Al-Inshirâh - La Sûra dell’Apertura
In una delle sue opere più importanti, il compianto
Shaykh Mawlânâ Abû ‘I-Hasan Zayd Fârûqî ha scritto: «Il petto è il luogo
della conoscenza e della comprensione dei misteri e il luogo della chiarificazione
e della luce della fede»[1].
Questa affermazione, che risulta estranea alla mentalità occidentale e moderna che da molto tempo colloca il centro dell’intellettualità umana nel cervello, è invece perfettamente adeguata al punto di vista tradizionale islamico ed appare assai di frequente nelle opere dei principali maestri del tasawwuf. L’Imâm Abû Hâmid al-Ghazâlî, per esempio, in una sua opera autobiografica, narrando della propria personale ricerca della verità, racconta di aver ottenuto la Conoscenza solo quando Dio proiettò su di lui una luce che gli dilatò il petto[2].
Questa affermazione, che risulta estranea alla mentalità occidentale e moderna che da molto tempo colloca il centro dell’intellettualità umana nel cervello, è invece perfettamente adeguata al punto di vista tradizionale islamico ed appare assai di frequente nelle opere dei principali maestri del tasawwuf. L’Imâm Abû Hâmid al-Ghazâlî, per esempio, in una sua opera autobiografica, narrando della propria personale ricerca della verità, racconta di aver ottenuto la Conoscenza solo quando Dio proiettò su di lui una luce che gli dilatò il petto[2].
Ma è soprattutto in alcuni versetti del Corano che il
petto dell’uomo, e in special modo quello dei profeti, diviene il luogo
particolare dell’illuminazione e della manifestazione della Scienza Divina. Nella sûra Tâ-Hâ, Dio parla a Mosè sul monte Sinai
ordinandogli di recarsi dal Faraone, ed egli risponde invocandoLo: «Mosè disse:
"Signore aprimi il petto! Rendimi facile la missione! Sciogli il nodo della mia lingua, affinché essi comprendano il mio
dire!"» (Cor. 20:25-28). Altrove, nella
sûra al-An‘âm, è detto: «A colui che Dio vuole
guidare al bene, gli apre il petto alla sottomissione a Lui (li’l-Islâm)» (Cor.
6: 125).
Durante la vita del Profeta Muhammad fu l’episodio dell’ «apertura del petto» che rivelò inequivocabilmente la
sua natura profetica; ciò avvenne durante il periodo in cui egli, diventato
orfano, fu affidato temporaneamente alle cure di Halîma e Hârith, una coppia di
nomadi. Un giorno, nel deserto, gli arcangeli Gabriele e Michele discesero sul
bambino, lo coricarono su un fianco, gli apersero il petto e ne estrassero il
cuore, lo aprirono e tolsero un grumo di sangue nero. Lavarono poi il cuore con
la neve e gli richiusero il petto[3]. L’episodio si ripeté poi la notte del Viaggio Notturno:
mentre il Profeta dormiva nel recinto della Ka‘ba, fu svegliato dall’arcangelo
Gabriele, che nuovamente gli aprì il petto e gli asperse il cuore con acqua di zamzam,
per poi condurlo nell’ ascensione celeste.
L’apertura del petto del Profeta Muhammad viene menzionata nella sûra 94 del Corano, in cui
quel prodigio viene rammentato come un grande privilegio che Dio ha concesso al
suo Profeta, innalzandolo ai gradi più alti, perdonandogli i peccati presenti e
futuri.
Nel nome di Dio Clemente e Misericordioso
1) Non t’abbiamo aperto
il petto?
2) E non abbiamo deposto il peso
3) Che faceva gemere il tuo dorso?
4) E non abbiamo esaltato la tua menzione?
5) Invero con l’avversità viene il sollievo,
6) Con l’avversità viene il sollievo.
7) E allorché sarai
libero, sforzati ancora,
8) E aspira al tuo Signore.
Il nome che viene più comunemente dato a questa sûra
è al-Inshirâh, che in arabo significa «apertura» o «espansione»; viene spesso chiamata sûra al-Sharh e frequentemente
anche sûra «a lam nashrah», dalle prime tre parole del primo versetto.
