Ibn ‘Arabī e la questione del
pluralismo religioso
La Verità ultima, per definizione, non
può essere che una, ma ciò non significa che i punti di vista dai quali viene
contemplata debbano necessariamente coincidere; per questo le sue espressioni
possono differenziarsi in conformità al ricettacolo della contemplazione,
nonché per la diverse condizioni di tempo e di luogo.
Ogni forma tradizionale che rivendica per sé un’origine eterna manifesta dunque, nell’ambito della sua specificità, una espressione di questa Verità unica e universale, ed è una forma di quella Sapienza increata, che sic est, ut fuit, et sic erit semper.[1]
Ogni forma tradizionale che rivendica per sé un’origine eterna manifesta dunque, nell’ambito della sua specificità, una espressione di questa Verità unica e universale, ed è una forma di quella Sapienza increata, che sic est, ut fuit, et sic erit semper.[1]
Tuttavia, al di là di questa verità
assiomatica, quando non si va al di là delle forme e non si riesce a cogliere i
significati che queste esprimono, si finisce col contrapporre la prospettiva di
una dottrina a quella di un’altra dottrina semplicemente perché formulata in
modo differente, come ben ci ricorda l’esempio buddhista dei ciechi che
vogliono descrivere l’elefante, e da qui c’è il rischio di scivolare facilmente
verso le guerre di religione. La storia, purtroppo, è colma di episodi
d’intolleranza religiosa e lo studioso non avrà difficoltà a vedere che sono
soprattutto le civiltà sacre di tipo religioso monoteistico a caratterizzarsi
con un certo esclusivismo nei confronti delle altre culture tradizionali; la
dottrina cristiana dell’extra ecclesiam nulla salus ne è un tipico esempio. La stessa
attitutudine è presente con forza anche all’interno dell’Islam e non sempre in
ambito meramente exoterico, dominio dei tradizionisti, dei giuristi e della
gente del kalām, poiché non è raro trovare dei rappresentati della
dottrina esoterica (al-‘ilm al-bāṭin)
assumere gli stessi toni restrittivi.
In tutti i casi, la storia sacra è in
realtà piena di queste posizioni oltranziste, poco propense a riconoscere
validità soteriologica alle altre fedi e alle altre forme di culto e ciò si
spiega agevolmente per la natura stessa dei cicli tradizionali che possono
succedersi a motivo dell’egemonia di un gruppo etnico o di una civiltà su di
un’altra, oppure per la comparsa di una nuova forma sacra qualora le condizioni
cicliche lo richiedano. In ogni caso l’ultima forma a manifestarsi reclamerà
per diritto divino la sua autorità e la sua superiorità nei confronti delle
forme che essa viene in qualche modo a sostituire. È del resto normale che sia
così, poiché la fede (śraddha, pistis, ‘emûnâh, īmān) è un elemento
essenziale della vita tradizionale ed è indispensabile che chi pratica una
certa forma di culto abbia l’assoluta certezza della perfezione della Via sulla
quale è condotto. Ciò spiega perché un certo esclusivismo possa essere
presente, a vari livelli, anche in ambito iniziatico.
Vi è, nondimeno, una ragione più profonda
per giustificare alcune forme di esclusivismo: di fronte alla Verità ultima,
ogni verità relativa, per quanto funzionale e necessaria questa possa risultare
lungo il percorso finché l’essere sul cammino non è pervenuto alla
contemplazione del Principio supremo, non può che eclissarsi, ed il suo destino
è quello di scomparire o essere riassorbita nel Principio da cui in ultima
analisi era emanata. Quanto detto vale soprattutto all’interno di una stessa
forma tradizionale per quel che concerne la subordinazione di ogni prospettiva
cosmologica di fronte ad una visione puramente metafisica,[2]
ma è anche vero che un riflesso della manifestazione gerarchica della dottrina
si presenta finanche nei rapporti che legano tra loro le diverse forme
tradizionali. Ciascuna forma infatti, benché in quanto espressione della Verità
divina comporti in sé qualcosa di unico che la rende incomparabile nel contesto
del suo proprio linguaggio simbolico, va comunque a qualificare la dottrina in
modo differenziato lungo il corso del ciclo.[3]
Il ciclo della profezia nella concezione
islamica
La tradizione islamica si presenta alla
storia attraverso la sua rivelazione, il Corano, come l’ultima espressione del
sacro discesa da parte divina per l’umanità attuale: «Muhammad non è il padre di
alcuno dei vostri uomini; egli è l’Inviato di Dio e il Sigillo dei profeti»
(Cor. 33:40), e lo stesso Profeta
sottolinea la cessazione della profezia legiferante in diversi hadith.[4]
La visione escatologica islamica si pone dunque al termine di una serie di
rivelazioni divine che servono da guida (hudā) all’uomo per condurlo
verso uno stato paradisiaco.[5]
Il Corano è chiaro quanto all’origine
unica della rivelazione (tanzīl), che ha sempre il
compito di rinnovare un unico messaggio (risāla) di natura primordiale
che è l’islām, ossia la “sottomissione” a Dio, che implica
essenzialmente il riconoscimento dell’Unità del Principio (tawhīd), lo
stato di subordinazione nei Suoi confronti (‘ubudiyya) e un culto atto a
stabilire una relazione tra i due termini (‘ibāda). In questo senso
tutti i Messaggeri sono inviati con l’islām, quali che siano le
forme e i nomi da esso assunte nel corso del tempo. Contrariamente all’opinione
di molti storici delle religioni, infatti, non vi è un graduale sviluppo del
pensiero umano da un politeismo naturalistico verso una visione monoteistica
del divino; in origine vi è solo poli-nomismo e poli-iconismo dell’unica Realtà
divina senza nome e senza forma, che non può essere colta che attraverso le sue
molteplici manifestazioni. Si passa al politeismo quando le icone cessano di
essere simboli visivi della Divinità impersonale per diventare “idoli”, ossia
oggetti di culto per sé e personificazioni reali della divinità.[6]
Una chiara formulazione dell’unica
tradizione adattata nel corso delle differenti epoche è esposta ad esempio nel tafsīr di Ismā‘īl Haqqī
quando, riportando il commento del suo maestro a Cor. 3:19, scrive: «Ciò che
bisogna intendere [nel concetto] di rivelazione della Parola [divina] (inzāl
al-kalām) è il richiamo assoluto alla vera Religione (al-dīn
al-Haqq), e questa Religione dal tempo di Adamo fino al nostro
Profeta non è altro che l’Islam conformemente alla Parola dell’Altissimo: Invero
la religione presso Dio è l’Islam.[7]
La sua realtà profonda è il tawhīd, mentre le
[differenti] Leggi sacre, che sono le norme giuridiche [d’ispirazione divina] sono
le forme da esso assunte. Questa Religione, dal tempo primordiale fino al
