Introduzione generale allo studio delle dottrine indù
II. I modi generali del pensiero orientale
6. Rapporti fra la metafisica e la teologia
La questione che ora vogliamo esaminare non si pone in Oriente, dal momento che manca il punto di vista propriamente religioso, a cui è naturalmente intrinseco il pensiero teologico; o almeno potrebbe porsi quasi solo per quel che concerne l’Islam, dove si tratterebbe piuttosto di chiarire i rapporti che devono intercorrere fra i suoi due aspetti essenziali, religioso ed extrareligioso, che si potrebbero appunto definire teologico e metafisico.
In Occidente, invece, è l’assenza del punto di vista metafisico a far sì che tale questione non abbia generalmente a porsi; essa ebbe di fatto ragione di sussistere soltanto con la dottrina scolastica che, appunto, fu contemporaneamente teologica e metafisica, benché la sua portata fosse, quanto all’aspetto metafisico, ristretta, come già abbiamo detto; non sembra però che una soluzione veramente precisa sia mai stata data. Tanto più interessante sarà trattare la questione in un modo affatto generale, e quel che essa implica è, in fondo, un confronto tra due differenti modi di pensiero, il pensiero metafisico puro e il pensiero specificamente religioso.
In Occidente, invece, è l’assenza del punto di vista metafisico a far sì che tale questione non abbia generalmente a porsi; essa ebbe di fatto ragione di sussistere soltanto con la dottrina scolastica che, appunto, fu contemporaneamente teologica e metafisica, benché la sua portata fosse, quanto all’aspetto metafisico, ristretta, come già abbiamo detto; non sembra però che una soluzione veramente precisa sia mai stata data. Tanto più interessante sarà trattare la questione in un modo affatto generale, e quel che essa implica è, in fondo, un confronto tra due differenti modi di pensiero, il pensiero metafisico puro e il pensiero specificamente religioso.
Il punto di vista metafisico, abbiamo detto, è il solo veramente universale, dunque illimitato; di conseguenza ogni altro punto di vista è più o meno specializzato e soggetto per sua natura a talune limitazioni. Abbiamo già mostrato che questo è il caso, in particolare, del punto di vista scientifico, e mostreremo inoltre che la stessa cosa vale per quegli altri che di solito si riuniscono sotto la denominazione comune e abbastanza vaga di filosofici e che peraltro non differiscono troppo profondamente da quello scientifico propriamente detto, quantunque sì presentino con pretese maggiori e del tutto ingiustificate. Ora, questa limitazione di fondo, la quale evidentemente può essere più o meno accentuata, è presente anche per il punto di vista teologico; detto in altri termini, è anch’esso specifico, sebbene, ovviamente, non al modo delle scienze, né entro confini che gli attribuiscono una portata così ristretta; ma proprio perché la teologia è in un certo senso più vicina alla metafisica di quanto non lo siano le scienze, diventa più arduo isolarla con nettezza ed è ancor più facile introdurre confusioni. Infatti, queste confusioni si sono immancabilmente verificate e fino a giungere a sovvertire i normali rapporti fra la metafisica e la teologia, giacché persino nel Medioevo, ovvero nell’unica epoca in cui la civiltà dell’Occidente ebbe uno sviluppo davvero intellettuale, accadde che la metafisica, del resto insufficientemente svincolata da diverse considerazioni di ordine soltanto filosofico, fosse concepita come dipendente dalla teologia; e se così poté essere, fu soltanto perché la metafisica, quale era intesa dalla dottrina scolastica, era rimasta incompleta; così, non si riuscì a capire pienamente il suo carattere di universalità – il quale implica l’assenza di qualsiasi limitazione –, poiché la si concepiva effettivamente solo entro certi confini, senza neppur sospettare che al di là di essi ci fosse una possibilità di concezione. Questo giustifica in parte l’errore che fu allora commesso, ed è certo che i Greci, in quanto fecero della vera metafisica, avrebbero potuto sbagliarsi esattamente nello stesso modo, se avessero posseduto qualcosa di corrispondente a quel che è la teologia nelle religioni giudaico-cristiane; questo si ricollega, in definitiva, alle precedenti osservazioni, cioè che gli occidentali, compresi quegli stessi che fino a un certo punto furono realmente metafisici, non conobbero mai la metafisica totale. Forse vi furono eccezioni individuali, dal momento che, come abbiamo già notato, niente si oppone in linea di principio a che vi siano, in tutti i tempi e in tutti i paesi, uomini che possano giungere alla conoscenza metafisica completa; e anzi ciò sarebbe ancora possibile persino nel mondo occidentale attuale, benché certo più difficile, a causa delle tendenze generali della mentalità che determinano, al riguardo, un ambiente quanto mai sfavorevole. Ad ogni modo è il caso di aggiungere che, se pure tali eccezioni sono esistite, non lasciarono testimonianze scritte, né tracce in ciò che è generalmente conosciuto, la qual cosa peraltro non prova nulla in senso negativo e non è neppure sorprendente, giacché, se casi del genere si sono effettivamente prodotti, fu soltanto in virtù di circostanze particolarissime, sulla natura delle quali non possiamo insistere qui.
