Introduzione generale allo studio delle dottrine indù
II. I modi generali del pensiero orientale
5. Caratteri essenziali della metafisica
Mentre il punto di vista religioso implica essenzialmente l’intervento di un elemento di ordine sentimentale, il punto di vista metafisico è esclusivamente intellettuale; ma questo, quantunque abbia per noi un significato nettissimo, a molti potrebbe sembrare che non caratterizzi sufficientemente il punto di vista in questione, poco familiare agli occidentali, se non ci dessimo la pena di precisarlo ulteriormente.
Anche la scienza e la filosofia, infatti, quali esistono nel mondo occidentale, hanno pretese di intellettualità; se neghiamo che queste pretese siano fondate e affermiamo che esiste una differenza delle più profonde tra tutte le speculazioni di questo genere e la metafisica, è perché l’intellettualità pura, nel senso in cui noi la consideriamo, è tutt’altra cosa da quel che di solito s’intende, in modo più o meno vago, con tale parola.
Anche la scienza e la filosofia, infatti, quali esistono nel mondo occidentale, hanno pretese di intellettualità; se neghiamo che queste pretese siano fondate e affermiamo che esiste una differenza delle più profonde tra tutte le speculazioni di questo genere e la metafisica, è perché l’intellettualità pura, nel senso in cui noi la consideriamo, è tutt’altra cosa da quel che di solito s’intende, in modo più o meno vago, con tale parola.
Dobbiamo dire subito che quando usiamo il termine «metafisica», come facciamo, poco ci importa la sua origine storica, che è alquanto dubbia e che sarebbe puramente fortuita se si dovesse ammettere l’opinione, peraltro poco verosimile ai nostri occhi, secondo la quale avrebbe designato, in principio, semplicemente ciò che veniva «dopo la fisica» nella raccolta delle opere di Aristotele. Né dobbiamo curarci delle accezioni diverse e più o meno abusive che taluni hanno creduto bene di attribuire alla parola nel corso del tempo; questi non sono motivi sufficienti a indurci ad abbandonarla perché, così com’è, essa è troppo adatta a quel che normalmente deve designare, almeno per quanto può esserlo un termine desunto dalle lingue occidentali. In effetti, il suo significato più naturale, anche etimologicamente, è quello secondo cui designa ciò che è «al di là della fisica», intendendo per «fisica», come sempre facevano gli antichi, l’insieme di tutte le scienze della natura, considerato in una maniera del tutto generale, e non semplicemente una di queste scienze in particolare, secondo l’accezione ristretta che è propria dei moderni. Questa è dunque la nostra interpretazione del termine «metafisica», e sia detto una volta per tutte che se ci teniamo è unicamente per la ragione or ora indicata e perché pensiamo che è sempre disdicevole ricorrere a neologismi se non in casi di assoluta necessità.
Diremo ora che la metafisica, così intesa, è essenzialmente la conoscenza dell’universale, o, se si vuole, dei principi di ordine universale, che del resto sono gli unici a cui convenga propriamente il nome di principi; ma non vogliamo dare con ciò una vera e propria definizione della metafisica, cosa che, a rigore, è impossibile proprio a causa di questa stessa universalità che consideriamo il primo dei suoi caratteri, quello da cui tutti gli altri discendono. In realtà non è definibile se non ciò che è limitato, e la metafisica è al contrario, nella sua essenza stessa, assolutamente illimitata, ciò che non permette evidentemente di racchiuderne la nozione in una formula più o meno stretta; in questo caso una definizione sarebbe tanto più inesatta quanto più ci si sforzasse di renderla precisa.
È importante osservare che abbiamo detto conoscenza e non scienza; vogliamo con ciò sottolineare la distinzione profonda che bisogna necessariamente stabilire tra la metafisica da un lato e, dall’altro, le differenti scienze nel senso proprio della parola, vale a dire tutte le scienze particolari e specializzate che hanno come oggetto di indagine un certo aspetto delle cose individuali. Questa è dunque, in fondo, la distinzione stessa tra l’universale e l’individuale, distinzione che non deve essere intesa come un’opposizione, perché tra i suoi due termini non esiste misura comune né alcuna relazione di simmetria o di possibile coordinazione. D’altronde, tra la metafisica e le scienze non può sussistere opposizione o conflitto di sorta, precisamente perché i loro ambiti rispettivi sono profondamente separati; ed esattamente lo stesso avviene, del resto, in rapporto alla religione. Tuttavia è opportuno capire bene che detta separazione non si riferisce tanto alle cose in sé quanto ai punti di vista da cui noi consideriamo le cose; e ciò è particolarmente importante per quanto diremo più specificamente sul modo in cui devono essere concepiti i reciproci rapporti dei diversi rami della dottrina indù. È facile rendersi conto che uno stesso oggetto può essere studiato da differenti scienze sotto aspetti diversi; allo stesso modo, tutto quanto consideriamo da certi punti di vista individuali e specifici può essere, per mezzo di una trasposizione adeguata, considerato anche dal punto di vista universale – che non è d’altronde un punto di vista specifico – allo stesso modo in cui può esserlo quanto non è suscettibile di essere inteso in modo individuale. Così si può dire che il dominio della metafisica comprende tutto, il che è necessario perché essa sia veramente universale, come deve esserlo essenzialmente; e i domini propri alle differenti scienze non restano per ciò meno distinti da quello della metafisica, dal momento che quest’ultima, non ponendosi sullo stesso terreno delle scienze particolari, in nessun modo può essere un loro analogo, sicché non potrà mai darsi che si stabilisca alcuna comparazione tra i risultati dell’una e quelli delle altre. Del resto il dominio della metafisica non è per nulla, come pensano alcuni filosofi che al riguardo sono piuttosto ottusi, quello che le diverse scienze lasciano da parte perché il loro sviluppo attuale è più o meno incompleto, ma piuttosto quello che, per sua stessa natura, sfugge a queste scienze e supera di gran lunga la portata a cui possono legittimamente pretendere. Il dominio di ogni scienza è sempre circoscritto dall’esperienza, in una qualunque delle sue diverse modalità, mentre il dominio della metafisica è costituito essenzialmente da ciò per cui non può esserci esperienza possibile: essendo «al di là della fisica», siamo anche, e proprio per questa ragione, al di là dell’esperienza. Di conseguenza l’ambito di ogni scienza particolare può estendersi indefinitamente, se ne è suscettibile, senza mai giungere ad avere il sia pur minimo punto di contatto con quello della metafisica.
