze organizzate da O. Frœbe al Circolo Eranos (Ascona) che fu un vero e proprio “centro” d’influenza della psicanalisi junghiana.
58. Cfr. De la naissance des dieux à la naissance du Christ. Une interprétation des récits de la nativité de Jésus d’après la psychologie des profondeurs.
59. Cfr. Essai d’exploration de l’inconscient, Gallimard, 1989, p. 70.
60. Cfr. Jung, Types psychologiques, pp. 28-65.
61. Cfr. Psyché et matière, in Cahier de l’Herne C.G. Jung, p. 325.
62. Cfr. Jung, Types psychologiques, p. 446.
63. Cfr. R. Guénon, Tradition et “inconscient”, in Symboles fondamentaux de la Science sacrée, cap. V. È inoltre opportuno, nella prospettiva propria all’antropologia storica di J. Le Goff, evocare la diffidenza del medievalista rispetto all’«ideologia sospetta degli archetipi» che qualifica come «elucubrazione mistificante». Quest’ultimo cita in quest’occasione, in L’imaginaire médiéval, Gallimard, 1985, p. VI, n. 2, l’opera di B. Obrist, Les débuts de l’imagerie alchimique, ch’egli dice ha mostrato «l’inanità delle interpretazioni junghiane delle immagini astrologiche».
64. Cfr. Le chamanisme et les techniques archaïques de l’extase, pp. 36-43, Payot, 1988.
65. Diogène, nº 158, Gallimard, 1992, pp. 130-147.
66. Éd. du Mont-Blanc, Genève, 1961.
67. Cfr. Les structures anthropologiques de l’imaginaire, Dunod, 1987, p. 138.
68. Citiamo in un primo momento, a titolo documentario, I.P. Couliano, Expériences de l’extase, Payot, 1984.
69. Cfr. M. Eliade, Techniques du Yoga, Gallimard, 1975, p. 12.
70. Cfr. Quelques aspects des techniques spirituelles dans la tariqâ naqshbandiyya, 1985. Ringraziamo M. Chodkiewicz per averci comunicato il suo studio.
71. Cfr. R. Guénon, L’Octogone, in Symboles fondamentaux de la Science sacrée, pp. 276-277.
72. Éd. Imago, 1980. Introduzione di M. Cazenave.
73. Cfr. Psychanalyse et imaginal, p. 197.
74. Ibid., p. 182.
75. Sul probabile ruolo dello sciamanesimo degenerato nell’elaborazione d’una contraffazione psicanalitica dell’iniziazione, cfr. R. Guénon, Le Règne de la Quantité …, cap. XXV.
76. A titolo d’illustrazione, J. Borella ha attirato l’attenzione sullo strano fenomeno dei Sette Anelli che legavano Freud ai membri del famoso Comitato segreto fondato da E. Jones (cfr. J. Borella, Du symbole selon René Guénon, pag. 219, n. 10, Cahier de l’Herne René Guénon. La funzione di questi “talismani” resta oggi oscura. Per quali ragioni infatti Freud abbia dato a Jones, Rank, Ferenczi, Abraham, Sachs, Eitingon, un “intaglio greco” che questi ultimi fecero sparire (cfr. E. Jones, La vie et l’œuvre de Sigmund Freud, P.U.F., 1961, T. II, pp. 164-165)? Lungi dall’essere aneddotica, questa pratica rivela in tutti i casi la presenza d’una abitudine, inattesa in un ambiente di «liberi pensatori» (E. Jones), che può ricordare, in maniera parodistica, il rito medievale degli anelli medicinali. Altro fatto singolare, questo gruppo di sette (con Freud) evoca similmente una contraffazione della regola che impone che una loggia massonica possa essere aperta solo in presenza di almeno sette maestri.
Quanto a Jung, J. Borella ha egualmente segnalato, citando dei dati forniti da M. Eliade (Fragments d’un journal, Gallimard, 1973, pp. 117, 181), l’esistenza d’un rituale “magico” con anelli e bicchieri di vino, grazie al quale lo psicologo si “legava” (secondo O. Frœbe) a certi individui.


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