La rivelazione della sûra al-Inshirâh avvenne
dopo quella della sûra al-Duhâ, durante il
periodo meccano. Alcuni commentatori hanno affermato che queste due formavano
in origine una sûra unica; il califfo omayyade ‘Umar ibn ‘Abd al ‘Azîz diceva di recitarle insieme durante una sola rak’a,
senza interruzione e senza pronunciare la basmala tra le due,
e ciò forse a causa dell’assonanza dei versi; dice infatti Iddio l’Altissimo
rivolgendosi a Muhammad nella sûra al-Duhâ: «Non t’ha trovato orfano e
t’ha dato riparo? Non t’ha trovato errante e t’ha dato
la retta via? Non t’ha trovato povero e t’ha dato
dovizia di beni?» (Cor. 93:6-8)[4].
La maggior parte dei commentatori è però unanime nel
distinguere le due sûre in base alla diversità dei momenti della
rivelazione. La sûra al-Inshirâh fu rivelata in un momento di
particolare sconforto del Profeta, quand’era avvilito dalle molestie dei
meccani che lo maltrattavano e lo umiliavano a causa dello stato di povertà suo
e dei suoi compagni, all’indomani della morte di due persone tra le più care
della sua famiglia, lo zio Abû Tâlib e la moglie Khadîja. Tutto questo era
motivo per lui di grande sofferenza, e fu a questo punto che fu rivelata la sûra
al-Inshirâh, a conferma del favore che Dio gli aveva già accordato con l’«apertura del petto» e come incoraggiamento nell’attesa dei
tempi migliori. La sûra al-Duhâ , invece fu
rivelata in un momento di serenità di cuore e di maggiore agiatezza del Profeta[5].
È da notare però che nella versione di un hadîth
contenuto nel commento di Khwâja ‘Abd Allâh al-Ansârî si fa menzione dell’«apertura del petto» nel colloquio che il Profeta
ebbe con Dio nella notte del Viaggio Notturno. Si narra in questo racconto che
il Profeta, giunto alla presenza dell’ Onnipotente (al-Jabbâr)
iniziò a chiedere per sé alcuni dei doni che erano stati accordati agli
altri profeti: intimità e amicizia come quelle concesse ad Abramo, un grande
regno come quello di Davide o di Salomone, l’insegnamento della Torà e del
Vangelo e la capacità di guarire i ciechi e i lebbrosi e di ridare vita ai
morti così come era stata data a Gesù. L’Onnipotente rispose a Muhammad dicendo
che gli aveva già donato tutto quello che aveva donato agli altri profeti; Egli
lo aveva scelto come amato (habîb), così come aveva scelto Abramo come
intimo amico (khalîl); gli aveva parlato come aveva parlato a Mosè e lo
aveva inviato a tutte le genti come apostolo, dicendogli infine, a conferma
della Sua predilezione per lui: «Ti ho aperto il petto, ho deposto da te il
peso che faceva gemere il tuo dorso e ho elevato la tua menzione»[6].
Quando l’Inviato di Dio fu interrogato sul senso di
questo versetto e su «l’apertura del petto» disse: «E’
una luce che Dio proietta nel cuore», «E quale ne è il segno?» gli fu chiesto;
egli rispose: «L’allontanamento dalla dimora dell’inganno e il ritorno alla
dimora dell’Eternità e l’essere pronti alla morte prima che essa arrivi»[7].
La radice verbale araba da cui deriva la parola «apertura» (sharh) è sha-ra-ha, che significa
appunto tagliare, fendere; uno dei suoi derivati, inshirâh, nome verbale
della settima forma, può significare anche sollievo, distensione, dilatazione.
La parola sharh ha tra le sue varie
accezioni anche quella di spiegazione di un libro o commento di un testo;
questo perché il commentare è in realtà «semplificare il senso dI un libro
sciogliendone il contenuto, mostrando quello che vi è di recondito e nascosto
all’interno». In senso letterale, riferito al petto dell’uomo, l’«apertura» e
la «dilatazione» sono sinonimi di sollievo e di serenità; contrariamente alla
«ristrettezza del petto» (dayyiq al-sadr), che è invece sinonimo di
angustia ed affanno[8].
