"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

venerdì 22 maggio 2015

Paolo Urizzi, Ibn ‘Arabī e la questione del pluralismo religioso

Paolo Urizzi
Ibn ‘Arabī e la questione del pluralismo religioso

La Verità ultima, per definizione, non può essere che una, ma ciò non significa che i punti di vista dai quali viene contemplata debbano necessariamente coincidere; per questo le sue espressioni possono differenziarsi in conformità al ricettacolo della contemplazione, nonché per la diverse condizioni di tempo e di luogo.
Ogni forma tradizionale che rivendica per sé un’origine eterna manifesta dunque, nell’ambito della sua specificità, una espressione di questa Verità unica e universale, ed è una forma di quella Sapienza increata, che sic est, ut fuit, et sic erit semper.[1]
Tuttavia, al di là di questa verità assiomatica, quando non si va al di là delle forme e non si riesce a cogliere i significati che queste esprimono, si finisce col contrapporre la prospettiva di una dottrina a quella di un’altra dottrina semplicemente perché formulata in modo differente, come ben ci ricorda l’esempio buddhista dei ciechi che vogliono descrivere l’elefante, e da qui c’è il rischio di scivolare facilmente verso le guerre di religione. La storia, purtroppo, è colma di episodi d’intolleranza religiosa e lo studioso non avrà difficoltà a vedere che sono soprattutto le civiltà sacre di tipo religioso monoteistico a caratterizzarsi con un certo esclusivismo nei confronti delle altre culture tradizionali; la dottrina cristiana dell’extra ecclesiam nulla salus ne è un tipico esempio. La stessa attitutudine è presente con forza anche all’interno dell’Islam e non sempre in ambito meramente exoterico, dominio dei tradizionisti, dei giuristi e della gente del kalām, poiché non è raro trovare dei rappresentati della dottrina esoterica (al-‘ilm al-bāṭin) assumere gli stessi toni restrittivi.
In tutti i casi, la storia sacra è in realtà piena di queste posizioni oltranziste, poco propense a riconoscere validità soteriologica alle altre fedi e alle altre forme di culto e ciò si spiega agevolmente per la natura stessa dei cicli tradizionali che possono succedersi a motivo dell’egemonia di un gruppo etnico o di una civiltà su di un’altra, oppure per la comparsa di una nuova forma sacra qualora le condizioni cicliche lo richiedano. In ogni caso l’ultima forma a manifestarsi reclamerà per diritto divino la sua autorità e la sua superiorità nei confronti delle forme che essa viene in qualche modo a sostituire. È del resto normale che sia così, poiché la fede (śraddha, pistis, ‘emûnâh, īmān) è un elemento essenziale della vita tradizionale ed è indispensabile che chi pratica una certa forma di culto abbia l’assoluta certezza della perfezione della Via sulla quale è condotto. Ciò spiega perché un certo esclusivismo possa essere presente, a vari livelli, anche in ambito iniziatico.
Vi è, nondimeno, una ragione più profonda per giustificare alcune forme di esclusivismo: di fronte alla Verità ultima, ogni verità relativa, per quanto funzionale e necessaria questa possa risultare lungo il percorso finché l’essere sul cammino non è pervenuto alla contemplazione del Principio supremo, non può che eclissarsi, ed il suo destino è quello di scomparire o essere riassorbita nel Principio da cui in ultima analisi era emanata. Quanto detto vale soprattutto all’interno di una stessa forma tradizionale per quel che concerne la subordinazione di ogni prospettiva cosmologica di fronte ad una visione puramente metafisica,[2] ma è anche vero che un riflesso della manifestazione gerarchica della dottrina si presenta finanche nei rapporti che legano tra loro le diverse forme tradizionali. Ciascuna forma infatti, benché in quanto espressione della Verità divina comporti in sé qualcosa di unico che la rende incomparabile nel contesto del suo proprio linguaggio simbolico, va comunque a qualificare la dottrina in modo differenziato lungo il corso del ciclo.[3]