Per tornare alla nostra questione, ricorderemo di avere già indicato la differenza più essenziale fra una dottrina metafisica e un dogma religioso: mentre il punto di vista metafisico è puramente intellettuale, il punto di vista religioso comporta, quale caratteristica di fondo, la presenza di un elemento sentimentale che influisce sulla dottrina stessa non consentendole di mantenere l’atteggiamento di una speculazione puramente disinteressata; così avviene, effettivamente, per la teologia, anche se in modo più o meno accentuato secondo che si consideri questa o quella delle diverse branche in cui essa si può scindere. In nessun’altra parte il carattere sentimentale è più accentuato che nella forma propriamente «mistica» del pensiero religioso; e in proposito diremo che, contrariamente a un’opinione perfino troppo diffusa, il misticismo, proprio perché inconcepibile al di fuori della prospettiva religiosa, è affatto sconosciuto in Oriente. Non scenderemo, in merito, in più ampi particolari perché ci porterebbero a trattazioni troppo estese; nella confusione così comune che abbiamo segnalato, e che consiste nel dare una interpretazione mistica a idee che non lo sono per nulla, si può vedere un ulteriore esempio della tendenza propria degli occidentali a voler trovare dovunque l’equivalente puro e semplice dei modi di pensiero che sono esclusivamente i loro.
Evidentemente l’influenza dell’elemento sentimentale intacca la purezza intellettuale della dottrina e tutto sommato segna, occorre dirlo, un decadimento rispetto al pensiero metafisico, decadimento che d’altronde, dove si è principalmente e generalmente prodotto, vale a dire nel mondo occidentale, era in qualche modo inevitabile e perfino necessario in un certo senso, se la dottrina doveva adattarsi alla mentalità degli uomini a cui si rivolgeva in modo specifico e in cui la sentimentalità predominava sull’intelligenza, predominio che ha raggiunto il suo culmine nei tempi moderni. Comunque sia, non è men vero che il sentimento è relatività e contingenza, e che una dottrina che ad esso si rivolga e sulla quale esso si rifletta non può essere a sua volta che relativa e contingente; e ciò può osservarsi in modo particolare nel bisogno di «consolazioni» al quale risponde, in larga misura, il punto di vista religioso. La verità in sé non ha da essere consolante; se tale qualcuno la trova, tanto meglio per lui, ma la consolazione che prova non viene dalla dottrina bensì da lui stesso e dalle particolari disposizioni della sua sentimentalità. Al contrario, una dottrina che si adatti alle esigenze dell’essere sentimentale, e che debba quindi assumere a sua volta una forma sentimentale, non può più identificarsi con la verità assoluta e totale; la profonda alterazione che in essa produce l’introduzione di un principio consolatore è correlativa a un indebolimento intellettuale della collettività umana a cui si rivolge. D’altra parte proprio da qui nasce la diversità fondamentale dei dogmi religiosi, la quale comporta la loro incompatibilità, perché mentre l’intelligenza è una, e la verità, nella misura in cui viene compresa, può esserlo in un solo modo, la sentimentalità è composita, e la religione che tende a soddisfarla dovrà cercare di adattarsi formalmente il meglio possibile ai suoi molteplici modi, che sono dissimili e variabili a seconda delle razze e delle epoche. Ciò non significa, del resto, che tutte le forme religiose subiscano in ugual misura, nella loro parte dottrinale, l’azione dissolvente del sentimentalismo, né la necessità di mutamento che ne consegue; il confronto tra cattolicesimo e protestantesimo, ad esempio, sarà particolarmente istruttivo in proposito.
