"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

martedì 10 febbraio 2015

René Guénon, Forme tradizionali e cicli cosmici - cap. Cabala e scienza dei numeri

René Guénon
Forme tradizionali e cicli cosmici
 

Cabala e scienza dei numeri[1]

Abbiamo sovente insistito sul fatto che le «scienze sacre» appartenenti ad una data forma tradizionale ne costituiscono realmente parte integrante, perlomeno a titolo di elementi secondari e subordinati, lungi dal rappresentarne solamente delle specie di aggiunte avventizie, che vi si sarebbero ricollegate più o meno artificialmente.
È indispensabile capire bene questo punto e non perderlo mai di vista se si vuol penetrare, per poco che sia, il vero spirito di una tradizione; ed è tanto più necessario richiamare l’attenzione in proposito in quanto si constata abbastanza di frequente ai nostri giorni, in coloro che pretendono di studiare le dottrine tradizionali, la tendenza a non tener conto delle scienze di cui si tratta, sia per le particolari difficoltà che presenta la loro assimilazione, sia perché, oltre alla impossibilità di farle rientrare nel quadro delle classificazioni moderne, la loro esistenza è particolarmente imbarazzante per chi si sforza di ricondurre ogni cosa alle visuali exoteriche e di interpretare le dottrine in termini di «filosofia» o di «misticismo». Senza insistere ulteriormente sulla vanità di tali studi intrapresi «dall’esterno» e con intenti esclusivamente profani, tuttavia ripeteremo ancora una volta, poiché ne constatiamo per così dire ogni giorno l’opportunità, che le concezioni deformate alle quali essi approdano inevitabilmente sono certamente peggiori dell’ignoranza pura e semplice.
Talvolta capita anche che talune scienze tradizionali rivestano un’importanza maggiore di quella che abbiamo appena indicata e che, oltre al valore che possiedono in se stesse nel loro ordine contingente, siano assunte come mezzi simbolici d’espressione per la parte superiore ed essenziale della dottrina, al punto che questa diviene completamente inintelligibile se si pretende di separarla da esse. È quanto avviene specialmente, per quel che concerne la Cabala ebraica, per la «scienza dei numeri», che del resto si identifica in gran parte con la «scienza delle lettere», così come nell’esoterismo islamico, e questo in virtù della costituzione stessa delle due lingue ebraica ed araba, le quali, come facevamo notare precedentemente, sono reciprocamente vicine sotto tutti gli aspetti[2].
Il ruolo preponderante della scienza dei numeri nella Cabala è un fatto così evidente che non potrebbe sfuggire neppure all’osservatore più superficiale, e che non può essere negato né dissimulato neppure dai critici più affetti da pregiudizi o pieni di partiti presi. Ciononostante, questi ultimi non mancano di dare a questo fatto almeno delle interpretazioni erronee, al fine di farlo rientrare bene o male nel quadro delle loro idee preconcette; perciò ci proponiamo qui soprattutto di dissipare tali confusioni più o meno volute, e per buona parte dovute agli abusi del famigerato «metodo storico», che a tutti i costi vuol vedere «prestiti» dovunque si imbatte in talune similitudini.
Si sa che è di moda, negli ambienti universitari, la pretesa di ricollegare la Cabala al neo-platonismo, in modo da diminuirne l’antichità e l’importanza; non viene infatti riconosciuto come principio indiscutibile che ogni cosa non potrebbe provenire se non dai Greci? In proposito si dimentica purtroppo che lo stesso neo-platonismo contiene molti elementi che non hanno niente di specificamente greco, e che il Giudaismo in particolare aveva, nell’ambiente alessandrino, una importanza tutt’altro che trascurabile, al punto che, se davvero vi furono dei «prestiti», essi si operarono probabilmente in senso inverso, rispetto a quanto si afferma in quegli ambienti. Tale ipotesi sarebbe molto più verosimile, innanzitutto perché l’adozione di una dottrina straniera male si concilia con il «particolarismo» che è sempre stato uno dei tratti dominanti dello spirito giudaico, e poi perché, qualunque cosa si voglia pensare del neo-platoaismo, esso, in ogni caso, non rappresenta che una dottrina relativamente exoterica (pur essendo basato su taluni dati d’ordine esoterico, essa non ne costituisce che una «esteriorizzazione»), e come tale non ha potuto esercitare un’influenza reale su di una tradizione essenzialmente iniziatica,, ed anche molto «chiusa», come è ed è sempre stata la Cabala[3]. Non ci pare d’altronde che vi siano, fra essa e il neo-platonismo, delle somiglianze particolarmente sorprendenti, né che, nella forma sotto la quale quest’ultimo si esprime, i numeri rivestano quell’importanza che è così caratteristica della Cabala; del resto, la lingua greca non lo avrebbe consentito, mentre, ripetiamo, vi è là qualcosa che inerisce alla lingua ebraica stessa e che, conseguentemente, deve essere stata vincolata dall’origine alla forma tradizionale che essa esprime.