Se ne parla altrove nel Corano al versetto: «E Noi sappiamo perfettamente che
il tuo petto si stringe per ciò che essi dicono» (Cor.,
15:97).
È detto nei commentari dei maestri del tasawwuf che
Dio aprì il petto al Profeta Muhammad affinché potesse compiere ciò che era
stato deciso per lui e la sua missione fosse più agevole. Egli aprì, distese il
suo petto e lo rese ampio, per mezzo della Sua luce,
perché potesse contenere il mondo manifesto e l’immanifesto (‘alam al ghayb
wa ‘l-shahâda). Affinché le circostanze e i vincoli corporei non lo
distogliessero dalle ispirazioni delle luci dei regni spirituali, lo liberò dalla percezione di ogni cosa percepibile a da
ogni attaccamento per le faccende del creato, estinguendo in lui ogni attributo
e qualità umana, adornandolo con la luce della Profezia[9].
Così scrive lo Shaykh Rûzbehân Baqlî Shirâzî nel suo
commentario:
1) Non t’abbiamo aperto il
petto?
«Il Vero stesso si incaricò
di aprirgli il petto, da sé e non tramite altri che Lui; e questo avvenne
appena Egli manifestò la Sua Essenza eterna (qadîma) ed i suoi attributi
pre-eterni (azaliyya) nell’intimo (sirr) del Profeta, facendolo
divenire ampio e disteso, dell’ampiezza dell’Essenza e delle Qualità.
Quell’apertura lo elevò fino all’Eternità, dato che la
maestà del Vero non ha fine, così il suo petto diventò il ricettacolo di una
epifania (tajallî) del Vero. Egli permase insieme al Vero nella distesa
della Grandezza (kibriyâ’), dove non c’è dove, né tempo, né luogo, ma luce dell’Essenza nella luce degli Attributi e
luce degli Attributi nella luce dell’Essenza. Si trovò così tra due luci, con
le luci della Realtà (haqîqa) che lo velavano dalle illusioni delle
creature (khalîqa)»[10].
Per quanto riguarda i versetti seguenti:
2) E non abbiamo deposto il peso
3) Che faceva gemere il tuo dorso
?
C’è innanzitutto da notare che nei commentari gli
autori si soffermano sul verbo del secondo versetto, anqada, quarta forma
della radice na-qa-da; tutti quanti riferiscono un significato
particolare di questa forma derivata, che descrive precisamente il suono che emettono le giunture, segnatamente la schiena e le costole
di un cammello o di una bestia da soma, quando scricchiolano sotto un carico
troppo pesante[11]. Quanto
al peso (wizr), anche in questo caso gli autori sono concordi nel
formulare diverse ipotesi; esso è innanzitutto «il peso dei giorni della jâhiliyya»[12], ovvero le colpe e i peccati che erano appartenuti
al Profeta nel periodo precedente alla Rivelazione. Ciò è attestato anche in un
altro passo coranico: «T’abbiamo concesso davvero una
chiara vittoria, affinché Dio ti perdoni, dei tuoi peccati, ciò che precede e
ciò che segue e porti a compimento i favori Suoi su di te e ti guidi per una
retta Via» (Cor. 48:1-2).
Accanto a questa vi è un’interpretazione secondo la
quale il peso che il Profeta doveva sostenere, prima dell’«apertura del petto», era quello delle colpe della sua
stessa gente. Bisogna allora intendere che il perdono che viene
accordato a lui in questo modo viene accordato universalmente a tutta la sua
comunità, sia a coloro che erano vissuti prima della manifestazione della
Realtà Muhammadiana che a coloro che sono venuti dopo[13].
In un’altra interpretazione il peso è invece la
«pesantezza» della missione profetica, l’assolvimento
dei suoi compiti e l’esecuzione dei suoi decreti, che opprimevano il Profeta a
causa della sua impreparazione. «Noi getteremo su di
te parole pesanti» (Cor. 73:5).
Viene altresì considerato l’aspetto propriamente «gravoso» del discendere dei versetti all’inizio della
Rivelazione. Proprio a causa del turbamento e della paura che gli ispirò il
primo incontro con Gabriele, Muhammad fu sul punto, si dice, di buttarsi giù
dal monte Hirâ’ perché quel «carico» gli era insopportabile[14].