Il ciclo della profezia nella concezione islamica

La tradizione islamica si presenta alla storia attraverso la sua rivelazione, il Corano, come l’ultima espressione del sacro discesa da parte divina per l’umanità attuale: «Muhammad non è il padre di alcuno dei vostri uomini; egli è l’Inviato di Dio e il Sigillo dei profeti» (Cor. 33:40), e lo stesso Profeta sottolinea la cessazione della profezia legiferante in diversi hadith.[4] La visione escatologica islamica si pone dunque al termine di una serie di rivelazioni divine che servono da guida (hudā) all’uomo per condurlo verso uno stato paradisiaco.[5]
Il Corano è chiaro quanto all’origine unica della rivelazione (tanzīl), che ha sempre il compito di rinnovare un unico messaggio (risāla) di natura primordiale che è l’islām, ossia la “sottomissione” a Dio, che implica essenzialmente il riconoscimento dell’Unità del Principio (tawhīd), lo stato di subordinazione nei Suoi confronti (‘ubudiyya) e un culto atto a stabilire una relazione tra i due termini (‘ibāda). In questo senso tutti i Messaggeri sono inviati con l’islām, quali che siano le forme e i nomi da esso assunte nel corso del tempo. Contrariamente all’opinione di molti storici delle religioni, infatti, non vi è un graduale sviluppo del pensiero umano da un politeismo naturalistico verso una visione monoteistica del divino; in origine vi è solo poli-nomismo e poli-iconismo dell’unica Realtà divina senza nome e senza forma, che non può essere colta che attraverso le sue molteplici manifestazioni. Si passa al politeismo quando le icone cessano di essere simboli visivi della Divinità impersonale per diventare “idoli”, ossia oggetti di culto per sé e personificazioni reali della divinità.[6]
Una chiara formulazione dell’unica tradizione adattata nel corso delle differenti epoche è esposta ad esempio nel tafsīr di Ismā‘īl Haqqī quando, riportando il commento del suo maestro a Cor. 3:19, scrive: «Ciò che bisogna intendere [nel concetto] di rivelazione della Parola [divina] (inzāl al-kalām) è il richiamo assoluto alla vera Religione (al-dīn al-Haqq), e questa Religione dal tempo di Adamo fino al nostro Profeta non è altro che l’Islam conformemente alla Parola dell’Altissimo: Invero la religione presso Dio è l’Islam.[7] La sua realtà profonda è il tawhīd, mentre le [differenti] Leggi sacre, che sono le norme giuridiche [d’ispirazione divina] sono le forme da esso assunte. Questa Religione, dal tempo primordiale fino al Giorno della Resurrezione, è una e identica presso tutte le religioni [rivelate] quanto alla sua realtà essenziale (al-haqīqa); la differenza non concerne che la forma e le norme giuridiche e si tratta d’una differenza formale che non sopprime l’identità originale e l’unità essenziale».[8]
Del resto già al-Hallāj, molto tempo prima, aveva scritto: «Ho molto pensato alle religioni, per capirle, e ho scoperto che sono i molti rami di un’unica Fonte».[9] A cui fa eco Rūmī dicendo:
«Dato che Lui, oggetto di ogni lode, è Uno,
per questa ragione tutte le religioni
sono una religione sola».[10]
Un insegnamento che ritroviamo espresso in termini identici anche in epoca recente ad opera dell’emiro ‘Abd al-Qādir che nella Lettera ai Francesi scrive: «La religione è unica, e ciò per l’accordo dei Profeti, che hanno avuto opinioni diverse solo su certe regole di dettaglio»,[11] «sui fondamenti della religione e sui suoi principi i diversi Profeti, da Adamo fino a Muhammad non si contraddicono in nulla».[12] Lo stesso dirà Tierno Bokar, il santo tijānī di Bandiagara, per il quale non vi è che un’unica Religione primordiale, «comparabile ad un tronco dal quale le religioni storicamente note si biforcano come i rami di un albero… Essa è la Religione eterna insegnata da tutti i grandi Inviati di Dio, che l’hanno adattata in base alle necessità di ogni epoca».[13]