Giorno della Resurrezione, è una e identica presso tutte le religioni
[rivelate] quanto alla sua realtà essenziale (al-haqīqa); la differenza non
concerne che la forma e le norme giuridiche e si tratta d’una differenza
formale che non sopprime l’identità originale e l’unità essenziale».[8]
Del resto già al-Hallāj, molto
tempo prima, aveva scritto: «Ho molto pensato alle religioni, per capirle, e ho
scoperto che sono i molti rami di un’unica Fonte».[9]
A cui fa eco Rūmī dicendo:
«Dato che Lui, oggetto di
ogni lode, è Uno,
per questa ragione tutte le
religioni
sono una religione sola».[10]
Un insegnamento che ritroviamo espresso
in termini identici anche in epoca recente ad opera dell’emiro ‘Abd al-Qādir che nella Lettera ai
Francesi scrive: «La religione è unica, e ciò per l’accordo dei Profeti, che
hanno avuto opinioni diverse solo su certe regole di dettaglio»,[11]
«sui fondamenti della religione e sui suoi principi i diversi Profeti, da Adamo
fino a Muhammad non si contraddicono in nulla».[12]
Lo stesso dirà Tierno Bokar, il santo tijānī di
Bandiagara, per il quale non vi è che un’unica Religione primordiale,
«comparabile ad un tronco dal quale le religioni storicamente note si biforcano
come i rami di un albero… Essa è la Religione eterna insegnata da tutti i
grandi Inviati di Dio, che l’hanno adattata in base alle necessità di ogni
epoca».[13]
Quanto ad Ibn ‘Arabī, la sua posizione sull’“unità
trascendente delle religioni” (wahdat al-adyān) è sicuramente quella meglio conosciuta in ambito
islamico[14] ed è
abbastanza significativo che l’incipit
stesso dei Fusus: «Lode a Dio che ha
fatto scendere le Saggezze [ossia i contenuti essenziali delle Rivelazioni
divine] sui cuori dei Verbi [ovvero i germi delle realtà profetiche] nell’unità
della Via assiale a partire dal punto più primordiale, nonostante le dottrine e
le forme tradizionali si siano poi diversificate a causa della differenza
specifica delle nazioni», si presenti come un proclama di Philosophia Perennis.
La base di questi insegnamenti è coranica
e trova conferma nelle parole dell’Altissimo: «Ogni comunità ha un messaggero» (Cor. 10:47); «ogni epoca [ha
avuto] la sua Scrittura» (Cor. 14:38), e nella Sua Parola: «A ogni comunità abbiamo inviato un profeta
[che dicesse]: ‘Adorate Dio e rifuggite il Ribelle’» (Cor. 16:36). E ancora: «non c’è
Comunità a cui non sia venuto un Ammonitore» (Cor. 35:24). L’unicità e l’universalità del Messaggio divino, come
pure la diversità dei linguaggi e dei sentieri che conducono l’uomo a Dio a
motivo delle differenze di tempo e di luogo, dunque di etnia e di cultura, sono
del resto sancite dalla Sua Parola: «Non
abbiamo mandato alcun messaggero se non con la lingua del suo popolo» (Cor.
14:4); e anche: «a ogni comunità abbiamo
indicato un culto da osservare» (Cor. 22:67).
Il riconoscimento di questa unità essenziale
che riconduce le diverse forme religiose fondate su una rivelazione divina ad un’unica
fonte originaria non è in discussione; pur se con vario tenore ed accento, e
con diverso registro, esso è parte integrante del patrimonio dottrinale e
culturale islamico. Fin qui, dunque, nulla di strano; né si può pretendere che
le menti razionaliste e dogmatiche possano seguire Ibn ‘Arabī che si
spinge ancor più oltre quando afferma che: «Dio è con ogni oggetto di credenza
(mu‘taqid)»[15]
e che «nessuno è amato tranne Dio, ma il nome della cosa creata funge da velo.
Parimenti, colui che adora una cosa creata non adora in realtà altri che Dio,
anche se non è consapevole… Poi quando muore e la cortina viene rimossa, scopre
allora di non aver adorato altri che Dio».[16]
Passaggi a cui fa eco l’emiro ‘Abd al-Qādir
quando sostiene che «il nostro Dio e il Dio di tutte le comunità diverse dalla
nostra sono in verità e in realtà un unico Dio, conformemente a ciò che Egli ha
detto in numerosi versetti: “Il Dio
vostro! Egli è il Dio unico” (Cor. 2:163; ecc.). Egli ha detto anche che: “Non c’è in fatto di divinità se non Dio”
(Cor. 3:62). Tale Egli è nonostante la diversità delle Sue teofanie – dal
carattere assoluto o limitato, trascendente o immanente – e la varietà
delle Sue manifestazioni. […] Egli si è manifestato a ogni adoratore di una
qualsiasi cosa […] nella forma di tale cosa: giacché nessun adoratore di una
cosa finita l’adora in se stessa. Ciò che questi adora è l’epifania in quella
forma degli attributi del Vero Dio (al-Ilāh al-Haqq) – che Egli sia esaltato! – poiché tale
epifania rappresenta, per ogni forma, l’aspetto divino che le corrisponde in
proprio. Ma [al di là di questa diversità delle forme teofaniche] quanto
adorano tutti gli adoratori è uno; il loro errore consiste solo nel fatto di
determinarlo in modo limitato […]. Vi è dunque unanimità di religioni rispetto
all’oggetto dell’adorazione (fa-ittafaqat
jamī‘ al-firaq fī-l-ma‘nā al-maqūd
bi-l-‘ibāda)»[17].
L’Islam abroga quel che precede
Le affermazioni dell’emiro vanno comprese
all’interno della dottrina metafisica della teofania divina in ogni forma, ma
non ci devono indurre in errore riguardo all’accettazione o meno da parte di
Dio di qualunque forma di culto. L’emiro ‘Abd al-Qādir è inequivocabile quando, a proposito del versetto: «Presto gli associatori diranno: “Se Dio
avesse voluto non avremmo associato alcunché, e neppure i nostri avi; né
avremmo dichiarato illecito alcunché”» (Cor. 6:148), scrive: «Queste parole
rappresentano un caso di enunciazione veritiera formulato con intento
menzognero […] L’aspetto menzognero dell’enunciato consiste nel ritenere da
parte loro che tutto quanto Dio vuole per i Suoi servi Lo soddisfi e Gli sia
gradito. Questo è falso. Dio vuole per i Suoi servi ciò che la Sua Scienza Gli insegna
su di loro da sempre […ossia] quanto esigono le loro realtà essenziali e quanto
rivendicano le loro predisposizioni, sia esso bene o male, credenza o infedeltà
[…] Se tutto ciò che vuole per i Suoi servi fosse un bene, ne conseguirebbe che
l’invio dei Messaggeri e la promulgazione delle Leggi sacre sarebbero inutili».[18]
Tuttavia, non è su questo punto che verte
il nodo cruciale della questione. Il punto critico, essenziale tra tutti, è
quello di conoscere qual è lo statuto delle precedenti forme sacre dopo la
venuta del Profeta, argomento apparso anche nel web (1996) sotto la penna di Nuh
Keller col titolo: «On the validity of
all religions in the thought of ibn Al-‘Arabi and Emir ‘Abd al-Qadir».[19]
Il dibattito è stato stimolato in ambito islamico dalla comparsa del libro del Prof.