Nel commento di alcuni maestri del Sufismo il
linguaggio e la spiegazione cambiano radicalmente: la deposizione del peso
dalle spalle di Muhammad viene interpretata in un caso
come l’abbandono delle inclinazioni caratteristiche della natura, come la
cessazione di ogni appagamento per qualsiasi cosa che non fosse l’appagamento
in Lui e l’acquisizione per volontà divina degli stati e delle qualità della
Profezia. Nel suo commento al Corano SahI al-Tustarî spiega con una parafrasi
il senso dei due versetti: «Abbiamo cancellato da te qualsiasi aspirazione che
non fosse per Noi, qualsiasi pensiero per qualcos’altro da Noi e ogni movimento
e quiete che non fosse per Nostro ordine»[15].
Secondo quanto è detto nelle Ta’wîlât
di ‘Abd al-Razzâq al-Qâshânî, il peso sul dorso del Profeta derivava
principalmente dall’essere ritornato dalla stazione della Santità alla stazione
della Profezia e quindi al compito gravoso della sua missione. Dopo l’apertura
del petto, il riavvolgersi del suo cuore nel velo dell’esistenza gli procurava
un peso che quasi gli rompeva il dorso, perché questo lo velava dalla visione
dell’Essenza; fu sollevato da questa pena quando Iddio volle agevolare la sua
missione qualificandolo dei propri Attributi nella stazione della Permanenza (baqâ’)[16], «dandogli la forza della Verità e facendogli sopportare il
fardello del Vero grazie al Vero stesso»[17].
Per quanto riguarda il versetto successivo:
4) E non abbiamo esaltato la tua menzione?
Alcuni autori riportano un episodio
della vita del Profeta, in cui si narra della volta in cui ricevette la visita
dell’Arcangelo Gabriele che gli chiese: «Il tuo e il mio Signore ti domanda:
Sai come ho esaltato la tua menzione?» Muhammad rispose: «Dio ne sa di più!». Allora Gabriele, riferendogli le parole del Signore,
disse: «Quando Io verrò menzionato tu sarai menzionato
con Me»[18].
In tutti i commentari tradizionali il senso di questo
racconto viene messo in relazione con l’attestazione di fede nell’Islam, in
cui il nome di Muhammad è sempre menzionato dopo quello di Dio: Non c’è
altro Dio fuorché Dio e Muhammad è l’inviato di Dio. Questa doppia
attestazione viene continuamente ripetuta dai
musulmani in tutti i momenti rituali: nella chiamata alla preghiera, l’adhân, all’inizio del
sermone della preghiera del Venerdì, la khutba, durante le cinque
preghiere del culto quotidiano, nelle cerimonie di matrimonio, nei servizi
funebri, nel dhikr dei sufi.
Accanto a questa vi è anche un’altra interpretazione:
secondo alcuni il senso del versetto esprime la preminenza del Profeta
dell’Islam nei confronti degli altri profeti della
Tradizione, per la perfezione delle qualità che gli sono state attribuite. A
tal proposito vengono riportate le parole del maestro
sufi Dhû ‘l-Nûn al-Misrî che disse: «Le aspirazioni (himam) dei profeti
si dirigono attorno al Trono, l’aspirazione spirituale di Muhammad è superiore
al Trono, e per questo Dio ha detto: “Abbiamo elevato la tua menzione”»[19].
Per quanto riguarda la spiegazione dei versetti quinto
e sesto:
5) Invero con l’avversità vi è sollievo,
6) Con l’avversità vi è sollievo
Viene spesso citato a commento un hadîth, una
sentenza del Profeta, tramandata da suo nipote Hasan e riportata anche nel
commento di Tabarî. Egli, uscendo un giorno sorridente e sereno volle rivelare
ai suoi compagni la buona novella che gli era stata annunciata con i due
versetti e disse: «Non prevarrà una avversità su due
gioie, non prevarrà una avversità su due gioie; invero con l’avversità vi è
sollievo, con l’avversità vi è sollievo»[20].