Beninteso, non si vuol contestare che una scienza tradizionale dei numeri sia esistita anche presso i Greci; essa, come si sa, costituì addirittura la base del Pitagorismo, che non era una semplice filosofia, ma aveva anch’esso un carattere propriamente iniziatico; ed è questa la fonte, in Platone, non solo di tutta la parte cosmologica della sua dottrina, così come egli la espone in particolare nel Timeo, ma anche della sua «teoria delle idee», che, in fondo, non è altro che una trasposizione, secondo una diversa terminologia, delle concezioni pitagoriche sui numeri, considerati come principi delle cose. Se dunque si voleva davvero trovare presso i Greci un termine di paragone per la Cabala, si doveva risalire al Pitagorismo; ma è proprio qui che si rivela più chiaramente tutta l’inanità della tesi dei «prestiti»: siamo sì in presenza di due dottrine iniziatiche che danno similmente un’importanza capitale alla scienza dei numeri, ma tale scienza viene presentata, da una parte e dall’altra, sotto forme radicalmente differenti.
Non sarà inutile, a questo punto, qualche considerazione d’ordine più generale: è perfettamente normale che una medesima scienza si incontri in tradizioni diverse, poiché la verità, in qualsivoglia dominio, non potrebbe essere monopolio di una sola forma tradizionale, ad esclusione delle altre; questo fatto non può dunque meravigliare nessuno, eccetto, naturalmente, i «critici», che non credono alla verità; e l’ipotesi contraria sarebbe non solo sbalorditiva, ma anche difficilmente concepibile. In ciò non vi è nulla che implichi una comunicazione più o meno diretta fra due differenti tradizioni, se anche non fosse incontestabilmente più antica dell’altra: non è forse possibile che si attinga una certa verità e che la si esprima indipendentemente da coloro i quali l’hanno già espressa anteriormente, e tale indipendenza non sarà tanto più probabile quanto più questa stessa verità sarà, di fatto, espressa in una maniera diversa? D’altra parte, bisogna notare che ciò non contraddice affatto l’origine comune di tutte le tradizioni; la trasmissione dei principi, a partire da questa origine comune, non comporta necessariamente in maniera esplicita quella di tutti gli sviluppi che vi sono impliciti e di tutte le applicazioni alle quali possono dar luogo; in una parola, tutto ciò che è «adattamento» può essere considerato proprio di tale o talaltra forma tradizionale particolare, e, se se ne trova l’equivalente altrove, ciò si deve al fatto che dai medesimi principi si dovevano trarre naturalmente le medesime conseguenze, quale che sia poi il modo speciale in cui possono essere state espresse qua o là (fatta eccezione, beninteso, per certe espressioni simboliche le quali, essendo identiche dappertutto, si devono considerare risalenti fino alla Tradizione primordiale). D’altronde, le differenze formali saranno, in generale, tanto più grandi quanto più ci si allontanerà dai principi, per discendere ad un ordine contingente; ed è questa una delle principali difficoltà per la comprensione di certe scienze tradizionali.
Tali considerazioni, come si comprenderà facilmente, tolgono quasi ogni interesse a tutto quanto riguarda l’origine delle tradizioni o la provenienza dei loro elementi costitutivi, dal punto di vista «storico», nel senso profano, poiché rendono perfettamente inutile la supposizione di una qualsiasi filiazione diretta. Inoltre, anche laddove si rileva una somiglianza molto più stretta fra due forme tradizionali, questa somiglianza può spiegarsi molto meno con dei «prestiti», spesso fortemente inverosimili, che non con delle «affinità» dovute ad un certo insieme di condizioni comuni o simili (razza, tipo di linguaggio, modo di vita, etc...) fra i popoli ai quali tali forme rispettivamente si indirizzano[4]. Quanto ai casi di filiazione reale, non è che si debbano escludere completamente, poiché è evidente che non tutte le forme tradizionali procedono direttamente dalla Tradizione primordiale, ma che altre forme hanno dovuto talora fare da intermediarie; ma queste ultime, il più delle volte, sono completamente scomparse e tali trasmissioni risalgono in genere ad epoche troppo lontane perché la storia ordinaria, il cui campo d’indagine è in definitiva molto limitato, possa averne la minima conoscenza, senza contare che i mezzi con cui esse si sono effettuate non sono di quelli accessibili ai suoi metodi di ricerca.