William C. Chittick, noto esperto dell’opera di Ibn ‘Arabī, intitolato: Imaginal World: Ibn al-‘Arabī and the
Problem of Religious Diversity (Albany, N.Y. 1994). In esso vengono citati
diversi passaggi di Ibn ‘Arabī che
propongono una visione universale della religione e da tutti questi l’Autore
trae una conclusione che è apparsa esecrabile per l’ortodossia islamica, ossia
che Ibn al-‘Arabī «non trae
la conclusione tratta da molti Musulmani, secondo cui l’avvento dell’Islam ha
abrogato (naskh) le precedenti
religioni rivelate».[20]
Così com’è stata formulata la frase
appare inaccettabile, poiché va palesemente contro tutte le posizioni
dell’Islam ortodosso ed è lesiva d’un tratto fondamentale dell’universalità muhammadiana, ovvero l’aspetto
onnicomprensivo (ihāta) della sua funzione legiferante come indicato nel
versetto: «Non t’abbiamo mandato se non con
una missione rivolta indistintamente a tutti gli uomini (wa mā arsalnāka illā li-l-nāsi kāffatan), quale nunzio
e ammonitore, ma la maggior parte degli uomini non sanno» (Cor. 34:28).[21]
Soprattutto, la frase in questione esprime un concetto che non può essere
imputato ad Ibn ‘Arabī. In
questo senso ha pienamente ragione Keller quando scrive che questa formulazione
è “falsa”. Ibn ‘Arabī,
infatti, afferma in più parti l’abrogazione da parte della risāla muhammadiana, e dunque della sua sharī‘a,
di tutte le precedenti Leggi rivelate: nasakha
’Llāhu bi-shar‘ihi jamī‘ al-sharā‘i.[22]
Il passaggio chiave dell’opera di Ibn
‘Arabī che è stato l’oggetto
del dibattito è tratto dal capitolo 339 delle Futūhāt,[23]
che Chittick traduce: «Tutte le religioni rivelate (sharā’i‘) sono
luci. Tra queste religioni, la religione rivelata di Muhammad è come la luce del
sole tra le luci delle stelle. Quando il sole appare, le luci delle stelle sono
nascoste, e le loro luci sono incluse nella luce del sole. Il loro essere
nascoste è simile all’abrogazione delle altre religioni rivelate che avviene
per mezzo della religione rivelata di Muhammad. Tuttavia, di fatto esse
esistono, allo stesso modo in cui l’esistenza della luce delle [altre] stelle è
tuttora reale. Ciò spiega il motivo per cui ci è stato chiesto, nella nostra
religione onnicomprensiva, di aver fede in tutti i messaggeri e in tutte le
religioni rivelate. Esse non sono rese nulle (bātil) mediante
l’abrogazione: questa è l’opinione dell’ignorante».[24]
Secondo Keller, l’interpretazione di
questo brano è viziata dal fatto d’essere presentata in modo parziale ed egli
lo completa come segue: «Tutti i sentieri, dunque, – continua Ibn ‘Arabī – tornano a rivolgersi
verso il sentiero del Profeta: se i profeti inviati fossero stati vivi alla sua
epoca, essi lo avrebbero seguito allo stesso modo che le loro leggi rivelate
hanno seguito la sua legge. Poiché egli ha ricevuto le Parole Sintetiche (jawāmi‘
al-kalim), e [il versetto coranico]:
“Allah ti ha donato una vittoria insuperabile” (Cor. 48:3); “l’insuperabile”
(al-‘azīz) essendo ciò che si cerca d’ottenere, ma che non può
essere raggiunto. Quando i profeti inviati cercarono di raggiungere il Profeta,
risultò per loro impossibile farlo, poiché egli è stato inviato al mondo intero
(bi‘thatihi al-‘āmma) e Allah gli ha donato le Parole Sintetiche (jawāmi‘
al-kalim) e il rango supremo nell’essere il detentore della Stazione Lodata
(al-maqām al-mahmūd) nel mondo futuro, poiché
Allah ha reso la sua Nazione (umma) “la miglior Nazione mai sorta tra gli
uomini” (Cor. 3:110), la nazione di ogni inviato essendo commisurata alla
stazione del suo profeta, comprendi questo!».
Per Keller, il passaggio in questione,
«se letto con attenzione, afferma semplicemente che gli inviati di Allah
dicevano la verità e che tutto quel che è stato da essi apportato era vero,
cosa in cui crede ogni Musulmano. Ma esso ci indica inoltre che tutto quel che le
loro leggi contenevano, non solo è stato abrogato, ma è perciò stesso contenuto
implicitamente nella nuova rivelazione».
Francamente si ha l’impressione che non
si voglia vedere il senso ovvio del testo dello Shaykh al-Akbar. Chittick ha
sbagliato affermando che le religioni o, se si preferisce, le “leggi rivelate”
non erano abrogate, ma il punto sottile della questione verte non tanto sul
concetto di abrogazione al quale Keller ha rivolto tutta la sua attenzione,
quanto su quello dell’attuale validità o meno, per Ibn ‘Arabī, delle forme precedenti la
rivelazione muhammadiana.[25]
Poche parole del brano in oggetto sono
sufficienti a chiarire il problema, e non si giustifica il fatto di averle poi
neglette da parte di Keller. Scrive lo Shaykh: «fa-lam tarja‘ bi-l-naskh bātilan,
dhālika zann
alladhīna jahalū»,[26]
che tradurrei con: «…e non prendere [il termine] “abrogazione” nel senso di
“non valido”, questo è quel che pensano gli ignoranti». Bātil, infatti,
non significa in questo caso semplicemente “falso”, quanto “privo di
ogni validità”, poiché è di leggi sacre e di pratiche rituali che ruotano
attorno ad una rivelazione divina che si sta parlando.
