Forme tradizionali e cicli cosmici
«La
Tradizione Ermetica»[1]
Con il titolo La
Tradizione Ermetica nei suoi simboli, nella sua dottrina e nella sua «Ars
Regia»[2] Julius Evola ha
dato recentemente alle stampe un’opera interessante da molti punti di vista, ma
che dimostra una volta di più, se ce ne fosse bisogno, l’opportunità dei nostri
scritti ultimi, riguardo ai rapporti fra l’iniziazione sacerdotale e
l’iniziazione regale[3].
Nel libro citato, infatti, ritroviamo l’affermazione della autonomia della seconda, alla quale l’autore ricollega l’Ermetismo, e l’idea di due tipi tradizionali distinti, e persino irriducibili, l’uno contemplativo e l’altro attivo, che sarebbero, in generale, rispettivamente caratteristici dell’Oriente e dell’Occidente.
Dobbiamo perciò esprimere alcune riserve sulla interpretazione
che viene data del simbolismo ermetico, nella misura in cui essa risente di una
tal concezione, sebbene, per un altro verso, poi mostri chiaramente come la
vera alchimia sia d’ordine spirituale e non materiale, ciò che è l’esatta
verità, una verità troppo spesso misconosciuta o ignorata dai moderni che hanno
la pretesa di trattare tali questioni.Nel libro citato, infatti, ritroviamo l’affermazione della autonomia della seconda, alla quale l’autore ricollega l’Ermetismo, e l’idea di due tipi tradizionali distinti, e persino irriducibili, l’uno contemplativo e l’altro attivo, che sarebbero, in generale, rispettivamente caratteristici dell’Oriente e dell’Occidente.
Approfitteremo di questa occasione per precisare ancora
qualche nozione importante, e anzitutto il significato che conviene attribuire
alla parola stessa «ermetismo», che ci pare impiegata da taluni nostri contemporanei
spesso a sproposito. Questo termine indica che si tratta essenzialmente di una
tradizione d’origine egizia, successivamente rivestita d’una forma ellenizzata
– certamente all’epoca alessandrina – e sotto questa forma
trasmessa, nel Medioevo, contemporaneamente al mondo islamico e al mondo
cristiano e – aggiungeremmo – al secondo in gran parte per la
mediazione del primo, come testimoniano i numerosi termini arabi o arabizzati,
adottati dagli ermetisti europei, a cominciare proprio dalla parola «alchimia»
(el-Kimia)[4].
Sarebbe pertanto illegittimo estendere questa designazione
ad altre forme tradizionali, così come sarebbe illegittimo, ad esempio,
denominare «Cabala» qualcosa di diverso dall’esoterismo ebraico. Ciò non
significa, beninteso, che non esistano forme equivalenti altrove, tanto è vero
che questa scienza tradizionale che è l’alchimia presenta delle corrispondenze
puntuali con alcune dottrine indù, tibetane, cinesi, sia pure con modi
d’espressione e metodi di realizzazione naturalmente abbastanza diversi;
tuttavia, quando si pronuncia il nome di «ermetismo», si specifica con esso una
forma nettamente determinata, la cui provenienza è soltanto greco-egiziana.
Infatti, la dottrina così designata si ricollega direttamente ad Ermete, in quanto considerato dai Greci
identico al Thoth egiziano, e noi
faremo notare qui che questo fatto contrasta con la tesi di Evola, mostrando
come tale dottrina derivi essenzialmente da un insegnamento sacerdotale, poiché
Thoth, nella veste di custode e
continuatore della tradizione, non è altro che l’immagine medesima dell’antico
sacerdozio egiziano, o piuttosto, per esser più precisi, del principio da cui
questo traeva la sua autorità e in nome del quale formulava e comunicava la
conoscenza iniziatica.
A questo punto, sorge una questione: il complesso di
insegnamenti che va tuttora sotto il nome di «ermetismo» costituisce una
dottrina tradizionale completa? La risposta a tale quesito non può che essere
negativa, poiché non si tratta di una conoscenza d’ordine propriamente
metafisico, bensì soltanto cosmologico (nella duplice applicazione
«macrocosmica» e «microcosmica»). Non è dunque ammissibile che l’ermetismo, nel
significato che questo termine ha assunto a partire dall’epoca alessandrina e
che da allora è stato costantemente mantenuto, rappresenti l’intera tradizione
egiziana. Sebbene in essa il punto di vista cosmologico sembri essere stato
particolarmente importante, come testimoniano anche le vestigia che ne
sussistono – si tratti di testi o di monumenti – non si deve
dimenticare che esso non può mai essere altro che un punto di vista secondario
e contingente, un’applicazione dottrinale alla conoscenza di ciò che si può
denominare «mondo intermedio». Sarebbe interessante, ma senza dubbio piuttosto
difficile, cercar di scoprire come questa parte della tradizione egizia ha
potuto trovarsi in qualche modo isolata e conservarsi apparentemente autonoma,
per poi incorporarsi nell’esoterismo islamico e in quello cristiano del
Medioevo (ciò che non sarebbe stato possibile per una dottrina completa, al
punto da divenire realmente parte integrante dell’uno e dell’altro esoterismo,
e fornire ad entrambi tutto un complesso di simboli che, con una conveniente
trasposizione, ha potuto talvolta servir da veicolo per delle verità d’ordine
più elevato). Non è questa la sede opportuna per inoltrarsi in tali
considerazioni storiche, invero molto complesse; tuttavia, qualunque congettura
si voglia accreditare, dobbiamo dire che il carattere propriamente cosmologico
dell’ermetismo, se non giustifica la concezione di Evola, concorre a spiegarla
in una certa misura, poiché le scienze di quest’ordine sono state
effettivamente, in tutte le civiltà tradizionali, soprattutto appannaggio degli
Kshatriya o dei loro equivalenti,
mentre la metafisica pura era riservata ai Brâhmana.