Affinché sia più chiaro
questo detto del Profeta bisogna innanzitutto notare che la maggior parte dei
commentatori fa riferimento a una regola della lingua araba in base alla quale
quando una frase viene ripetuta più volte, un sostantivo indeterminato si
moltiplica per quante sono le volte che la frase viene ripetuta, mentre il suo
numero rimane invariato quando esso è determinato. Cosicché, in un’espressione
del tipo: «il cavaliere con una spada, il cavaliere con una spada», in fin dei
conti il cavaliere è uno solo e le spade sono due[21]. Nei due versetti in questione il sostantivo avversità viene ripetuto due volte, ma essendo determinato nel testo,
è di una sola avversità che si sta parlando. Mentre il sollievo, essendo
indeterminato, nella ripetizione della frase si somma e quindi con esso si indicano due aspetti differenti della stessa parola.
Questa è infatti la buona novella che viene annunciata
a Muhammad e ai suoi compagni in un particolare momento di difficoltà; per uno sforzo
compiuto sulla terra vi sono due ricompense: la prima quando se ne coglie
il frutto in questo mondo, la seconda è la ricompensa dell’Altra Vita.
L’esempio più comune che i commentatori fanno a questo proposito è quello del
digiuno, per chi compie il quale due sono i momenti del sollievo:
immediatamente alla rottura del digiuno e nell’Altra Vita, quando si
raccoglieranno i meriti che il digiuno avrà procurato.
Nel tafsîr dello Shaykh Sahl al-Tustarî sono
riportate queste parole del Profeta ed egli le commenta alla maniera dei sufi: «Con questo versetto Dio Altissimo ha voluto rendere più
importante il grado della speranza (rajâ’),
in virtù della Sua generosità e della Sua nascosta benevolenza, ed
ha menzionato il sollievo per due volte. Ha detto il Profeta - su di lui la
benedizione e la pace - che un’avversità non potrà prevalere su due “sollievi”;
ciò significa che il discernimento del cuore (fitna al-qalb) e l’intelletto, sono due “sollievi” che
vincono l’anima naturale (nafs
al-tab‘) e fanno quindi tornare l’uomo alla purezza d’intenti (ikhlâs). Ha detto Dio:
“Abbiamo conferito sovranità sulla tua anima naturale grossolana alle sostanze
sottili (latâ’if) dell’anima
spiritualizzata (nafs al-rûh), all’intelletto,
al cuore e alla comprensione (fahm),
che furono preordinate con la divina largizione mille anni prima
dell’inizio della creazione; per questo è vinta l’anima naturale”»[22].
Si riporta
un altro detto del Profeta Muhammad sempre a proposito del significato di
questi due versetti; racconta infatti Anas ibn Mâlik
che egli, stando un giorno di fronte ad una tana, disse: «Se venisse
l’avversità ed entrasse in questa tana arriverebbe il sollievo ed entrerebbe a
stanarla»[23].
È interessante notare il punto di vista dello Shaykh
Muhyî ‘l-dîn ibn ‘Arabî e ciò che egli ha scritto a
commento dei versetti e alla particolare relazione che intercorre tra l’avversità
e il sollievo nel contesto di questa sûra : «Questo stare
insieme (ma‘iyya) è una mescolanza (imtizâj), non un’associazione
di due cose contemporanee, né di due cose l’una successiva all’altra, ed è per
questo che la frase è ripetuta. Se infatti
nell’avversità non vi fosse il sollievo, non vi sarebbe avversità per la
generalità degli esseri perituri; e parimenti se nel sollievo non vi fosse
l’avversità non ci sarebbe sollievo, poiché “le cose si palesano per il loro
contrario”. Quindi l’avversità viene tutta ricondotta
al sollievo, ché infatti “la Mia misericordia ha il sopravvento sul Mio rigore”[24].
E questo è un dono della sollecitudine divina»[25].
Nei due versetti finali è contenuta un’esortazione che
segue e conclude le rivelazioni rassicuranti dei
versetti che precedono:
7) Allorché sarai
libero impegnati ancora
8) E al tuo Signore aspira
I commentatori suggeriscono in linea generale due
diverse interpretazioni. Vi sono alcuni secondo i quali la condizione dell’«essere libero» (faragha) può voler indicare lo stato
di chi ha portato a compimento tutte le incombenze quotidiane, i compiti della
missione profetica o più in generale i doveri verso i propri simili, ed è
quindi pronto a dedicarsi senza preoccupazioni di sorta alla preghiera e al
raccoglimento. Vi sono poi coloro secondo i quali il versetto indica invece
l’aver terminato i doveri religiosi, le preghiere obbligatorie, ed essere
liberi di impegnarsi poi nelle pratiche supererogatorie e nella devozione
notturna[26].