La giurisdizione muhammadiana
Se è vero che le forme religiose e le
leggi sacre apportate dai profeti precedenti la venuta di Muhammad sono state
abrogate, per Ibn ‘Arabī,
contrariamente all’opinione dei rappresentanti della religione exoterica, ciò
non sta dunque a significare che il culto di coloro che le praticano abbia
perso, almeno in una certa misura, ogni capacità salvifica o di santificazione.
Lo Shaykh lo attesta chiaramente all’inizio del capitolo 36 delle Futūhāt,
dove scrive: «Dal momento che la Legge sacra di Muhammad comprende in sé tutte
le precedenti Leggi rivelate (tadammana jāmi‘ al-sharā’i‘
al-mutaqaddima) e che a queste ultime non rimane più alcuna giurisdizione (hukm)
in questo mondo tranne che per quel che è stato confermato dalla Legge muhammadiana, esse continuano a
sussistere in virtù della sua conferma. Sicché noi possiamo praticarne il culto
[in modo valido] in virtù della conferma che ne ha dato Muhammad, non in virtù
della conferma data da parte dello specifico profeta che le ha promulgate nel
suo tempo. È per questo motivo che all’Inviato di Dio è stata donata le
“Sintesi delle Parole”».[27]
Che le Leggi istituite da una precedente
rivelazione divina siano state confermate dalla rivelazione muhammadiana è dottrina coranica, dove
se ne parla in ben sedici passaggi. Ora, per lo Shaykh al-Akbar, il perno di
questa dottrina ruota attorno alla natura primordiale dello spirito del
Profeta, e di conseguenza della sua profezia, conformemente al hadith, spesso
citato nelle fonti del sufismo, in cui il Profeta afferma: «Ero profeta quando
Adamo era ancora tra l’acqua e l’argilla», o secondo una versione, accettata
dai tradizionisti, «tra lo spirito e il corpo»,[28]
ossia prima della sua esistenza concreta; o anche dal hadith in cui è detto:
«Sono stato il primo dei profeti ad essere creato e l’ultimo ad essere
suscitato».[29]
Per Ibn ‘Arabī ciò si traduce nella
natura universale della funzione profetica muhammadiana poiché essa è intimamente legata all’onnicomprensività
del Corano.[30]
Infatti, interrogata sul carattere del Profeta, la moglie ‘Â’isha aveva
risposto: «La sua natura era il Corano».[31]
Universalità che lo Shaykh al-Akbar vede sintetizzata proprio nel concetto di Jawāmi‘
al-kalim, la “Sintesi delle Parole”, ossia il suo abbracciare e comprendere
in modo sintetico tutte le rivelazioni divine che l’hanno preceduto. Tale
espressione, infatti, tratta da un detto in cui il Profeta afferma: «Mi sono
state donate le Parole Sintetiche»,[32]
è impiegata da Ibn ‘Arabī ogniqualvolta si tratta di definire in modo
particolare la caratteristica peculiare del Profeta e la sua funzione
specifica, specialmente nei capitoli che gli sono dedicati.[33]
Tutto ciò ci viene magistralmente esposto
in alcuni illuminanti passaggi delle Futūhāt, dove leggiamo:
«Per quanto gli uomini, da Adamo fino all’ultimo essere umano abbiano avuto
(diverse) Leggi sacre (sharā’i‘), queste Leggi non erano
altro che la Legge sacra di Muhammad promulgata ad opera dei suoi sostituti»;[34]
è per questo che il Profeta «è stato mandato con una missione universale e la sua
Legge riunisce in sé tutte le altre Leggi».[35]
Questo argomento viene ripreso in particolare nel capitoli 10 e 12 che
l’affrontano in modo dettagliato: «Se Muhammad fosse stato inviato al tempo di Adamo,
i Profeti e tutti gli altri uomini si sarebbero trovati, nel mondo sensibile,
sotto la giurisdizione della sua Legge sacra fino al Giorno della Resurrezione.
Per questo, Egli non ha mandato, [prima
del Profeta, alcun inviato] in modo universale, ma solo in modo particolare […]
La sua realtà spirituale (rūhāniyya)
– che la Grazia e la Pace divine siano su di lui – è presente (mawjūda, fin dall’origine), sicché
la realtà spirituale di tutti gli altri Profeti ed Inviati riceve l’influenza
spirituale da questo puro Spirito secondo quanto ciascuno ne manifesta nelle
Leggi sacre e nelle conoscenze [di ordine tradizionale] formulate al tempo
della loro missione di Inviati […] Nonostante ciò, dal momento che l’esistenza
individuale e concreta [del Profeta] non è apparsa per prima nel mondo
sensibile, ciascuna forma tradizionale viene attribuita a colui che ha avuto la
missione di promulgarla, anche se, in realtà, non si tratta d’altro che della
Legge sacra di Muhammad, quantunque manchi la sua presenza concreta».[36]
L’abrogazione
delle Leggi sacre precedenti ne risulta di conseguenza; il messaggio universale
gli conferisce l’autorità di poter abrogare gli statuti derivati dalle Leggi
divine che nessun altro tranne lui poteva abrogare.[37]
«Con la [comparsa della] sua Legge Dio ha abrogato tutte le Leggi precedenti,
ma tale abrogazione non fa uscire le Leggi sacre precedentemente rivelate dalla
sua Legge»; dal momento che procedono tutte dal Profeta, e sono pertanto
incluse nella sua Legge, ne consegue che «nessuno dei Profeti [anteriori] possiede
più alcuna giurisdizione tradizionale [autonoma] a fianco di quanto
[definitivamente] fissato dal Profeta con la sua Legge sacra».[38]
Rigore e misericordia
Se è vero che la maggior parte degli ‘ulamā’ non riconoscono più
alcuna valenza salvifica al credo delle altre “religioni del Libro” e, di
conseguenza, neppure una validità santificante alla loro pratica liturgica dopo
la venuta del Profeta, è anche vero che la questione si presenta in termini più
sfumati all’interno sufismo, benché il timore che venga messa in causa
l’universalità della missione muhammadiana e si arrivi ad una sorta di
anarchia dottrinale è troppo forte perché si giunga facilmente a palesare
apertamente delle posizioni di segno contrario.