Tutto questo ci allontana dal nostro tema solo in apparenza, e, tornando ai rapporti fra la Cabala e il Pitagorismo, possiamo ora porci una questione: se la Cabala non può essere derivata direttamente da esso, anche a voler supporre che essa non sia realmente anteriore, e non fosse che a causa di una troppo evidente differenza di forma, sulla quale ritorneremo fra poco con maggior precisione, non si potrebbe almeno ravvisare per entrambe un’origine comune che sarebbe, secondo le vedute di certuni, la tradizione degli antichi Egizi (il che, è inutile dirlo, ci riporterebbe stavolta ben al di là del periodo alessandrino)? È questa, diciamolo subito, una teoria di cui si è molto abusato; e, per quanto riguarda il Giudaismo, ci è impossibile, a dispetto di certe asserzioni più o meno fantasiose, scoprirvi il minimo rapporto con tutto ciò che si può sapere della tradizione egizia (ci riferiamo alla forma, in quanto essa soltanto può essere messa in discussione, essendo il fondo necessariamente identico in tutte le tradizioni); senza dubbio vi sarebbero dei vincoli ben più reali con la tradizione caldea, siano essi dovuti a derivazione o a semplice affinità, per quanto è possibile afferrare veramente qualcosa di tradizioni estinte da tanti secoli.
Per il Pitagorismo, si pone una questione forse più complessa; e i viaggi di Pitagora, siano poi da intendersi letteralmente o simbolicamente, non implicano necessariamente «prestiti» da dottrine di tale o tal altro popolo (almeno per quanto riguarda l’essenziale, quali che possano essere le questioni di dettaglio), ma piuttosto l’instaurazione o il rafforzamento di certi legami con delle iniziazioni più o meno equivalenti. Il Pitagorismo infatti, a quanto sembra, fu soprattutto la continuazione di qualcosa che preesisteva nella stessa Grecia, e non è il caso di cercare altrove la sua fonte principale: intendiamo parlare dei Misteri, e più particolarmente dell’Orfismo, di cui non fu forse che un «riadattamento», in quel VI secolo prima dell’era cristiana che, per uno strano sincronismo, vide operarsi dei cambiamenti di forma contemporaneamente nelle tradizioni di quasi tutti i popoli. Si dice spesso che i Misteri greci erano essi stessi di origine egizia, ma un’affermazione così generale è fin troppo «semplicistica», e, se può rispondere al vero in certi casi, come quello dei Misteri Eleusini (ai quali pare si pensi principalmente, in tal caso), ve ne sono altri in cui ciò non sarebbe in alcun modo sostenibile[5]. Ora, che si tratti dello stesso Pitagorismo o del precedente Orfismo, non è certo ad Eleusi che bisogna cercare il «punto di collegamento», bensì a Delfi; e l’Apollo delfico non è affatto egizio, ma iperboreo, origine che, in ogni modo, è impossibile ravvisare per la tradizione ebraica[6]; questa considerazione ci conduce poi al punto più importante, in relazione alla questione della scienza dei numeri, e delle differenti forme da essa rivestite.
Tale scienza dei numeri, nel Pitagorismo, appare strettamente collegata a quella delle forme geometriche; d’altronde la stessa cosa accade in Platone, che per questo aspetto è puramente un pitagorico. Si potrebbe vedere qui l’espressione di un tratto caratteristico della mentalità ellenica, legata soprattutto alla considerazione delle forme visive; ed è noto, infatti, che, fra le scienze matematiche, i Greci svilupparono più particolarmente la Geometria[7]. Tuttavia vi è qualcosa di più, almeno per quanto concerne la «geometria sacra», che è quella di cui si tratta qui: il Dio «geometra» di Pitagora e di Platone, inteso nel suo significato più preciso, e, si potrebbe dire, «tecnico», non è altri che Apollo. In proposito non ci è possibile dar luogo a sviluppi che ci porterebbero troppo lontano, e forse torneremo in argomento in un’altra occasione; ci basta ora far notare che questo atto si oppone nettamente all’ipotesi di un’origine comune del Pitagorismo e della Cabala, proprio sul punto in cui soprattutto si è cercato di riavvicinarli e che, a dire il vero, è il solo a poter dare l’idea di un tale accostamento, vale a dire l’apparente somiglianza delle due dottrine, quanto all’importanza che vi riveste la scienza dei numeri.