Quanto ad Ibn ‘Arabī, la sua posizione sull’“unità trascendente delle religioni” (wahdat al-adyān) è sicuramente quella meglio conosciuta in ambito islamico[14] ed è abbastanza significativo che l’incipit stesso dei Fusus: «Lode a Dio che ha fatto scendere le Saggezze [ossia i contenuti essenziali delle Rivelazioni divine] sui cuori dei Verbi [ovvero i germi delle realtà profetiche] nell’unità della Via assiale a partire dal punto più primordiale, nonostante le dottrine e le forme tradizionali si siano poi diversificate a causa della differenza specifica delle nazioni», si presenti come un proclama di Philosophia Perennis.
La base di questi insegnamenti è coranica e trova conferma nelle parole dell’Altissimo: «Ogni comunità ha un messaggero» (Cor. 10:47); «ogni epoca [ha avuto] la sua Scrittura» (Cor. 14:38), e nella Sua Parola: «A ogni comunità abbiamo inviato un profeta [che dicesse]: ‘Adorate Dio e rifuggite il Ribelle’» (Cor. 16:36). E ancora: «non c’è Comunità a cui non sia venuto un Ammonitore» (Cor. 35:24). L’unicità e l’universalità del Messaggio divino, come pure la diversità dei linguaggi e dei sentieri che conducono l’uomo a Dio a motivo delle differenze di tempo e di luogo, dunque di etnia e di cultura, sono del resto sancite dalla Sua Parola: «Non abbiamo mandato alcun messaggero se non con la lingua del suo popolo» (Cor. 14:4); e anche: «a ogni comunità abbiamo indicato un culto da osservare» (Cor. 22:67).
Il riconoscimento di questa unità essenziale che riconduce le diverse forme religiose fondate su una rivelazione divina ad un’unica fonte originaria non è in discussione; pur se con vario tenore ed accento, e con diverso registro, esso è parte integrante del patrimonio dottrinale e culturale islamico. Fin qui, dunque, nulla di strano; né si può pretendere che le menti razionaliste e dogmatiche possano seguire Ibn ‘Arabī che si spinge ancor più oltre quando afferma che: «Dio è con ogni oggetto di credenza (mu‘taqid[15] e che «nessuno è amato tranne Dio, ma il nome della cosa creata funge da velo. Parimenti, colui che adora una cosa creata non adora in realtà altri che Dio, anche se non è consapevole… Poi quando muore e la cortina viene rimossa, scopre allora di non aver adorato altri che Dio».[16]
Passaggi a cui fa eco l’emiro ‘Abd al-Qādir quando sostiene che «il nostro Dio e il Dio di tutte le comunità diverse dalla nostra sono in verità e in realtà un unico Dio, conformemente a ciò che Egli ha detto in numerosi versetti: “Il Dio vostro! Egli è il Dio unico” (Cor. 2:163; ecc.). Egli ha detto anche che: “Non c’è in fatto di divinità se non Dio” (Cor. 3:62). Tale Egli è nonostante la diversità delle Sue teofanie – dal carattere assoluto o limitato, trascendente o immanente – e la varietà delle Sue manifestazioni. […] Egli si è manifestato a ogni adoratore di una qualsiasi cosa […] nella forma di tale cosa: giacché nessun adoratore di una cosa finita l’adora in se stessa. Ciò che questi adora è l’epifania in quella forma degli attributi del Vero Dio (al-Ilāh al-Haqq) – che Egli sia esaltato! – poiché tale epifania rappresenta, per ogni forma, l’aspetto divino che le corrisponde in proprio. Ma [al di là di questa diversità delle forme teofaniche] quanto adorano tutti gli adoratori è uno; il loro errore consiste solo nel fatto di determinarlo in modo limitato […]. Vi è dunque unanimità di religioni rispetto all’oggetto dell’adorazione (fa-ittafaqat jamī‘ al-firaq fī-l-ma‘nā al-maqūd bi-l-‘ibāda[17].