Quanto ad Ibn ‘Arabī, l’universalità stessa della
missione profetica di Muhammad e della sua Realtà atemporale, quella Haqīqa
muhammadiyya che è il
Verus
propheta[39]
da cui procedono tutti gli Inviati divini e di cui Muhammad è la manifestazione
piena e conclusiva, sono il vero motivo per cui la sua Legge rivelata è, in rapporto
alle altre Leggi, come la luce del sole rispetto a quella delle stelle, la
quale viene assorbita in quella del sole, pur continuando esse ad esistere; la
sua apparizione «è stata come quella del sole, la cui luce offusca ogni altra
luce. Ed egli ha confermato delle Leggi sacre apportate dai suoi sostituti
quanto ha confermato ed ha abrogato quanto ha abrogato».[40]
Orbene, affermare che è confermato quel
che ha confermato ed è abrogato quel che ha abrogato, equivale a dire che quel
che non è “esplicitamente” abrogato, è “tacitamente” confermato, e chi lo pratica,
lo fa in modo valido in base ad una conferma implicita nella missione
legiferante muhammadiana. Altrimenti, non si spiegherebbe neppure lo statuto
giuridico degli ahl al-dhimma, ossia
di coloro, tra la Gente del Libro, che si trovano sotto il protettorato
musulmano: anch’essi, afferma Ibn ‘Arabī, rientrano in questo
contesto, almeno fintanto che «continueranno a pagare di propria mano il
tributo, in posizione d’inferiorità» (Cor. 9: 29).[41]
La conclusione, per lo Shaykh al-Akbar, è
che la Legge sacra del Profeta abroga «tutte le altre Leggi e la sua religione
prevale su tutte le altre religioni e, unitamente, su ogni altro Inviato che l’abbia
preceduto e su ogni altro Libro rivelato. Nessuna delle altre religioni
possiede alcun potere presso Dio eccetto che nella misura di quel che di essa è
stato confermato; pertanto la sua conferma la rende valida. L’universalità
della funzione legiferante deriva dalla sua [di Muhammad] Legge sacra. Se
rimane una qualunque funzione legislativa di quelle [forme sacre], essa
proviene solo dal decreto di Dio riguardante in modo specifico le genti della jizya»,[42]
il tributo imposto alla “Gente del Libro”.
Detto questo, è anche vero, però, che
sicuramente non vi è più validità nelle parti che sono state abrogate, ma
perché ci sia “condanna” uno dovrebbe essere consapevole della risāla muhammadiana, mentre
lo stesso versetto coranico che ne sancisce l’universalità: «Non t’abbiamo mandato se non con una
missione rivolta indistintamente a tutti gli uomini...», non manca di
precisare subito dopo: «...ma la maggior
parte degli uomini non sanno» (Cor. 34:28). Al di là delle formulazioni
dogmatiche e delle concezioni dottrinali, su un punto, tuttavia, si
ricongiungono nuovamente gli esponenti sia dell’Islam exoterico che di quello esoterico:
entrambi sono disposti a concedere l’excusatio
dell’ignoranza.
Sappiamo quanto la visione di Ibn
‘Arabī sia complessa e profonda, spesso incompresa e facilmente
equivocata, ma ci auguriamo di essere riusciti a esporre con sufficiente
chiarezza cosa intenda lo Shaykh quando afferma di non prendere il termine
“abrogazione” come implicante la “non validità” delle leggi sacre
precedentemente rivelate e come l’onnicomprensività della missione del Profeta
serva in fondo da giustificazione per la pratica degli altri culti, anche
laddove alcune parti di questi possano essere state abrogate dalla forma
conclusiva della Legislazione divina, almeno fintanto che la jizya sarà pagata e non sarà abolita.
Un’ultima considerazione, infine, sulla Philosophia Perennis: quale posto le
dev’essere riservato, sul piano dottrinale, all’interno dell’Islam? Non
troviamo nulla di meglio che lasciare ancora una volta la parola ad Ibn ‘Arabi,
con i due passaggi che anche W. Chittick, ha posto in chiusura del suo lavoro:[43]
«Chi esorta se stesso al bene
dovrebbe investigare, durante il tempo in cui si trova in questo mondo, tutte
le dottrine riguardanti Dio. Dovrebbe imparare a conoscere i punti da cui
ciascun sostenitore d’una dottrina trae la validità della medesima. Poi, una
volta che la sua validità s’è affermata in lui secondo le specifiche modalità
che la rendono corretta per coloro che la professano, egli dovrebbe sostenerla
nei confronti di coloro che non vi credono».[44]
E ancora:
«Guardati dall’essere
condizionato da un credo particolare rinnegando tutto il resto, perché
perderesti un bene immenso; meglio ancora, perderesti la scienza della Verità
per quel che essa è in se stessa. Che la tua anima sia la sostanza delle forme
di tutte le credenze, perché Dio Altissimo è troppo vasto e troppo immenso per
essere racchiuso in un credo ad esclusione degli altri. Egli ha detto infatti: “Ovunque
vi volgiate, ivi è il volto di
Dio” (Cor. 2:115)».[45]
PDF tratto da: https://www.academia.edu
Articolo pubblicato su: Perennia Verba, vol. n° 10
[1] S. Agostino, Conf. IX.10.24.
[2] Cfr. Abhinavagupta, Luce delle Sacre Scritture (Tantrāloka), a cura di R. Gnoli, Torino 1972, cap. XXXV, pp. 762-67.
[3] È per questo motivo che R. Guénon affermava che nessuna tradizione particolare può identificarsi in quanto tale alla Tradizione primordiale (cfr. Id., Studi sull’Induismo, Milano 1996, p. 106), nozione espressa dal concetto indù di Sanātana Dharma e da quello islamico di al-Dīn al-qayyim.
[4] «Non vi sarà più alcun Profeta dopo di me (lā nabīy ba‘dī; o laysa ba‘dī nabīy)» (Bukhārī, Maghāzi 78; Ibn Hanbal, Musnad, vol. III, p. 338; vol. VI, pp. 369, 438, ecc.).
[5] Cfr. Cor. 2:38.
[6] Cfr. Ananda K. Coomaraswamy, «Vedic ‘Monotheism’», in Selected Papers: Metaphysics, Princeton 1977, pp. 166-176, e Alain Danielou The Gods of India: Hindu Polytheism, New York 1985, cap. 1. La molteplicità dei nomi è funzionale alla molteplicità delle teofanie del Principio trascendente che spesso, per gli antichi, «si rivela – come scrive Alfred Jeremias – in un luogo determinato secondo una forma e una figura definita, in conformità alla relazione di quel luogo con la corrispondente regione sacra dei cieli (topos, templum)» (Id., s.v. «Ages of the World (Babylonian)», in Encycl. of Religons and Ethics, vol. I, p. 184 a.). In questo contesto, la teofania specifica di un determinato luogo diviene il summus deus per la regione e per tutti coloro che la popolano.
[7] Come precisa Vâlsan, «l’“Islam” così enunciato designa, in verità, non la legge di una forma tradizionale particolare, ma la Legge fondamentale e imprescindibile di tutto il ciclo tradizionale», (M. Vâlsan, Sufismo ed esicasmo, Roma 2000, p. 78).
[8] Rūh al-bayān, vol. II, pp. 12-13.