Perciò, per effetto della rivolta degli Kshatriya
contro l’autorità spirituale dei Brâhmana,
si è potuto assistere talvolta alla costituzione di correnti tradizionali
incomplete, ridotte a quelle sole scienze separate dal loro principio, e
persino deviate in senso «naturalistico», attraverso la negazione della
metafisica e il disconoscimento del carattere subordinato della scienza
«fisica», come pure (le due cose essendo strettamente connesse) dell’origine
sacerdotale di ogni insegnamento iniziatico, anche di quelli particolarmente
destinati ad essere applicati dagli Kshatriya,
come abbiamo spiegato in diverse occasioni[5].
Tutto questo non significa certo che l’ermetismo costituisce
di per sé tale deviazione o che implica essenzialmente qualcosa di illegittimo
(il che avrebbe reso impossibile la sua incorporazione in forme tradizionali
ortodosse); tuttavia si deve pur riconoscere che esso può prestarvisi
facilmente, per la sua stessa natura. Più in generale, è questo il pericolo di
tutte le scienze tradizionali, quando vengono ad esser coltivate in qualche
modo per se stesse, ciò che espone al rischio di perder di vista il loro
collegamento con l’ordine principale. L’alchimia, che si potrebbe definire la
«tecnica», per così dire, dell’ermetismo, è realmente un’«arte regale», se con
tale espressione s’intende una modalità dell’iniziazione specialmente
appropriata alla natura degli Kshatriya;
ma proprio questa considerazione indica il suo posto preciso, nell’insieme di
una tradizione regolarmente costituita. Si aggiunga che non bisogna confondere
i mezzi di una realizzazione iniziatica, quali che possano essere, con il suo
scopo finale, che è sempre di conoscenza pura.
Un altro punto che ci pare criticabile nella tesi di Evola riguarda
l’assimilazione che egli tende quasi costantemente a stabilire fra l’ermetismo
e la «magia»; vero è che sembra assumere quest’ultima in un significato
alquanto differente da quello ordinariamente attribuitole, ma abbiamo ragione
di temere che anche così possano soltanto prodursi confusioni piuttosto
spiacevoli. Infatti, inevitabilmente, quando si parla di «magia», si pensa ad
una scienza destinata a provocare fenomeni più o meno straordinari,
segnatamente (ma non esclusivamente) nell’ordine sensibile; qualunque possa
essere stata l’origine della parola, questo significato si è talmente
compenetrato con essa, che conviene lasciarglielo. Si tratterà allora della più
bassa fra tutte le applicazioni della conoscenza tradizionale, potremmo dire
addirittura la più disprezzata, l’esercizio della quale viene lasciato a coloro
i quali, a causa delle loro limitazioni individuali, sono incapaci di
sviluppare altre possibilità. Non vediamo perciò quale vantaggio comporti il
richiamarne l’idea, quando si tratta in realtà di cose che, sebbene ancora
contingenti, sono tuttavia notevolmente più elevate; e, se è vero che è solo
questione di terminologia, si deve convenire che pure essa ha la sua
importanza. Del resto, può darsi che vi sia qualcosa di più: la parola «magia»,
nella nostra epoca, esercita su taluni uno strano fascino e, come abbiamo già
rilevato nel precedente articolo, al quale alludevamo, all’inizio, la
preminenza accordata ad un tal punto di vista, non foss’altro che nella sfera
delle intenzioni, è ancora legata all’alterazione delle scienze tradizionali,
separate dal loro principio metafisico. È questo senza dubbio lo scoglio contro
il quale si infrangono tutti i tentativi di ricostituire tali scienze, se non
si comincia da quello che è veramente l’inizio da ogni punto di vista, vale a
dire dal principio medesimo, che è anche il fine in vista del quale tutto il
resto deve essere normalmente ordinato.
Per contro, il punto sul quale siamo completamente d’accordo
con Evola e in cui vediamo anche il merito maggiore del suo libro, è quando
insiste sulla natura puramente spirituale ed interiore della vera alchimia, che
non ha assolutamente nulla da spartire con le operazioni materiali di una
qualsiasi chimica, nel senso naturale del termine. Quasi tutti i moderni, al
riguardo, hanno commesso lo stesso strano errore, tanto coloro che hanno voluto
porsi a difesa dell’alchimia, quanto coloro che se ne son fatti detrattori.