L’Islam abroga quel che precede

Le affermazioni dell’emiro vanno comprese all’interno della dottrina metafisica della teofania divina in ogni forma, ma non ci devono indurre in errore riguardo all’accettazione o meno da parte di Dio di qualunque forma di culto. L’emiro ‘Abd al-Qādir è inequivocabile quando, a proposito del versetto: «Presto gli associatori diranno: “Se Dio avesse voluto non avremmo associato alcunché, e neppure i nostri avi; né avremmo dichiarato illecito alcunché”» (Cor. 6:148), scrive: «Queste parole rappresentano un caso di enunciazione veritiera formulato con intento menzognero […] L’aspetto menzognero dell’enunciato consiste nel ritenere da parte loro che tutto quanto Dio vuole per i Suoi servi Lo soddisfi e Gli sia gradito. Questo è falso. Dio vuole per i Suoi servi ciò che la Sua Scienza Gli insegna su di loro da sempre […ossia] quanto esigono le loro realtà essenziali e quanto rivendicano le loro predisposizioni, sia esso bene o male, credenza o infedeltà […] Se tutto ciò che vuole per i Suoi servi fosse un bene, ne conseguirebbe che l’invio dei Messaggeri e la promulgazione delle Leggi sacre sarebbero inutili».[18]
Tuttavia, non è su questo punto che verte il nodo cruciale della questione. Il punto critico, essenziale tra tutti, è quello di conoscere qual è lo statuto delle precedenti forme sacre dopo la venuta del Profeta, argomento apparso anche nel web (1996) sotto la penna di Nuh Keller col titolo: «On the validity of all religions in the thought of ibn Al-‘Arabi and Emir ‘Abd al-Qadir».[19] Il dibattito è stato stimolato in ambito islamico dalla comparsa del libro del Prof. William C. Chittick, noto esperto dell’opera di Ibn ‘Arabī, intitolato: Imaginal World: Ibn al-‘Arabī and the Problem of Religious Diversity (Albany, N.Y. 1994). In esso vengono citati diversi passaggi di Ibn ‘Arabī che propongono una visione universale della religione e da tutti questi l’Autore trae una conclusione che è apparsa esecrabile per l’ortodossia islamica, ossia che Ibn al-‘Arabī «non trae la conclusione tratta da molti Musulmani, secondo cui l’avvento dell’Islam ha abrogato (naskh) le precedenti religioni rivelate».[20]
Così com’è stata formulata la frase appare inaccettabile, poiché va palesemente contro tutte le posizioni dell’Islam ortodosso ed è lesiva d’un tratto fondamentale dell’universalità muhammadiana, ovvero l’aspetto onnicomprensivo (ihāta) della sua funzione legiferante come indicato nel versetto: «Non t’abbiamo mandato se non con una missione rivolta indistintamente a tutti gli uomini (wa mā arsalnāka illā li-l-nāsi kāffatan), quale nunzio e ammonitore, ma la maggior parte degli uomini non sanno» (Cor. 34:28).[21] Soprattutto, la frase in questione esprime un concetto che non può essere imputato ad Ibn ‘Arabī. In questo senso ha pienamente ragione Keller quando scrive che questa formulazione è “falsa”. Ibn ‘Arabī, infatti, afferma in più parti l’abrogazione da parte della risāla muhammadiana, e dunque della sua sharī‘a, di tutte le precedenti Leggi rivelate: nasakha ’Llāhu bi-shar‘ihi jamī‘ al-sharā‘i.[22]
Il passaggio chiave dell’opera di Ibn ‘Arabī che è stato l’oggetto del dibattito è tratto dal capitolo 339 delle Futūhāt,[23] che Chittick traduce: «Tutte le religioni rivelate (sharā’i‘) sono luci. Tra queste religioni, la religione rivelata di Muhammad è come la luce del sole tra le luci delle stelle. Quando il sole appare, le luci delle stelle sono nascoste, e le loro luci sono incluse nella luce del sole. Il loro essere nascoste è simile all’abrogazione delle altre religioni rivelate che avviene per mezzo della religione rivelata di Muhammad. Tuttavia, di fatto esse esistono, allo stesso modo in cui l’esistenza della luce delle [altre] stelle è tuttora reale. Ciò spiega il motivo per cui ci è stato chiesto, nella nostra religione onnicomprensiva, di aver fede in tutti i messaggeri e in tutte le religioni rivelate. Esse non sono rese nulle (bātil) mediante l’abrogazione: questa è l’opinione dell’ignorante».[24]
Secondo Keller, l’interpretazione di questo brano è viziata dal fatto d’essere presentata in modo parziale ed egli lo completa come segue: «Tutti i sentieri, dunque, – continua Ibn ‘Arabī – tornano a rivolgersi verso il sentiero del Profeta: se i profeti inviati fossero stati vivi alla sua epoca, essi lo avrebbero seguito allo stesso modo che le loro leggi rivelate hanno seguito la sua legge. Poiché egli ha ricevuto le Parole Sintetiche (jawāmi‘ al-kalim), e [il versetto coranico]: “Allah ti ha donato una vittoria insuperabile” (Cor. 48:3); “l’insuperabile” (al-‘azīz) essendo ciò che si cerca d’ottenere, ma che non può essere raggiunto. Quando i profeti inviati cercarono di raggiungere il Profeta, risultò per loro impossibile farlo, poiché egli è stato inviato al mondo intero (bi‘thatihi al-‘āmma) e Allah gli ha donato le Parole Sintetiche (jawāmi‘ al-kalim) e il rango supremo nell’essere il detentore della Stazione Lodata (al-maqām al-mahmūd) nel mondo futuro, poiché Allah ha reso la sua Nazione (umma) “la miglior Nazione mai sorta tra gli uomini” (Cor. 3:110), la nazione di ogni inviato essendo commisurata alla stazione del suo profeta, comprendi questo!».
Per Keller, il passaggio in questione, «se letto con attenzione, afferma semplicemente che gli inviati di Allah dicevano la verità e che tutto quel che è stato da essi apportato era vero, cosa in cui crede ogni Musulmano. Ma esso ci indica inoltre che tutto quel che le loro leggi contenevano, non solo è stato abrogato, ma è perciò stesso contenuto implicitamente nella nuova rivelazione».
Francamente si ha l’impressione che non si voglia vedere il senso ovvio del testo dello Shaykh al-Akbar. Chittick ha sbagliato affermando che le religioni o, se si preferisce, le “leggi rivelate” non erano abrogate, ma il punto sottile della questione verte non tanto sul concetto di abrogazione al quale Keller ha rivolto tutta la sua attenzione, quanto su quello dell’attuale validità o meno, per Ibn ‘Arabī, delle forme precedenti la rivelazione muhammadiana.[25]
Poche parole del brano in oggetto sono sufficienti a chiarire il problema, e non si giustifica il fatto di averle poi neglette da parte di Keller. Scrive lo Shaykh: «fa-lam tarja‘ bi-l-naskh bātilan, dhālika zann alladhīna jahalū»,[26] che tradurrei con: «…e non prendere [il termine] “abrogazione” nel senso di “non valido”, questo è quel che pensano gli ignoranti». Bātil, infatti, non significa in questo caso semplicemente “falso”, quanto “privo di ogni validità”, poiché è di leggi sacre e di pratiche rituali che ruotano attorno ad una rivelazione divina che si sta parlando.