[9] Dīwān, in al-Husayn ibn Mansūr al-Hallāj, Il Cristo dell’islam. Scritti mistici, a cura di A. Ventura, Milano 2007, p. 73; vedi anche Dīwān, trad. par L. Massignon, Paris 1981, p. 108.
[10] Mathnawī, III. 2124.
[11] Abd el-Kader, Lettre aux Français, trad. par R. Khawam, Parigi 1977, p. 163.
[12] Ibid., p. 155.
[13] Amadu Hampaté Bâ, Il Saggio di Bandiagara, Milano 1986, p. 144.
[14] I versi del poema che iniziano con «il mio cuore è diventato capace di ogni forma», sono fin troppo noti perché ci sia bisogno di citarli (cfr. Ibn ‘Arabī, Tarjumān al-Ashwāq, Beirut 1966, pp. 42-44; vedere Demetrio Giordani, «I segreti del cuore e le sue luci: l’organo della conoscenza nel Sufismo», in Perennia Verba 6-7 (2002-2003), p. 222). Ibn ‘Arabī, peraltro, è giunto anche a dire: «Gli esseri si sono formati al riguardo di Dio delle credenze, e io professo tutto ciò che essi hanno creduto» (Futūhāt, vol. III, p. 132), frase impugnata come capo d’accusa dal polemista Ibn Taymiyya poiché, secondo lui, sostenere l’universalità della Verità indipendentemente dalle forme particolari delle credenze porta all’antinomia di credere a cose tra loro contrarie e pertanto contraddittorie, il che costituisce una delle più pericolose sovversioni (cfr. Ibn Taymiyya, Majmū‘at rasā’il wa-l-masā’il, Il Cairo s.d., vol. III, p. 81; cit. in Cirille Chodkiewicz, Les premieres polemiques autour d'Ibn ‘Arabī: Ibn Taymiyya (661-728 / 1262-1320), Tesi di Dottorato, Parigi IV 1982, pp. 70-123).
[15] Futūhāt, cap. 504, vol. IV, p. 142 r. 30.
[16] Ibid., cap. 558 (§ Nome al-Wadūd), vol. IV, p. 260 r. 28.
[17] Id., Kitāb al-Mawāqif, Damasco 1967, Mawqif 246, vol. II, p. 561.
[18] Ibid., Mawqif 236, vol. II, p. 531.
[19] www.masud.co.uk.
[20] P. 125.
[21] Tutti gli altri profeti precedenti, invece, erano stati inviati ad un popolo particolare; lo stesso Profeta ha precisato: «Ogni profeta è stato mandato esclusivamente al suo popolo (kāna kullu nabiyy yub‘athu ilā qawmihi khāatan), mentre io sono stato mandato a tutti indistintamente» (Muslim, Masājid, 3; Bukhārī, Tayammum, 1, ecc.). Anche Gesù non è stato mandato che al popolo d’Israele (cfr. Matteo, 10, 5-6; 15, 22-24); il Corano (61:6) non fa che confermare, su questo punto, quanto troviamo già nel Vangelo.
[22] «Con la sua Legge Iddio ha abrogato tutte le [precedenti] Leggi [rivelate]» (Futūhāt, cap. 10, vol. I, p. 135 r. 14).
[23] Ibid., vol. III, p. 153 r. 12 ss.
[24] Imaginal Worlds, cit., p. 125.
[25] Lungo tutto il corso della storia islamica, l'opinione prevalente ritiene che dopo la rivelazione coranica non vi sia alcuna giustificazione né validità nella pratica delle religioni precedenti, di fatto abrogate con la venuta del Profeta. Perfino versetti quali: «In verità coloro che credono, siano essi giudei, cristiani o sabei, tutti coloro che credono in Dio e nell'Ultimo Giorno e compiono il bene riceveranno il compenso presso il loro Signore. Non avranno nulla da temere e non saranno afflitti» (Cor. 2:62; cf. 5:69), sono immancabilmente interpretati dai mufassirūn exoterici in senso restrittivo: la validità e la salvezza sono assicurate soltanto a coloro che agivano in base alle relative rivelazioni in epoca precedente all'avvento dell'Islam. Per una visione d’insieme del problema del pluralismo religioso in ambito islamico si veda Muslim Perceptions of Other Religions, a cura di Jacques Waardenburg, New York – Oxford 1999; quanto alla prospettiva del sufismo sull’argomento vedere in particolare Carl-A. Keller, «Perceptions of Other Religions in Sufism», in Ibid., pp. 181-194, ed anche Eric Geoffroy, Le Pluralisme Religieux en Islam, nel sito: www.religioperennis.org/documents/geoffroy/interereligieux.pdf; nonché Id. «Il y a dans le Coran un pluralisme religieux», sul sito: oumma.com/Eric-Geoffroy-Il-y-a-dans-le-Coran.
[26] Futūhāt, cap. 339, vol. III, p. 153 r. 16.
[27] Futūhāt, vol. I, p. 222 r. 24 ss.
[28] ‘Ajlūnī, Kashf al-khafā’, vol. II, p. 129.
[29] Ibid.
[30] Ha detto il Profeta: «Tutto quello che è stato rivelato nei Libri celesti è contenuto nel Corano» (cit. da ‘Abd al-Karīm al-Jīlī, all’inizio del Al-Kahf wa-lraqīm, Il Cairo s.d., p. 13; Id., Un Commentaire esoterique de la Formule inaugurale du Coran, trad. a cura di J. Clément-Françoise, Beyrouth 1002, p. 169).
[31] Ibn Hanbal, Musnad, vol. VI, p. 188. Si tratta di quella “natura immensa” (khuluqin ‘azīm) (Cor. 68:4) che il Corano c'invita a prendere a modello (cfr. Cor. 33:21).
[32] Hadith trasmesso con diverse versioni: ūtītu [o ‘utītu] jawāmi‘ al-kalim (Muslim, Masājid 5-8; Ashriba 72; Bukhārī, Ta‘bīr 11; Tirmidhī, Sayr 5; Ibn Hanbal, Musnad, vol. II, p. 64) e bu‘ithtu bi-jawāmi‘ al-kalim (Bukhārī, Jihād 122, Ta‘bīr 22, I‘tiām 1; Nasā’ī, Jihād 1, Tatbīq 100); vedere anche ‘Ajlūnī, Kashf al-khafā’, vol. I, p. 263).
[33] Vedere ad es. Futūhāt, vol. I, pp. 71, 86, 98, 109, 110, 146; vol. II, pp. 50, 52, 58, 72, 87, 88, 107, 134, 171, 280, 356, 603; vol. III, pp. 142, 143, 153, 191, 280, 350, 398, 400, 413, 457, 524, 556; vol. IV, pp. 29, 155, 337, 442. La questione dell’universalità muhammadiana legata alla “Sintesi delle Parole”, vera raison d’être dell’abrogazione delle forme tradizionali anteriori al “Sigillo”, meriterebbe una trattazione a parte che ci proponiamo di svolgere in uno dei prossimi numeri di Perennia Verba.