Eppure, è facile vedere in quali termini gli antichi ermetisti parlano dei
«soffiatori» e dei «bruciatori di carbone», nei quali bisogna riconoscere i
veri precursori dei chimici attuali, per quanto poco lusinghiero ciò possa
essere per questi ultimi. Ancora nel XVIII secolo, un alchimista come Pernéty
non manca di sottolineare la differenza fra la «filosofia ermetica» e la
«chimica volgare». Così, ciò che ha dato origine alla chimica moderna non è
affatto l’alchimia, con la quale, dopo tutto, essa non ha alcun rapporto (come,
del resto, non ne ha con la «iperchimica» inventata da certi occultisti
contemporanei); essa ne costituisce soltanto una deformazione o deviazione,
originata dall’incomprensione di coloro che, incapaci di penetrare il senso
vero dei simboli, presero tutto alla lettera e, credendo che si trattasse
soltanto di operazioni materiali, si lanciarono in una sperimentazione più o
meno disordinata. Parimenti nel mondo arabo, l’alchimia materiale è sempre
stata considerata ben poco, e talora perfino assimilata ad una sorta di
stregoneria, mentre era tenuta in onore l’alchimia spirituale, la sola vera,
spesso designata col nome di Kimia
es-saâdah o «alchimia della felicità»[6].
D’altronde, ciò non significa che si debba negare la
possibilità delle trasmutazioni metalliche, che rappresentano l’alchimia agli
occhi dei profani, a patto di non confondere con esse cose di un ben diverso
ordine. Né si vede, a priori, per qual motivo tali trasmutazioni non potrebbero
essere realizzate con procedimenti dipendenti semplicemente dalla chimica
profana (in fondo, l’«iperchimica» alla quale poco sopra alludevamo non è altro
che questo).
C’è poi un altro aspetto della questione che Evola
giustamente mette in evidenza: l’essere che è pervenuto alla realizzazione di
determinati stati interiori può, in virtù del rapporto di analogia esistente
fra «microcosmo» e «macrocosmo», produrre esteriormente degli effetti
corrispondenti al grado di realizzazione spirituale raggiunto. È dunque
ammissibile che colui il quale abbia conseguito un certo grado nella pratica
dell’alchimia spirituale sia capace, per ciò stesso, di compiere delle
trasmutazioni metalliche, sia pure a titolo di conseguenza del tutto
accidentale, e senza ricorrere ad alcun procedimento della pseudo-alchimia
materiale, bensì per una sorta di proiezione all’esterno delle energie che egli
porta in sé. Vi è qui una differenza paragonabile a quella che distingue la
«teurgia» o l’azione delle «influenze spirituali», dalla magia e anche dalla
stregoneria: se gli effetti apparenti sono talvolta i medesimi, per le une e
per le altre, le cause che li provocano sono totalmente differenti.
Aggiungeremo d’altronde che coloro i quali realmente sono in possesso di
siffatti poteri, generalmente non ne fanno uso, meno che in determinate
particolarissime circostanze in cui l’esercizio di tali poteri si trovi ad
essere legittimato da altre considerazioni. Comunque, ciò che non bisogna mai
perdere di vista e che sta alla base di ogni insegnamento autenticamente
iniziatico, è che ogni realizzazione degna di questo nome è d’ordine
essenzialmente interiore, pur essendo suscettibile di ripercussioni
all’esterno. Solo dentro di sé l’uomo può trovarne i principi e gli strumenti e
può farlo perché dentro di sé porta la corrispondenza con tutto ciò che esiste:
el-insânu ramzul-wujûd, «l’uomo è un
simbolo dell’Esistenza universale»; e, se giunge a penetrare fino al centro del
suo essere, raggiunge perciò stesso la conoscenza totale, con tutto quello che
essa implica: man yaraf nafsahu yaraf
Rabbahu, «colui il quale conosce il proprio Sé conosce il suo Signore», e
conosce allora tutte le cose nella suprema unità del Principio, fuori del quale
non vi è nulla che possa avere il minimo grado di realtà.
[1] Articolo pubblicato su Le Voile d’Isis, aprile 1931. [N.d.C.]
[2] [La prima edizione di quest’opera, cui si riferisce
l’articolo di Guénon, apparve presso Laterza, Bari 1931. La terza ed ultima
edizione, trenta anni dopo, presso le Edizioni Mediterranee, Roma 1971 –
NA.R.]
[3] In Aperçus sur
l’Initiation, cap. XI (1946).
[4] Questo termine è arabo nella forma, ma non nella
radice; esso deriva verosimilmente dal nome di Kémi o «Terra nera» dato all’antico Egitto.
[5] Si veda, in special modo, Autorité spirituelle et pouvoir temporel (1929) [tr. it.: Autorità spirituale e potere temporale,
Rusconi, Milano 1972 – N.d.R.].
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