La giurisdizione muhammadiana

Se è vero che le forme religiose e le leggi sacre apportate dai profeti precedenti la venuta di Muhammad sono state abrogate, per Ibn ‘Arabī, contrariamente all’opinione dei rappresentanti della religione exoterica, ciò non sta dunque a significare che il culto di coloro che le praticano abbia perso, almeno in una certa misura, ogni capacità salvifica o di santificazione. Lo Shaykh lo attesta chiaramente all’inizio del capitolo 36 delle Futūhāt, dove scrive: «Dal momento che la Legge sacra di Muhammad comprende in sé tutte le precedenti Leggi rivelate (tadammana jāmi‘ al-sharā’i‘ al-mutaqaddima) e che a queste ultime non rimane più alcuna giurisdizione (hukm) in questo mondo tranne che per quel che è stato confermato dalla Legge muhammadiana, esse continuano a sussistere in virtù della sua conferma. Sicché noi possiamo praticarne il culto [in modo valido] in virtù della conferma che ne ha dato Muhammad, non in virtù della conferma data da parte dello specifico profeta che le ha promulgate nel suo tempo. È per questo motivo che all’Inviato di Dio è stata donata le “Sintesi delle Parole”».[27]
Che le Leggi istituite da una precedente rivelazione divina siano state confermate dalla rivelazione muhammadiana è dottrina coranica, dove se ne parla in ben sedici passaggi. Ora, per lo Shaykh al-Akbar, il perno di questa dottrina ruota attorno alla natura primordiale dello spirito del Profeta, e di conseguenza della sua profezia, conformemente al hadith, spesso citato nelle fonti del sufismo, in cui il Profeta afferma: «Ero profeta quando Adamo era ancora tra l’acqua e l’argilla», o secondo una versione, accettata dai tradizionisti, «tra lo spirito e il corpo»,[28] ossia prima della sua esistenza concreta; o anche dal hadith in cui è detto: «Sono stato il primo dei profeti ad essere creato e l’ultimo ad essere suscitato».[29]
Per Ibn ‘Arabī ciò si traduce nella natura universale della funzione profetica muhammadiana poiché essa è intimamente legata all’onnicomprensività del Corano.[30] Infatti, interrogata sul carattere del Profeta, la moglie ‘Â’isha aveva risposto: «La sua natura era il Corano».[31] Universalità che lo Shaykh al-Akbar vede sintetizzata proprio nel concetto di Jawāmi‘ al-kalim, la “Sintesi delle Parole”, ossia il suo abbracciare e comprendere in modo sintetico tutte le rivelazioni divine che l’hanno preceduto. Tale espressione, infatti, tratta da un detto in cui il Profeta afferma: «Mi sono state donate le Parole Sintetiche»,[32] è impiegata da Ibn ‘Arabī ogniqualvolta si tratta di definire in modo particolare la caratteristica peculiare del Profeta e la sua funzione specifica, specialmente nei capitoli che gli sono dedicati.[33]
Tutto ciò ci viene magistralmente esposto in alcuni illuminanti passaggi delle Futūhāt, dove leggiamo: «Per quanto gli uomini, da Adamo fino all’ultimo essere umano abbiano avuto (diverse) Leggi sacre (sharā’i‘), queste Leggi non erano altro che la Legge sacra di Muhammad promulgata ad opera dei suoi sostituti»;[34] è per questo che il Profeta «è stato mandato con una missione universale e la sua Legge riunisce in sé tutte le altre Leggi».[35] Questo argomento viene ripreso in particolare nel capitoli 10 e 12 che l’affrontano in modo dettagliato: «Se Muhammad fosse stato inviato al tempo di Adamo, i Profeti e tutti gli altri uomini si sarebbero trovati, nel mondo sensibile, sotto la giurisdizione della sua Legge sacra fino al Giorno della Resurrezione. Per questo, Egli non ha mandato, [prima del Profeta, alcun inviato] in modo universale, ma solo in modo particolare […] La sua realtà spirituale (rūhāniyya) – che la Grazia e la Pace divine siano su di lui – è presente (mawjūda, fin dall’origine), sicché la realtà spirituale di tutti gli altri Profeti ed Inviati riceve l’influenza spirituale da questo puro Spirito secondo quanto ciascuno ne manifesta nelle Leggi sacre e nelle conoscenze [di ordine tradizionale] formulate al tempo della loro missione di Inviati […] Nonostante ciò, dal momento che l’esistenza individuale e concreta [del Profeta] non è apparsa per prima nel mondo sensibile, ciascuna forma tradizionale viene attribuita a colui che ha avuto la missione di promulgarla, anche se, in realtà, non si tratta d’altro che della Legge sacra di Muhammad, quantunque manchi la sua presenza concreta».[36]
L’abrogazione delle Leggi sacre precedenti ne risulta di conseguenza; il messaggio universale gli conferisce l’autorità di poter abrogare gli statuti derivati dalle Leggi divine che nessun altro tranne lui poteva abrogare.[37] «Con la [comparsa della] sua Legge Dio ha abrogato tutte le Leggi precedenti, ma tale abrogazione non fa uscire le Leggi sacre precedentemente rivelate dalla sua Legge»; dal momento che procedono tutte dal Profeta, e sono pertanto incluse nella sua Legge, ne consegue che «nessuno dei Profeti [anteriori] possiede più alcuna giurisdizione tradizionale [autonoma] a fianco di quanto [definitivamente] fissato dal Profeta con la sua Legge sacra».[38]