Al primo caso potrebbe riferirsi questo breve commento
dello Shaykh al-Akbar Muhyî ‘l-dîn ibn ‘Arabî, che
riprende alcuni accenni (ishârât) del suo maestro Abû Madyan, proprio a
proposito dei due versetti finali di questa sûra: «O tu che preghi! Se
vuoi che le tue parole siano accolte e se vuoi ricevere in buona disposizione
d’animo la Pace, non entrare nel luogo di preghiera finché non conosci Colui che ti governa; liberati dalla tua famiglia e dal tuo
commercio, dalla tua forza e dal tuo potere. Allorché
sarai libero (faraghta) dai condizionamenti degli esseri di questo mondo
(al-akwân), impegnati (fansab) nella contemplazione del
Misericordioso e al tuo Signore aspira (farghab) incessantemente, se
vorrai ottenere la dolcezza della Pace»[27].
Al secondo tipo di interpretazione
potrebbe invece appartenere il brano tratto dalla parte finale del commento
dello Shaykh Sahl al-Tustarî: «Allorché sarai libero dalle tue preghiere
prescritte e stai seduto, sforzati verso il tuo Signore e ritorna a Lui
così come eri precedentemente all’emergere dell’anima naturale, prima
dell’inizio della creazione: singolo col singolo (fardan bi-fardin), segreto
col segreto (sirran bi-sirrin). Così Dio concesse a Muhammad
l’equivalenza del suo rango primordiale in questo mondo; come ha detto il
Profeta: “Io posseggo un momento (waqt) con Dio
nel quale nessun altro che Lui mi può contenere”. Questo è il significato
interiore del versetto, mentre il senso letterale è quello inteso dalla gente
della spiegazione esteriore»[28].
[1] Abû ‘l-Hasan Zayd Fâruqi, Manâhij
al-sayr wa madârij al-khayr, Qandahâr,
1957, p.13.
[2] Al-Ghazâli, Al-Munqidh min al-Dalâl, in Scritti scelti di alGhazâlî, a cura di L. Veccia Vaglieri e R. Rubinacci, Torino 1970, p. 85.
[3] M. Lings, Il Profeta Muhammad. La sua vita secondo le fonti più antiche, Trieste 1988, cap. VIII. Muhammad ibn Ahmad al-Qurtubî, Al-Jâmi‘ li-ahkâm al-Qur’ân, Cairo 1967, XX, pp. 104-110.
[4] Fakhr al-dîn al-Razî, Al-Tafsîr al-Kabîr, Cairo 1938, XXXII, pp. 2-7.
[5] Ibidem.
[2] Al-Ghazâli, Al-Munqidh min al-Dalâl, in Scritti scelti di alGhazâlî, a cura di L. Veccia Vaglieri e R. Rubinacci, Torino 1970, p. 85.
[3] M. Lings, Il Profeta Muhammad. La sua vita secondo le fonti più antiche, Trieste 1988, cap. VIII. Muhammad ibn Ahmad al-Qurtubî, Al-Jâmi‘ li-ahkâm al-Qur’ân, Cairo 1967, XX, pp. 104-110.
[4] Fakhr al-dîn al-Razî, Al-Tafsîr al-Kabîr, Cairo 1938, XXXII, pp. 2-7.
[5] Ibidem.
[7] Al-Razî, op. cit.; Al-Ghazâli, op. cit.; AI-Qurtubî, op. cit.
[8] Shihâb al-dîn Mahmûd al-Alûsî, Rûh al-Ma‘ânî fi Tafsîr al-Qur’ân al-‘azîm, Beirut 1978, XX, pp. 211-221.
[9] Ismâ‘il Haqqî, op. cit.; ‘Abd al-Razzâq al-Qâshânî, Ta’wîlât al-Qur’ân, Beirut 1978, II, pp. 823-824.
