Ramana
Maharshi. Un
saggio dell’età dell’oro
Premessa
«Sono nato a
Tiruchuzi (Tirucculi), un villaggio del distretto Ramnad, il 30 dicembre del
1879. Sotto ispirazione Divina ho lasciato, per il bene, la mia casa nativa
all’età di diciassette anni alla ricerca di Arunachala e giunsi a
Tiruvannamalai nel 1896 (The Maharshi The Matter of a will maggio/giugno
1993)». Così si apre il testamento di uno dei più grandi Maestri dell’india moderna.
Sedere accanto a questo Maestro, qualcuno ha scritto, portava alla consapevolezza che noi non siamo pienamente uomini, in quanto l’umanità si realizza nella sua pienezza proprio quando, come nel suo caso, la natura umana diventa segno e tempio della Perfezione spirituale.
Sedere accanto a questo Maestro, qualcuno ha scritto, portava alla consapevolezza che noi non siamo pienamente uomini, in quanto l’umanità si realizza nella sua pienezza proprio quando, come nel suo caso, la natura umana diventa segno e tempio della Perfezione spirituale.
Ramana viene
detto «tracciatore di sentieri». La Ghita dice che
l’umanità non viene mai lasciata orfana e che sempre il Mistero supremo trova
un vaso mediante cui risuonare in modo intelligibile alle orecchie ben disposte
all’ascolto. Ramana è uno di questi centri di risonanza che, in epoca moderna,
ha indicato una via diretta alla realizzazione basata non solo sulla sua
personale esperienza della Realtà suprema ma anche sulla eccezionalità
di tale esperienza che si presento a lui non cercata, non voluta.
«Fu all’incirca sei settimane prima di lasciare per sempre
Madura che avvenne il grande cambiamento nella mia vita. Fu all’improvviso. Sedevo tutto solo in una camera al primo piano della casa di
mio zio. Era raro che mi ammalassi, e quel giorno la mia salute era perfetta,
ma all’improvviso fui colto da una violenta paura della morte, Non c’era nulla
nel mio stato di salute che potesse giustificarla, e non cercai di spiegarla né
di scoprire se ce ne fosse un qualche motivo. Sentì solo: “Sto per morire” e
cominciai a pensare al da farsi. Non mi venne in mente
di consultare un dottore o i miei familiari o i miei amici; sentì che dovevo risolvere il problema da me, e subito.
Lo shock della
paura della morte spinse la mia mente verso l’interno e dissi fra me, senza
formulare effettivamente le parole: “Ecco è venuta la morte; ma cosa significa? Che cos’è che sta morendo? Il corpo muore”. E subito rappresentai la scena della mia
morte. Mi adagiai con le membra rigidamente stese, come se fosse cominciato il rigor
mortis, e imitai un cadavere per dare maggiore consistenza alla ricerca.
Trattenni il respiro e tenni le labbra serrate, perché non potesse sfuggirne
alcun suono, perché non potesse essere pronunciata né
la parola «io» né alcun’altra parola. “Bene”, dissi fra me,
“questo corpo è morto. Sarà portato al campo crematorio e là bruciato e
ridotto in cenere. Ma con la morte di questo corpo io
sono morto? Il corpo è io? È silenzioso e inerte, ma io sento tutta la forza
della mia personalità e perfino la voce di quell’«io»
dentro di me, indipendentemente da esso. Così, io sono lo Spirito che trascende
il corpo. Il corpo muore, ma lo Spirito che lo trascende non può essere toccato
dalla morte. Ciò significa che io sono lo Spirito immortale”. Tutto questo non
era uno smorto pensiero; lampeggiava vivido in me come viva verità che
percepivo direttamente, quasi al di là del processo di
pensiero. «Io» era qualcosa di molto reale, la sola cosa reale
in quel mio stato, e tutta l’attività conscia associata al mio corpo era
incentrata in quell’«io». Da quel momento in poi l’«io» o Sé concentrò
l’attenzione su sé stesso in maniera potente e
affascinante. La paura della morte era svanita una volta per
tutte. Da allora in poi l’assorbimento nel Sé continuò ininterrottamente
(pag. 9 Ramana Maharshi Gli insegnamenti Astrolabio
1976».
Ramana
colse fin dalla prima giovinezza il frutto più elevato dello yoga,
la diretta conoscenza (jnana) del Sé senza una preliminare sadhana realizzativa,
senza aver ricevuto un’iniziazione, un insegnamento. Successivamente
quando incontrò la dottrina vedantica trovo che essa descriveva la sua
esperienza.
«Non avevo letto nessun libro eccetto il Periapuranam,
la Bibbia e brani del Tayumanavar o Teravam. Il mio concetto di
Ishvara era simile a quello trovato nei Purana; non avevo mai sentito parlare
di Brahman, samsara, ecc. Non sapevo ancora che c’è una
Essenza o Reale impersonale alla base di tutte le cose e che Ishvara e
io siamo identici a essa. Più tardi, a Tiruvannamalai, quando ascoltai la Ribhu
Gita e altri libri sacri, appresi tutto ciò e trovai
che i libri analizzavanoe denominavano ciò che io avevo sentito intuitivamente
senza analisi né nomi (pag 12 Ramana Maharshi Gli insegnamenti Astrolabio
1976».