Rigore e misericordia

Se è vero che la maggior parte degli ‘ulamā’ non riconoscono più alcuna valenza salvifica al credo delle altre “religioni del Libro” e, di conseguenza, neppure una validità santificante alla loro pratica liturgica dopo la venuta del Profeta, è anche vero che la questione si presenta in termini più sfumati all’interno sufismo, benché il timore che venga messa in causa l’universalità della missione muhammadiana e si arrivi ad una sorta di anarchia dottrinale è troppo forte perché si giunga facilmente a palesare apertamente delle posizioni di segno contrario.
Quanto ad Ibn ‘Arabī, l’universalità stessa della missione profetica di Muhammad e della sua Realtà atemporale, quella Haqīqa muhammadiyya che è il Verus propheta[39] da cui procedono tutti gli Inviati divini e di cui Muhammad è la manifestazione piena e conclusiva, sono il vero motivo per cui la sua Legge rivelata è, in rapporto alle altre Leggi, come la luce del sole rispetto a quella delle stelle, la quale viene assorbita in quella del sole, pur continuando esse ad esistere; la sua apparizione «è stata come quella del sole, la cui luce offusca ogni altra luce. Ed egli ha confermato delle Leggi sacre apportate dai suoi sostituti quanto ha confermato ed ha abrogato quanto ha abrogato».[40]
Orbene, affermare che è confermato quel che ha confermato ed è abrogato quel che ha abrogato, equivale a dire che quel che non è “esplicitamente” abrogato, è “tacitamente” confermato, e chi lo pratica, lo fa in modo valido in base ad una conferma implicita nella missione legiferante muhammadiana. Altrimenti, non si spiegherebbe neppure lo statuto giuridico degli ahl al-dhimma, ossia di coloro, tra la Gente del Libro, che si trovano sotto il protettorato musulmano: anch’essi, afferma Ibn ‘Arabī, rientrano in questo contesto, almeno fintanto che «continueranno a pagare di propria mano il tributo, in posizione d’inferiorità» (Cor. 9: 29).[41]
La conclusione, per lo Shaykh al-Akbar, è che la Legge sacra del Profeta abroga «tutte le altre Leggi e la sua religione prevale su tutte le altre religioni e, unitamente, su ogni altro Inviato che l’abbia preceduto e su ogni altro Libro rivelato. Nessuna delle altre religioni possiede alcun potere presso Dio eccetto che nella misura di quel che di essa è stato confermato; pertanto la sua conferma la rende valida. L’universalità della funzione legiferante deriva dalla sua [di Muhammad] Legge sacra. Se rimane una qualunque funzione legislativa di quelle [forme sacre], essa proviene solo dal decreto di Dio riguardante in modo specifico le genti della jizya»,[42] il tributo imposto alla “Gente del Libro”.
Detto questo, è anche vero, però, che sicuramente non vi è più validità nelle parti che sono state abrogate, ma perché ci sia “condanna” uno dovrebbe essere consapevole della risāla muhammadiana, mentre lo stesso versetto coranico che ne sancisce l’universalità: «Non t’abbiamo mandato se non con una missione rivolta indistintamente a tutti gli uomini...», non manca di precisare subito dopo: «...ma la maggior parte degli uomini non sanno» (Cor. 34:28). Al di là delle formulazioni dogmatiche e delle concezioni dottrinali, su un punto, tuttavia, si ricongiungono nuovamente gli esponenti sia dell’Islam exoterico che di quello esoterico: entrambi sono disposti a concedere l’excusatio dell’ignoranza.
Sappiamo quanto la visione di Ibn ‘Arabī sia complessa e profonda, spesso incompresa e facilmente equivocata, ma ci auguriamo di essere riusciti a esporre con sufficiente chiarezza cosa intenda lo Shaykh quando afferma di non prendere il termine “abrogazione” come implicante la “non validità” delle leggi sacre precedentemente rivelate e come l’onnicomprensività della missione del Profeta serva in fondo da giustificazione per la pratica degli altri culti, anche laddove alcune parti di questi possano essere state abrogate dalla forma conclusiva della Legislazione divina, almeno fintanto che la jizya sarà pagata e non sarà abolita.
Un’ultima considerazione, infine, sulla Philosophia Perennis: quale posto le dev’essere riservato, sul piano dottrinale, all’interno dell’Islam? Non troviamo nulla di meglio che lasciare ancora una volta la parola ad Ibn ‘Arabi, con i due passaggi che anche W. Chittick, ha posto in chiusura del suo lavoro:[43]
«Chi esorta se stesso al bene dovrebbe investigare, durante il tempo in cui si trova in questo mondo, tutte le dottrine riguardanti Dio. Dovrebbe imparare a conoscere i punti da cui ciascun sostenitore d’una dottrina trae la validità della medesima. Poi, una volta che la sua validità s’è affermata in lui secondo le specifiche modalità che la rendono corretta per coloro che la professano, egli dovrebbe sostenerla nei confronti di coloro che non vi credono».[44]
E ancora:
«Guardati dall’essere condizionato da un credo particolare rinnegando tutto il resto, perché perderesti un bene immenso; meglio ancora, perderesti la scienza della Verità per quel che essa è in se stessa. Che la tua anima sia la sostanza delle forme di tutte le credenze, perché Dio Altissimo è troppo vasto e troppo immenso per essere racchiuso in un credo ad esclusione degli altri. Egli ha detto infatti: “Ovunque vi volgiate, ivi è il volto di Dio” (Cor. 2:115)».[45]

PDF tratto da: https://www.academia.edu
Articolo pubblicato su: Perennia Verba, vol. n° 10