Nella Cabala, la scienza dei numeri non presenta affatto lo stesso collegamento con il simbolismo geometrico; ed è facile rendersi conto che è così, perché questo simbolismo non poteva essere conveniente a dei popoli nomadi come furono essenzialmente, in origine, gli Ebrei e gli Arabi[8].
Per contro, vi si ritrova qualcosa che non ha il suo equivalente presso i Greci: la stretta unione, per molti aspetti si potrebbe persino dire l’identificazione della scienza dei numeri con quella delle lettere, in virtù delle corrispondenze numeriche di queste ultime; e questa è una caratteristica eminente della Cabala[9] che non si riscontra altrove, almeno sotto tale aspetto e in forma così sviluppata, se non, come abbiamo già detto, nell’esoterismo islamico, cioè, in definitiva, nella tradizione araba.
A prima vista, potrebbe sembrare strano che considerazioni di questo ordine siano rimaste estranee ai Greci[10], poiché anche fra di essi le lettere hanno un valore numerico (che del resto è lo stesso degli alfabeti ebraico e arabo, per quelle che vi hanno il loro equivalente) e non vi furono mai altri segni di numerazione. La spiegazione di questo fatto è tuttavia abbastanza semplice: la scrittura greca, in realtà, non rappresenta che un’importazione straniera (sia essa «fenicia» come per lo più si dice, sia in ogni caso «cadmea», cioè «orientale» senza ulteriori precisazioni, e ne fanno fede i nomi stessi delle lettere), ed essa, nel suo simbolismo numerico o d’altro genere, non ha mai veramente, se così si può dire, fatto corpo con la stessa lingua[11]. Al contrario, in lingue come quella ebraica e quella araba, il significato delle parole è inseparabile dal simbolismo letterale, e sarebbe impossibile darne una completa interpretazione quanto al loro senso più profondo – quello che è veramente importante dal punto di vista tradizionale e iniziatico (non bisogna infatti dimenticare che qui si tratta essenzialmente di «lingue sacre») – senza tener conto del valore numerico delle lettere che le compongono; i rapporti esistenti fra parole numericamente equivalenti e le sostituzioni alle quali danno luogo talvolta costituiscono, a questo proposito, un esempio particolarmente chiaro[12]. Vi è dunque qualcosa che, come dicevamo all’inizio, attiene essenzialmente alla costituzione stessa di queste lingue, che vi è vincolato in una maniera propriamente «organica», ben lontana dall’esservisi aggiunta dal di fuori, e in tempi successivi, come nel caso della lingua greca; e, trovandosi questo elemento contemporaneamente nell’ebraico e nell’arabo, lo si può legittimamente considerare come procedente dalla fonte comune di queste due lingue e delle due tradizioni di cui sono espressione, vale a dire da quella che si può chiamare la tradizione «abramica».
Quindi, al termine di queste considerazioni, si impongono alcune conclusioni: se esaminiamo la scienza dei numeri presso i Greci e presso gli Ebrei, la vediamo rivestita di due forme molto diverse, e da una parte la vediamo poggiare su di un simbolismo geometrico, dall’altra su di un simbolismo letterale[13]. Per conseguenza, non potrebbe esservi questione di «prestiti», né da una parte né dall’altra, ma solamente di equivalenze, come se ne riscontrano necessariamente in tutte le forme tradizionali; lasciamo poi completamente da parte ogni questione di «priorità», che in questo caso sarebbe priva di ogni interesse reale e forse sarebbe anche insolubile, il punto di partenza effettivo potendo trovarsi molto al di là delle epoche per le quali è possibile stabilire una cronologia anche minimamente rigorosa. Inoltre, la stessa ipotesi di un’origine comune e non mediata deve essere ugualmente scartata, poiché vediamo la tradizione di cui fa parte integrante questa scienza, da una parte risalire ad una fonte «apollinea», vale a dire direttamente iperborea, dall’altra ad una fonte «abramica», che verosimilmente si ricollega soprattutto (come del resto suggeriscono gli stessi nomi degli Ebrei e degli Arabi), alla corrente tradizionale venuta dall’«isola perduta dell’Occidente»[14].