[34] Ibid., cap. 73 vol. II, p. 134 r. 28; risp. 154 del Questionario.
[35] Ibid., p. 87 r. 18; risp. 74 del Questionario.
[36] Ibid., cap. 10; vol. I, p. 135 r. 5 ss..
[37] Cfr. Ibid., cap. 167, vol. II, p. 280 r. 2.
[38] Ibid., cap. 10, vol. I, p. 135 rr. 14 e 19. Il Profeta ha rafforzato questo concetto dicendo anche: «Se Mosè fosse vivo non potrebbe fare altro che seguirmi» (Ibn Hanbal, Musnad, vol. III, p. 387, spesso citato da Ibn ‘Arabī) e in più di un hadith si afferma che Gesù al tempo della sua seconda venuta non giudicherà che in base alla Legge sacra di Muhammad.
[39] Al-nabī al-haqīqī di cui parla Dāwūd al-Qaysarī (Cfr. Muqaddimāt [Matali‘ khusūs al-kalim], in Qayarī, Rasā’il, ed. a cura di M. Bayaqdar, Istanbul 1997, p. 85), nozione letteralmente equivalente a quella che ritroviamo nelle dottrine degli Ebioniti e dello Pseudo-Clemente (Recognitions, 1.16.1), ma anche, come già messo in luce da Michel Chodkiewicz (Le Sceau des saints, Parigi, 1986, cap. IV), al Logos spermatikos di Giustino.
[40] Futūhāt, cap. 337, vol. III, p. 142 r. 8; cfr. Ibid., cap. 12, vol. I, p. 144 r. 8.
[41] Cfr. Ibid., cap. 10, vol. I, p. 135 r. 20.
[42] Ibid., cap. 12, vol. I, p. 145 r. 20.
[43] Imaginal Worlds, cit., p. 179.
[44] Futūhāt, cap. 73, vol. II, p. 85 r. 11; risp. 67 del Questionario.
[45] Fusûs, ed. ‘Afîfî, p. 113
[2] Cfr. Abhinavagupta, Luce delle Sacre Scritture (Tantrāloka), a cura di R. Gnoli, Torino 1972, cap. XXXV, pp. 762-67.
[3] È per questo motivo che R. Guénon affermava che nessuna tradizione particolare può identificarsi in quanto tale alla Tradizione primordiale (cfr. Id., Studi sull’Induismo, Milano 1996, p. 106), nozione espressa dal concetto indù di Sanātana Dharma e da quello islamico di al-Dīn al-qayyim.
[4] «Non vi sarà più alcun Profeta dopo di me (lā nabīy ba‘dī; o laysa ba‘dī nabīy)» (Bukhārī, Maghāzi 78; Ibn Hanbal, Musnad, vol. III, p. 338; vol. VI, pp. 369, 438, ecc.).
[5] Cfr. Cor. 2:38.
[6] Cfr. Ananda K. Coomaraswamy, «Vedic ‘Monotheism’», in Selected Papers: Metaphysics, Princeton 1977, pp. 166-176, e Alain Danielou The Gods of India: Hindu Polytheism, New York 1985, cap. 1. La molteplicità dei nomi è funzionale alla molteplicità delle teofanie del Principio trascendente che spesso, per gli antichi, «si rivela – come scrive Alfred Jeremias – in un luogo determinato secondo una forma e una figura definita, in conformità alla relazione di quel luogo con la corrispondente regione sacra dei cieli (topos, templum)» (Id., s.v. «Ages of the World (Babylonian)», in Encycl. of Religons and Ethics, vol. I, p. 184 a.). In questo contesto, la teofania specifica di un determinato luogo diviene il summus deus per la regione e per tutti coloro che la popolano.
[7] Come precisa Vâlsan, «l’“Islam” così enunciato designa, in verità, non la legge di una forma tradizionale particolare, ma la Legge fondamentale e imprescindibile di tutto il ciclo tradizionale», (M. Vâlsan, Sufismo ed esicasmo, Roma 2000, p. 78).
[8] Rūh al-bayān, vol. II, pp. 12-13.
[9] Dīwān, in al-Husayn ibn Mansūr al-Hallāj, Il Cristo dell’islam. Scritti mistici, a cura di A. Ventura, Milano 2007, p. 73; vedi anche Dīwān, trad. par L. Massignon, Paris 1981, p. 108.
[10] Mathnawī, III. 2124.
[11] Abd el-Kader, Lettre aux Français, trad. par R. Khawam, Parigi 1977, p. 163.
[12] Ibid., p. 155.
[13] Amadu Hampaté Bâ, Il Saggio di Bandiagara, Milano 1986, p. 144.
[14] I versi del poema che iniziano con «il mio cuore è diventato capace di ogni forma», sono fin troppo noti perché ci sia bisogno di citarli (cfr. Ibn ‘Arabī, Tarjumān al-Ashwāq, Beirut 1966, pp. 42-44; vedere Demetrio Giordani, «I segreti del cuore e le sue luci: l’organo della conoscenza nel Sufismo», in Perennia Verba 6-7 (2002-2003), p. 222). Ibn ‘Arabī, peraltro, è giunto anche a dire: «Gli esseri si sono formati al riguardo di Dio delle credenze, e io professo tutto ciò che essi hanno creduto» (Futūhāt, vol. III, p. 132), frase impugnata come capo d’accusa dal polemista Ibn Taymiyya poiché, secondo lui, sostenere l’universalità della Verità indipendentemente dalle forme particolari delle credenze porta all’antinomia di credere a cose tra loro contrarie e pertanto contraddittorie, il che costituisce una delle più pericolose sovversioni (cfr. Ibn Taymiyya, Majmū‘at rasā’il wa-l-masā’il, Il Cairo s.d., vol. III, p. 81; cit. in Cirille Chodkiewicz, Les premieres polemiques autour d'Ibn ‘Arabī: Ibn Taymiyya (661-728 / 1262-1320), Tesi di Dottorato, Parigi IV 1982, pp. 70-123).
[15] Futūhāt, cap. 504, vol. IV, p. 142 r. 30.
[16] Ibid., cap. 558 (§ Nome al-Wadūd), vol. IV, p. 260 r. 28.
[17] Id., Kitāb al-Mawāqif, Damasco 1967, Mawqif 246, vol. II, p. 561.
[18] Ibid., Mawqif 236, vol. II, p. 531.
[19] www.masud.co.uk.