[1] S. Agostino, Conf. IX.10.24.
[2] Cfr. Abhinavagupta, Luce delle Sacre Scritture (Tantrāloka), a cura di R. Gnoli, Torino 1972, cap. XXXV, pp. 762-67.
[3] È per questo motivo che R. Guénon affermava che nessuna tradizione particolare può identificarsi in quanto tale alla Tradizione primordiale (cfr. Id., Studi sull’Induismo, Milano 1996, p. 106), nozione espressa dal concetto indù di Sanātana Dharma e da quello islamico di al-Dīn al-qayyim.
[4] «Non vi sarà più alcun Profeta dopo di me (lā nabīy ba‘dī; o laysa ba‘dī nabīy)» (Bukhārī, Maghāzi 78; Ibn Hanbal, Musnad, vol. III, p. 338; vol. VI, pp. 369, 438, ecc.).
[5] Cfr. Cor. 2:38.
[6] Cfr. Ananda K. Coomaraswamy, «Vedic ‘Monotheism’», in Selected Papers: Metaphysics, Princeton 1977, pp. 166-176, e Alain Danielou The Gods of India: Hindu Polytheism, New York 1985, cap. 1. La molteplicità dei nomi è funzionale alla molteplicità delle teofanie del Principio trascendente che spesso, per gli antichi, «si rivela – come scrive Alfred Jeremias – in un luogo determinato secondo una forma e una figura definita, in conformità alla relazione di quel luogo con la corrispondente regione sacra dei cieli (topos, templum)» (Id., s.v. «Ages of the World (Babylonian)», in Encycl. of Religons and Ethics, vol. I, p. 184 a.). In questo contesto, la teofania specifica di un determinato luogo diviene il summus deus per la regione e per tutti coloro che la popolano.
[7] Come precisa Vâlsan, «l’“Islam” così enunciato designa, in verità, non la legge di una forma tradizionale particolare, ma la Legge fondamentale e imprescindibile di tutto il ciclo tradizionale», (M. Vâlsan, Sufismo ed esicasmo, Roma 2000, p. 78).
[8] Rūh al-bayān, vol. II, pp. 12-13.
[9] Dīwān, in al-Husayn ibn Mansūr al-Hallāj, Il Cristo dell’islam. Scritti mistici, a cura di A. Ventura, Milano 2007, p. 73; vedi anche Dīwān, trad. par L. Massignon, Paris 1981, p. 108.
[10] Mathnawī, III. 2124.
[11] Abd el-Kader, Lettre aux Français, trad. par R. Khawam, Parigi 1977, p. 163.
[12] Ibid., p. 155.
[13] Amadu Hampaté Bâ, Il Saggio di Bandiagara, Milano 1986, p. 144.
[14] I versi del poema che iniziano con «il mio cuore è diventato capace di ogni forma», sono fin troppo noti perché ci sia bisogno di citarli (cfr. Ibn ‘Arabī, Tarjumān al-Ashwāq, Beirut 1966, pp. 42-44; vedere Demetrio Giordani, «I segreti del cuore e le sue luci: l’organo della conoscenza nel Sufismo», in Perennia Verba 6-7 (2002-2003), p. 222). Ibn ‘Arabī, peraltro, è giunto anche a dire: «Gli esseri si sono formati al riguardo di Dio delle credenze, e io professo tutto ciò che essi hanno creduto» (Futūhāt, vol. III, p. 132), frase impugnata come capo d’accusa dal polemista Ibn Taymiyya poiché, secondo lui, sostenere l’universalità della Verità indipendentemente dalle forme particolari delle credenze porta all’antinomia di credere a cose tra loro contrarie e pertanto contraddittorie, il che costituisce una delle più pericolose sovversioni (cfr. Ibn Taymiyya, Majmū‘at rasā’il wa-l-masā’il, Il Cairo s.d., vol. III, p. 81; cit. in Cirille Chodkiewicz, Les premieres polemiques autour d'Ibn ‘Arabī: Ibn Taymiyya (661-728 / 1262-1320),  Tesi di Dottorato, Parigi IV 1982, pp. 70-123).
[15] Futūhāt, cap. 504, vol. IV, p. 142 r. 30.
[16] Ibid., cap. 558 (§ Nome al-Wadūd), vol. IV, p. 260 r. 28.
[17] Id., Kitāb al-Mawāqif, Damasco 1967, Mawqif 246, vol. II, p. 561.
[18] Ibid., Mawqif 236, vol. II, p. 531.
[19] www.masud.co.uk.
[20] P. 125.
[21] Tutti gli altri profeti precedenti, invece, erano stati inviati ad un popolo particolare; lo stesso Profeta ha precisato: «Ogni profeta è stato mandato esclusivamente al suo popolo (kāna kullu nabiyy yub‘athu ilā qawmihi khāatan), mentre io sono stato mandato a tutti indistintamente» (Muslim, Masājid, 3; Bukhārī, Tayammum, 1, ecc.). Anche Gesù non è stato mandato che al popolo d’Israele (cfr. Matteo, 10, 5-6; 15, 22-24); il Corano (61:6) non fa che confermare, su questo punto, quanto troviamo già nel Vangelo.
[22] «Con la sua Legge Iddio ha abrogato tutte le [precedenti] Leggi [rivelate]» (Futūhāt, cap. 10, vol. I, p. 135 r. 14).
[23] Ibid., vol. III, p. 153 r. 12 ss.
[24] Imaginal Worlds, cit., p. 125.