[1] Articolo pubblicato su Le Voile d’Isis, agosto-settembre 1933. [N.d.C.]

[2] Si veda il capitolo precedente, Qabbalah. Preghiamo inoltre i lettori di riportarsi anche allo studio su La Science des lettres, che forma il capitolo VI della raccolta Symboles fondamentaux de la Science sacrée.

[3] Ouest’ultima ragione vale ugualmente contro la pretesa di ricollegare l’esoterismo islamico allo stesso neo-platonismo; solo la filosofia, presso gli Arabi, è di derivazione greca, come lo è, d’altronde, ovunque lo si ritrovi, tutto ciò che si può denominare propriamente «filosofia» (in arabo falsafah), e che è come il marchio di questa origine; ma qui non si tratta affatto di filosofia.

[4] Questa osservazione può essere riferita in particolare alla somiglianza di espressione già segnalata fra la Cabala e l’esoterismo islamico; e, a proposito di quest’ultimo, c’è un rilievo abbastanza curioso da fare: i suoi avversari «exoteristi», nello stesso Islam, hanno spesso cercato di togliergli importanza, attribuendogli un’origine straniera, e, col pretesto che molti dei più noti çûfi furono persiani, hanno voluto vedervi soprattutto dei «prestiti» presi dal Mazdeismo, estendendo questa affermazione gratuita anche alla «scienza delle lettere». Ora, non vi è traccia di alcunché di simile presso gli antichi Persiani, mentre tale scienza esiste sotto una forma del tutto simile nel Giudaismo, il che, poi, si spiega molto semplicemente con quelle «affinità» alle quali alludevamo, per non parlare della comunanza d’origine più lontana, sulla quale dovremo tornare; tuttavia questo fatto, almeno, sarebbe stato il solo a poter dare una apparente verosimiglianza all’idea di un «prestito» preso da una dottrina preislamica e non araba, eppure sembra esser loro sfuggito completamente!