[20] P. 125.
[21] Tutti gli altri profeti precedenti, invece, erano stati inviati ad un popolo particolare; lo stesso Profeta ha precisato: «Ogni profeta è stato mandato esclusivamente al suo popolo (kāna kullu nabiyy yub‘athu ilā qawmihi khāatan), mentre io sono stato mandato a tutti indistintamente» (Muslim, Masājid, 3; Bukhārī, Tayammum, 1, ecc.). Anche Gesù non è stato mandato che al popolo d’Israele (cfr. Matteo, 10, 5-6; 15, 22-24); il Corano (61:6) non fa che confermare, su questo punto, quanto troviamo già nel Vangelo.
[22] «Con la sua Legge Iddio ha abrogato tutte le [precedenti] Leggi [rivelate]» (Futūhāt, cap. 10, vol. I, p. 135 r. 14).
[23] Ibid., vol. III, p. 153 r. 12 ss.
[24] Imaginal Worlds, cit., p. 125.
[25] Lungo tutto il corso della storia islamica, l'opinione prevalente ritiene che dopo la rivelazione coranica non vi sia alcuna giustificazione né validità nella pratica delle religioni precedenti, di fatto abrogate con la venuta del Profeta. Perfino versetti quali: «In verità coloro che credono, siano essi giudei, cristiani o sabei, tutti coloro che credono in Dio e nell'Ultimo Giorno e compiono il bene riceveranno il compenso presso il loro Signore. Non avranno nulla da temere e non saranno afflitti» (Cor. 2:62; cf. 5:69), sono immancabilmente interpretati dai mufassirūn exoterici in senso restrittivo: la validità e la salvezza sono assicurate soltanto a coloro che agivano in base alle relative rivelazioni in epoca precedente all'avvento dell'Islam. Per una visione d’insieme del problema del pluralismo religioso in ambito islamico si veda Muslim Perceptions of Other Religions, a cura di Jacques Waardenburg, New York – Oxford 1999; quanto alla prospettiva del sufismo sull’argomento vedere in particolare Carl-A. Keller, «Perceptions of Other Religions in Sufism», in Ibid., pp. 181-194, ed anche Eric Geoffroy, Le Pluralisme Religieux en Islam, nel sito: www.religioperennis.org/documents/geoffroy/interereligieux.pdf; nonché Id. «Il y a dans le Coran un pluralisme religieux», sul sito: oumma.com/Eric-Geoffroy-Il-y-a-dans-le-Coran.
[26] Futūhāt, cap. 339, vol. III, p. 153 r. 16.
[27] Futūhāt, vol. I, p. 222 r. 24 ss.
[28] ‘Ajlūnī, Kashf al-khafā’, vol. II, p. 129.
[29] Ibid.
[30] Ha detto il Profeta: «Tutto quello che è stato rivelato nei Libri celesti è contenuto nel Corano» (cit. da ‘Abd al-Karīm al-Jīlī, all’inizio del Al-Kahf wa-lraqīm, Il Cairo s.d., p. 13; Id., Un Commentaire esoterique de la Formule inaugurale du Coran, trad. a cura di J. Clément-Françoise, Beyrouth 1002, p. 169).
[31] Ibn Hanbal, Musnad, vol. VI, p. 188. Si tratta di quella “natura immensa” (khuluqin ‘azīm) (Cor. 68:4) che il Corano c'invita a prendere a modello (cfr. Cor. 33:21).
[32] Hadith trasmesso con diverse versioni: ūtītu [o ‘utītu] jawāmi‘ al-kalim (Muslim, Masājid 5-8; Ashriba 72; Bukhārī, Ta‘bīr 11; Tirmidhī, Sayr 5; Ibn Hanbal, Musnad, vol. II, p. 64) e bu‘ithtu bi-jawāmi‘ al-kalim (Bukhārī, Jihād 122, Ta‘bīr 22, I‘tiām 1; Nasā’ī, Jihād 1, Tatbīq 100); vedere anche ‘Ajlūnī, Kashf al-khafā’, vol. I, p. 263).
[33] Vedere ad es. Futūhāt, vol. I, pp. 71, 86, 98, 109, 110, 146; vol. II, pp. 50, 52, 58, 72, 87, 88, 107, 134, 171, 280, 356, 603; vol. III, pp. 142, 143, 153, 191, 280, 350, 398, 400, 413, 457, 524, 556; vol. IV, pp. 29, 155, 337, 442. La questione dell’universalità muhammadiana legata alla “Sintesi delle Parole”, vera raison d’être dell’abrogazione delle forme tradizionali anteriori al “Sigillo”, meriterebbe una trattazione a parte che ci proponiamo di svolgere in uno dei prossimi numeri di Perennia Verba.
[34] Ibid., cap. 73 vol. II, p. 134 r. 28; risp. 154 del Questionario.
[35] Ibid., p. 87 r. 18; risp. 74 del Questionario.
[36] Ibid., cap. 10; vol. I, p. 135 r. 5 ss..
[37] Cfr. Ibid., cap. 167, vol. II, p. 280 r. 2.
[38] Ibid., cap. 10, vol. I, p. 135 rr. 14 e 19. Il Profeta ha rafforzato questo concetto dicendo anche: «Se Mosè fosse vivo non potrebbe fare altro che seguirmi» (Ibn Hanbal, Musnad, vol. III, p. 387, spesso citato da Ibn ‘Arabī) e in più di un hadith si afferma che Gesù al tempo della sua seconda venuta non giudicherà che in base alla Legge sacra di Muhammad.
[39] Al-nabī al-haqīqī di cui parla Dāwūd al-Qaysarī (Cfr. Muqaddimāt [Matali‘ khusūs al-kalim], in Qayarī, Rasā’il, ed. a cura di M. Bayaqdar, Istanbul 1997, p. 85), nozione letteralmente equivalente a quella che ritroviamo nelle dottrine degli Ebioniti e dello Pseudo-Clemente (Recognitions, 1.16.1), ma anche, come già messo in luce da Michel Chodkiewicz (Le Sceau des saints, Parigi, 1986, cap. IV), al Logos spermatikos di Giustino.
[40] Futūhāt, cap. 337, vol. III, p. 142 r. 8; cfr. Ibid., cap. 12, vol. I, p. 144 r. 8.
[41] Cfr. Ibid., cap. 10, vol. I, p. 135 r. 20.
[42] Ibid., cap. 12, vol. I, p. 145 r. 20.
[43] Imaginal Worlds, cit., p. 179.
[44] Futūhāt, cap. 73, vol. II, p. 85 r. 11; risp. 67 del Questionario.
[45] Fusûs, ed. ‘Afîfî, p. 113
Nessun commento:
Posta un commento