Possiamo ora vedere come il punto di vista teologico non sia altro che una particolarizzazione del punto di vista metafisico, nella quale è implicita un’alterazione proporzionale; esso è, se si vuole, una sua applicazione a circostanze contingenti, un adattamento il cui modo è determinato dalla natura delle esigenze a cui deve rispondere, dal momento che queste esigenze specifiche sono, dopotutto, la sua unica ragion d’essere. Se ne deduce che ogni verità teologica potrà, mediante una trasposizione che la liberi della sua forma specifica, essere ricondotta alla verità metafisica corrispondente, della quale non è che una sorta di traduzione, senza che perciò vi sia equivalenza effettiva fra i due ordini di concezioni: è necessario ricordare qui quanto dicevamo più sopra, e cioè che tutto quel che può esser considerato da una prospettiva individuale, può esserlo parimenti da una prospettiva universale, senza che le due prospettive siano meno profondamente separate. Esaminando poi le cose in senso inverso, occorrerà dire che certe verità metafisiche, ma non tutte, possono essere tradotte in linguaggio teologico, giacché allora bisognerà tenere conto di tutto quello che, non potendo essere considerato da alcun punto di vista individuale, è di esclusiva competenza della metafisica: l’universale non può rientrare interamente in una prospettiva specifica, non più che in una qualsiasi forma, il che del resto è sostanzialmente la stessa cosa. Anche per quelle verità che tollerano la traduzione di cui si è detto, tale traduzione, al pari di ogni altra formulazione, sarà sempre per forza di cose incompleta e parziale, e quanto essa esclude dà precisamente la misura della distanza fra il punto di vista della teologia e quello della metafisica pura. Quanto diciamo potrebbe essere corredato da numerosi esempi, che tuttavia, per essere compresi, richiederebbero sviluppi dottrinali che è impensabile affrontare in questa sede: tale sarebbe, per limitarci a un caso tipico fra molti altri, un confronto tra la concezione metafisica della «liberazione» nella dottrina indù e la concezione teologica della «salvezza» nelle religioni occidentali, concezioni essenzialmente differenti, che solo l’incomprensione di taluni orientalisti ha tentato di rendere simili, in un modo del resto meramente verbale. Notiamo di sfuggita, poiché l’occasione se ne presenta, che i casi di questo genere devono servire anche a mettere in guardia contro un altro pericolo ben reale; se si dice a un indù, peraltro estraneo alle concezioni occidentali, che gli europei intendono per «salvezza» esattamente ciò che lui intende per moksha, egli non avrà certamente alcun motivo di contestare simile asserzione o di sospettarne l’inesattezza, e potrà accadergli in seguito, per lo meno finché non avrà migliori informazioni, di usare egli stesso la parola «salvezza» per designare una concezione che non ha nulla di teologico; vi sarà allora incomprensione reciproca, e la confusione diverrà ancor più inestricabile. Lo stesso si può dire delle confusioni che hanno luogo quando si assimila, non meno erroneamente, il punto di vista metafisico con i punti di vista filosofici occidentali: rammentiamo l’esempio di un musulmano il quale accettava senza opporsi, e con la massima naturalezza, la denominazione di «panteismo islamico» per la dottrina metafisica dell’«Identità suprema», ma che, quando gli fu spiegato che cosa fosse veramente il panteismo nel senso proprio della parola, particolarmente in Spinoza, respinse orripilato un appellativo simile.
Quanto al modo in cui può intendersi ciò che abbiamo chiamato traduzione delle verità metafisiche in linguaggio teologico, sceglieremo un solo esempio molto semplice ed elementare: la verità metafisica immediata, «l’Essere è», se si vuole esprimerla in modo religioso o teologico, darà origine a quest’altra proposizione: «Dio esiste», che le equivarrà strettamente solo alla duplice condizione di concepire Dio come l’Essere universale (il che è lungi dall’avvenire sempre effettivamente) e d’identificare l’esistenza con l’essere puro (il che è metafisicamente inesatto). Indubbiamente questo esempio, per la eccessiva semplicità, non corrisponde del tutto a ciò che vi può essere di più profondo nelle concezioni teologiche; così com’è tuttavia non ha minore interesse, perché è precisamente dalla confusione tra ciò che le due formule suddette implicano rispettivamente, confusione che procede da quella dei due punti di vista corrispondenti, è da qui, dicevamo, che discesero le controversie interminabili sul famoso «argomento ontologico», il quale è già esso stesso un prodotto di tale confusione. Un altro punto importante a cui possiamo subito accennare a proposito di questo stesso esempio è che le concezioni teologiche, non essendo al riparo dalle influenze individuali come invece lo sono le concezioni metafisiche pure, possono variare da un individuo all’altro e in funzione di come varia la più fondamentale di esse, cioè la concezione stessa della Divinità: coloro che discutono su argomenti quali le «prove dell’esistenza di Dio» dovrebbero prima, per potersi capire, assicurarsi che con la medesima parola «Dio» vogliono esprimere un’identica concezione; si accorgerebbero allora che le cose non stanno affatto così, talché non hanno più probabilità di trovarsi d’accordo di quante ne avrebbero se parlassero lingue differenti. Soprattutto qui, nell’ambito delle variazioni individuali di cui la teologia ufficiale e dotta non può in alcun modo essere tenuta responsabile, si manifesta una tendenza eminentemente antimetafisica che è pressoché generale fra gli occidentali e che costituisce propriamente l’antropomorfismo; ma ciò richiede spiegazioni complementari, le quali ci permetteranno di esaminare un altro aspetto della questione.
Nessun commento:
Posta un commento