[5] C’è appena bisogno di dire che certi racconti, in cui si vedono Mosè e Orfeo ricevere insieme l’iniziazione nei templi egizi, sono soltanto fantasticherie, prive di ogni serio fondamento; e cosa non si è raccontato sulla iniziazione egizia, dopo il Sethos dell’abate Terrasson?

[6] Si tratta qui di derivazione diretta; anche se la Tradizione primordiale è iperborea, e se, conseguentemente, tutte le forme tradizionali senza eccezione si ricollegano infine a questa origine, vi sono dei casi, come quello della Tradizione ebraica, in cui tale collegamento non può essere che molto indiretto, attraverso una più o meno lunga serie di intermediari, che peraltro sarebbe molto difficile pretendere di ricostruire con esattezza.

[7] L’algebra, invece, è di origine indiana e solo molto più tardi fu introdotta in Occidente, tramite gli Arabi, che le diedero il nome che ha conservato fino ad oggi (el-jabr).

[8] Su questo punto, si veda il capitolo XXI di Le Règne de la quantité et les signes des temps, intitolato Caïn et Abel [tr. it.: Il Regno della quantità e i segni dei tempi, Edizioni Studi Tradizionali, Torino 1969 – N.d.R.]. Non bisogna dimenticare che, come facevamo notare allora, Salomone, per la costruzione del Tempio, dovette fare appello ad operai stranieri, fatto particolarmente significativo, a causa della relazione intima esistente fra la geometria e l’architettura.

[9] A tal proposito, ricordiamo che la parola gematria (che, essendo di origine greca, deve, come un certo numero di termini della stessa provenienza, essere stata introdotta in epoca relativamente recente, il che non significa che ciò che essa designa non sia esistito precedentemente), non deriva da geometria, come spesso si asserisce, ma da grammateia; quindi, si tratta ancora della scienza delle lettere.

[10] È solo col Cristianesimo che si può trovare qualcosa di analogo in scritti di espressione greca, e in tal caso si tratta manifestamente di una trasposizione di dati la cui origine è ebraica; al riguardo, intendiamo alludere principalmente all’Apocalisse; e, probabilmente, si potrebbero rilevare altre cose del medesimo ordine in quel che resta degli scritti che si ricollegano allo Gnosticismo.

[11] Anche nell’interpretazione simbolica delle parole (per esempio nel Cratilo di Platone), non interviene la considerazione delle lettere che le compongono; del resto è quanto avviene per il nirukta, nel sanscrito e, se pure esiste in taluni aspetti della Tradizione indù un simbolismo letterale anche molto sviluppato, esso poggia su principi completamente diversi da quelli di cui si tratta qui.

[12] È questa una delle ragioni per cui l’idea che qualcuno ha avuto col pretesto della «comodità», di scrivere l’arabo con i caratteri latini, è del tutto inaccettabile e persino assurda (per tacere altre considerazioni di carattere più spiccatamente contingente, come quella della impossibilità di stabilire una trascrizione davvero esatta, proprio per il motivo che non tutte le lettere arabe hanno un equivalente nell’alfabeto latino). Del resto, i veri motivi per cui certi orientalisti propugnano questa idea sono ben diversi da quelli che essi fanno valere, e vanno ricercati nell’intento «antitradizionale», in connessione con preoccupazioni d’ordine politico; ma questo è un altro discorso...

[13] Usiamo l’espressione «poggiare», perché questi simbolismi costituiscono effettivamente, in entrambi i casi, il «supporto» sensibile; il «corpo», quasi, della scienza dei numeri.


[14] Adoperiamo costantemente l’espressione «scienza dei numeri» per evitare ogni possibile confusione con l’aritmetica profana; tuttavia, sarebbe forse possibile adottare un termine come «aritmologia», ma si deve respingere, per il «barbarismo» della sua ibrida composizione, quello di «numerologia», di recente invenzione, con cui, del resto, certuni sembrano voler designare soprattutto una specie di «arte divinatoria» che non ha pressoché nessun rapporto con la vera scienza tradizionale dei numeri.

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