[10] Rûzbehân Baqlî Shîrâzî, ‘Arâ’is al-Bayân, Kampur 1315 h, II, pp. 366-367. A proposito di quest’ultima frase c’è da rilevare che lo Shaykh Ahmad Sirhindî fornisce alcuni ampliamenti a questo tipo di dottrina. Egli afferma che «nella via profetica l’espansione del petto (inshirâh-i sadrî) è completa; così l’attenzione verso il Vero non impedisce l’attenzione verso il creato e l’attenzione verso quest’ultimo non impedisce quella verso il Vero» (Maktûbât, I, p.108, cit. in A. Ventura, Profezia e santità secondo Shaykh Ahmad Sirhindî, Cagliari 1990, pp. 62-63). Anche lo shaykh al-Qâshânî espone una visione dottrinale analoga: «Allorché fu restituito al creato con il dono dell’Essere Vero (al-wujûd al-haqqânî) e tornò alla separazione, il suo petto comprendeva il Vero e il Creato, proprio per il suo Essere Vero: questa è la dilatazione del petto» (op. cit., vedi infra).
[11] Al-Qurtubî, op. cit.; Al-Razî, op. cit.; Ismâîl Haqqî, op. cit.; Nasîr al-dîn ibn Muhammad al-Baydawî, Anwâr al-Tanzîl wa Asrâr al-Ta’wîl, Beirut, 1988, II, pp. 605-606.
[12] Al- Tabari, Jâmi‘ al-Bayân fî Tafsîr al-Qur’ân, Cairo 1329 h., XXX, pp. 150-152; Abu ‘l-Qâsim al-Qushayrî, Latâ’if al-Ishârât, Cairo 1983, III, pp. 743-744; AI-Qurtubî, op.cit.; Al-Razî, op. cit.; Al-Baydawî, op. cit.
[13] M. Chodkiewicz, Un Océan sans rivage, Paris 1992, pp. 65-66.
[14] Al-Qurtubî op. cit.; Al Razî op. cit.
[15] Sahl al-Tustarî, Tafsîr al-Qur’ân al-‘azîm, Cairo s.d., p. 123; cfr. G. Bowering, The Mistical Vision of Existence in Classical Islam, Berlin New York 1980, pp. 158-160.
[16] Al-Qâshânî, op. cit.
[17] Rûzbehân Baqlî, op. cit.
[18] Al-Bukhârî, tafsîr, 94; Ibn Kathîr, op. cit.; AI-Ansârî op. cit.; Al-Tabarî, op. cit.
[19] Rûzbehân Baqlî, op. cit.; Ismâ‘il Haqqî, op. cit.
[20] Al-Bukhârî, op. cit.; la versione completa è riportata soprattutto in Tabarî, op. cit. e nel tafsîr di Ibn Kathîr, op. cit., ma ne fa menzione la maggioranza degli autori.
[21] Al-Qurtubî, op. cit.; AI-Ansârî, op. cit.; Ibn Kathîr, op. cit.; Al-Razî è in dubbio se definirla una precisa regola della lingua araba (op. cit.).
[22] Sahl al-Tustarî, op. cit.
[23] Al-Bukhârî, op. cit.; Ibn Kathîr, op. cit.
[24] Questa frase appartiene ad un celebre hadîth qudsî; cfr. al-Nawawî, Riyâd al-Sâlihîn, Beirut 1986, p.195 [trad. italiana di A. ScarabeI, Il Giardino dei Devoti, detti e fatti del Profeta, Trieste 1990, p.147].
[25] M. Al-Ghurâb, Al-Tafsîr wa Ishârât al-Qur’ân min Kalâm al-Shaykh al-Akbar, Damasco 1410 h., IV, pp. 513-515.
[26] Alcuni dei commentatori riportano entrambe le interpretazioni: cfr. Ibn Kathîr, op. cit.; AI-Baydawî, op. cit.; Al-Qurtubî, op. cit.; Al-Ansârî, op. cit.; AI-Razî, op.cit.; Al-Qushayrî, op. cit.; Al-Tabarî, op. cit.; Ismâ‘îl Haqqî, op. cit.
[27] M. al-Ghurâb, op. cit.
[28] Sahl al-Tustarî, op. cit.
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