[25] Lungo tutto il corso della storia islamica, l'opinione prevalente ritiene che dopo la rivelazione coranica non vi sia alcuna giustificazione né validità nella pratica delle religioni precedenti, di fatto abrogate con la venuta del Profeta. Perfino versetti quali: «In verità coloro che credono, siano essi giudei, cristiani o sabei, tutti coloro che credono in Dio e nell'Ultimo Giorno e compiono il bene riceveranno il compenso presso il loro Signore. Non avranno nulla da temere e non saranno afflitti» (Cor. 2:62; cf. 5:69), sono immancabilmente interpretati dai mufassirūn exoterici in senso restrittivo: la validità e la salvezza sono assicurate soltanto a coloro che agivano in base alle relative rivelazioni in epoca precedente all'avvento dell'Islam. Per una visione d’insieme del problema del pluralismo religioso in ambito islamico si veda Muslim Perceptions of Other Religions, a cura di Jacques Waardenburg, New York – Oxford 1999; quanto alla prospettiva del sufismo sull’argomento vedere in particolare Carl-A. Keller, «Perceptions of Other Religions in Sufism», in Ibid., pp. 181-194, ed anche Eric Geoffroy, Le Pluralisme Religieux en Islam, nel sito: www.religioperennis.org/documents/geoffroy/interereligieux.pdf; nonché Id. «Il y a dans le Coran un pluralisme religieux», sul sito: oumma.com/Eric-Geoffroy-Il-y-a-dans-le-Coran.
[26] Futūhāt, cap. 339, vol. III, p. 153 r. 16.
[27] Futūhāt, vol. I, p. 222 r. 24 ss.
[28] ‘Ajlūnī, Kashf al-khafā’, vol. II, p. 129.
[29] Ibid.
[30] Ha detto il Profeta: «Tutto quello che è stato rivelato nei Libri celesti è contenuto nel Corano» (cit. da ‘Abd al-Karīm al-Jīlī, all’inizio del Al-Kahf wa-lraqīm, Il Cairo s.d., p. 13; Id., Un Commentaire esoterique de la Formule inaugurale du Coran, trad. a cura di J. Clément-Françoise, Beyrouth 1002, p. 169).
[31] Ibn Hanbal, Musnad, vol. VI, p. 188. Si tratta di quella “natura immensa” (khuluqin ‘azīm) (Cor. 68:4) che il Corano c'invita a prendere a modello (cfr. Cor. 33:21).
[32] Hadith trasmesso con diverse versioni: ūtītu [o ‘utītu] jawāmi‘ al-kalim (Muslim, Masājid 5-8; Ashriba 72; Bukhārī, Ta‘bīr 11; Tirmidhī, Sayr 5; Ibn Hanbal, Musnad, vol. II, p. 64) e bu‘ithtu bi-jawāmi‘ al-kalim (Bukhārī, Jihād 122, Ta‘bīr 22, I‘tiām 1; Nasā’ī, Jihād 1, Tatbīq 100); vedere anche ‘Ajlūnī, Kashf al-khafā’, vol. I, p. 263).
[33] Vedere ad es. Futūhāt, vol. I, pp. 71, 86, 98, 109, 110, 146; vol. II, pp. 50, 52, 58, 72, 87, 88, 107, 134, 171, 280, 356, 603; vol. III, pp. 142, 143, 153, 191, 280, 350, 398, 400, 413, 457, 524, 556; vol. IV, pp. 29, 155, 337, 442. La questione dell’universalità muhammadiana legata alla “Sintesi delle Parole”, vera raison d’être dell’abrogazione delle forme tradizionali anteriori al “Sigillo”, meriterebbe una trattazione a parte che ci proponiamo di svolgere in uno dei prossimi numeri di Perennia Verba.
[34] Ibid., cap. 73 vol. II, p. 134 r. 28; risp. 154 del Questionario.
[35] Ibid., p. 87 r. 18; risp. 74 del Questionario.
[36] Ibid., cap. 10; vol. I, p. 135 r. 5 ss..
[37] Cfr. Ibid., cap. 167, vol. II, p. 280 r. 2.
[38] Ibid., cap. 10, vol. I, p. 135 rr. 14 e 19. Il Profeta ha rafforzato questo concetto dicendo anche: «Se Mosè fosse vivo non potrebbe fare altro che seguirmi» (Ibn Hanbal, Musnad, vol. III, p. 387, spesso citato da Ibn ‘Arabī) e in più di un hadith si afferma che Gesù al tempo della sua seconda venuta non giudicherà che in base alla Legge sacra di Muhammad.
[39] Al-nabī al-haqīqī di cui parla Dāwūd al-Qaysarī (Cfr. Muqaddimāt [Matali‘ khusūs al-kalim], in Qayarī, Rasā’il, ed. a cura di M. Bayaqdar, Istanbul 1997, p. 85), nozione letteralmente equivalente a quella che ritroviamo nelle dottrine degli Ebioniti e dello Pseudo-Clemente (Recognitions, 1.16.1), ma anche, come già messo in luce da Michel Chodkiewicz (Le Sceau des saints, Parigi, 1986, cap. IV), al Logos spermatikos di Giustino.
[40] Futūhāt, cap. 337, vol. III, p. 142 r. 8; cfr. Ibid., cap. 12, vol. I, p. 144 r. 8.
[41] Cfr. Ibid., cap. 10, vol. I, p. 135 r. 20.
[42] Ibid., cap. 12, vol. I, p. 145 r. 20.
[43] Imaginal Worlds, cit., p. 179.
[44] Futūhāt, cap. 73, vol. II, p. 85 r. 11; risp. 67 del Questionario.
[45] Fusûs, ed. ‘Afîfî, p. 113

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