La
sperimentazione della Realtà in un modo così totalmente al di fuori
dell’intermediazione di una catena di insegnamento, il
riconoscimento di Ramana che la tradizione sacra parlava della sua identità più
essenziale e Vera, il riconoscimento da parte dei rappresentanti della
tradizione indiana dell’esperienza di Ramana come la loro propria esperienza,
dimostra che la Tradizione non può essere racchiusa in circoli privati che
detengono le chiavi delle porte che ad Essa conducono. Dimostra che Essa è
sempre attuale seppur silente e che, pur in assenza di una linea di
trasmissione lungo l’asse del tempo, essa può palesarsi in ogni istante della
storia. Questa, forse, è la «novità» più importante
della testimonianza di Ramana. In un epoca come la
nostra in cui è facile avere, rispetto al passato, notizie sui maestri e sulle
loro dottrine ma arduo avere l’accesso a un maestro e a una catena di
insegnamento tradizionale, l’insegnamento di Ramana offre un approccio alla
Realtà che fa a meno di riti, maestri, iniziazione ecc. E la bontà e sincerità
di questo approccio è basata sulla autorità di chi ha
conseguito la vetta della realizzazione spirituale senza aver avuto appunto un
maestro, senza aver ricevuto l’iniziazione, senza aver ricevuto un
insegnamento.
Osborne
riprende una considerazione del Tantra e scrive questo proposito:
«Fu quindi un nuovo e integrale sentiero che il Maharshi
aprì a coloro che si rivolgono a lui. L’antico sentiero della ricerca del Sé
era puro jnana-marga, che poteva essere seguito in silenziosa
meditazione dall’eremita, e in più era stato considerato dai
Saggi inadatto a questo kali-yuga, questa età
spiritualmente oscura in cui viviamo. Ciò che Bhagavan fece non fu tanto
ripristinare il vecchio sentiero quanto crearne uno
nuovo adatto alle condizioni della nostra età, un sentiero che può essere
seguito in città o in casa non meno che in una foresta o in un romitaggio, con
un periodo di meditazione ogni giorno e il costante ricordo durante le attività
della giornata, con o senza il sussidio di osservanze esterne (pag 12 Ramana
Maharshi Opere)».
Ho
detto che Ramana riconobbe il vedanta come una descrizione di quello che aveva
sperimentato, alcuni devoti di Ramana reputano che egli in un certo modo non
collimi perfettamente con l’Advaita Vedanta, che si sia allontanato in una
certa misura da Shankara. A una domanda del
celebre orientalista Oliver Lacombe se il suo insegnamento fosse quello di Shankara rispose:
«L’insegnamento del Maharshi è solo un’espressione
della sua esperienza e della sua realizzazione. Altri ritengono che collimi con
quello di Sri Shankara».
Ma la figura del Maharishi non può venire compresa e né può venire compresa la devozione e la venerazione dei
suoi discepoli verso di lui se lo si considera solo un maestro spirituale, un
istruttore. In lui la saggezza era solo un aspetto che trapassava senza
soluzione di continuità nella santità.
Noi parliamo in queste pagine dei fatti terreni della
vita di Ramana per avere una cornice in cui incastonare l’essenziale del suo
insegnamento spirituale così come ci è stato tramandato dalla sua bocca agli
orecchi dei suoi devoti che ne hanno trascritto le
parole e che, non di rado, venivano rivisti anche dallo stesso Ramana. Ma questo è solo il guscio esteriore, transitorio di ciò che
Ramana è.
Il vero Ramana, ciò che incuteva una tale profonda
devozione e dedizione alla sua figura, non era quel corpo di carne ma ciò che
abitava in quel corpo di carne. La Presenza divina che in quel corpo aveva stabilito
dimora e si irradiava nello spazio circostante portava
i suoi devoti a credere che bastasse il semplice sedere accanto a lui per
approdare al porto della liberazione. Vicino a lui i suoi devoti più stretti venivano portati da una mano possente e silenziosa ad
immergersi nel samadhi con una straordinaria semplicità. La fama della
sua santità era tale che alcuni gli scrivevano delle cartoline solo per dirgli
di quale afflizione soffrivano, reputando essi bastevole che se la cartolina
fosse stata portata alla sua attenzione il loro affanno potesse dileguarsi.
A Ramana si sono approcciati potenti, Raja e Maharani,
grandi dotti dell’oriente e dell’occidente, alcuni suoi discepoli erano maestri
e avevano al loro seguito numerosi discepoli. A lui si è approcciata gente di infima casta, paria, davanti a lui è passata una folla
immensa di umanità che voleva potergli dare anche solo uno sguardo. Non solo
uomini, ma anche animali, mucche, volpi, scoiattoli si sono approcciati a
Ramana e Lui mediante il semplice essere sé stesso ha
dato un insegnamento spirituale, addirittura nel caso della mucca Lakshmi prima
il samadhi e infine la liberazione.
Ramana è una figura dell’india moderna,
abbiamo di lui foto, film, le registrazioni dei suoi discorsi, gli inni di lode
al sacro monte di Aruna, le istruzioni che ha dato ai discepoli, i ricordi dei discepoli. Ramana fa parte della storia ma nel contempo la sua figura è quella di un fondatore, una di
quelle figure di cui il mito ci tramanda il ricordo che hanno dato origine,
nella notte dei tempi, in quella zona ombrosa che precede la storia, le terre
del mito, a una civiltà, a una tradizione cultuale, religiosa.
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