Consegue immediatamente da quanto precede che parlando dell’oggetto della metafisica non si deve pensare a qualcosa di più o meno analogo all’oggetto particolare di una certa scienza. Consegue anche che tale oggetto deve essere sempre assolutamente lo stesso, che non può in alcun modo essere qualcosa di mutevole e soggiacente alle influenze di tempo e di luogo; il contingente, l’accidentale, il variabile appartengono in proprio all’ambito dell’individuale; sono anzi dei caratteri che condizionano necessariamente le cose individuali in quanto tali, o, per esprimersi con più rigore, l’aspetto individuale delle cose nelle sue molteplici modalità. Quindi, quando si tratta di metafisica, con il tempo e il luogo possono cambiare solo i modi di esposizione, vale a dire le forme più o meno esteriori che la metafisica può assumere e che sono suscettibili di adattamenti diversi, e anche, evidentemente, lo stato di conoscenza o d’ignoranza degli uomini, o per lo meno della maggioranza di loro nei confronti della vera metafisica; ma essa resta sempre, in fondo, perfettamente identica a se stessa, il suo oggetto essendo essenzialmente uno, o più esattamente «senza dualità» come dicono gli Indù, e questo oggetto, sempre per il suo essere «al di là della natura», è anche al di là del cambiamento: è quel che gli Arabi esprimono dicendo che «la dottrina dell’Unità è unica». Inoltrandoci nell’ordine delle conseguenze, possiamo aggiungere che in metafisica non è assolutamente possibile fare scoperte, perché, trattandosi di un modo di conoscenza che non ricorre all’uso di mezzi speciali ed esteriori di investigazione, tutto ciò che è suscettibile di essere conosciuto può esserlo stato in ugual modo da uomini diversi in tutte le epoche; ed è ciò che risulta effettivamente da un esame approfondito delle dottrine metafisiche tradizionali. D’altronde, quand’anche si ammettesse che le idee di evoluzione e di progresso possano avere un qualche valore relativo in biologia e in sociologia, la qual cosa è lungi dall’esser provata, non sarebbe meno certo che esse non hanno alcuna applicazione possibile alla metafisica; è così che queste idee sono del tutto estranee agli orientali, come del resto lo furono, fin verso la fine del secolo XVIII, agli stessi occidentali che oggi le reputano elementi essenziali dello spirito umano. Ciò implica, lo si noti bene, la condanna formale di ogni tentativo di applicare il «metodo storico» a quanto sia di ordine metafisico: lo stesso punto di vista metafisico si oppone in modo radicale al punto di vista storico, o sedicente tale, e in questa opposizione bisogna vedere non soltanto una questione di metodo, ma anche e soprattutto, il che è molto più grave, una vera questione di principio, poiché il punto di vista metafisico, nella sua immutabilità essenziale, è la negazione stessa delle idee di evoluzione e di progresso; si potrebbe perciò dire che la metafisica non si può studiare che metafisicamente. Non bisogna qui tenere conto di contingenze quali possono essere le influenze individuali, che, a rigore, non esistono in questo ambito e non possono esercitarsi sulla dottrina perché essa, essendo di ordine universale, dunque essenzialmente sovraindividuale, sfugge per forza di cose alla loro azione; anche le circostanze di tempo e luogo, lo ribadiamo, possono influire soltanto sull’espressione esteriore, e niente affatto sull’essenza stessa della dottrina; e infine, in metafisica, non si tratta per nulla, come invece nell’ordine del relativo e del contingente, di «credenze» o di «opinioni» più o meno variabili e mutevoli in quanto più o meno dubbie, ma esclusivamente di certezza permanente e immutabile.
In effetti, per il fatto stesso che la metafisica non partecipa minimamente della relatività delle scienze, deve implicare, quale carattere intrinseco, la certezza assoluta, e ciò vale anzitutto per il suo oggetto, ma anche per il suo metodo, se tale parola può applicarsi qui, perché altrimenti tale metodo, o comunque si voglia chiamarlo, non sarebbe adeguato all’oggetto. La metafisica esclude quindi necessariamente qualsiasi concezione di carattere ipotetico, donde risulta che le verità metafisiche, in se stesse, hanno un’assoluta incontestabilità; di conseguenza, se talvolta può esserci discussione e controversia, sarà sempre e soltanto per effetto di una esposizione difettosa o di una comprensione imperfetta di tali verità. D’altra parte, ogni possibile esposizione è qui necessariamente difettosa, perché le concezioni metafisiche, per la loro natura universale, non sono mai del tutto esprimibili, e neppure immaginabili, non potendo essere raggiunte nella loro essenza che dall’intelligenza pura e «informale»; esse oltrepassano immensamente tutte le forme possibili e in particolare le formule in cui il linguaggio vorrebbe chiuderle, formule sempre inadeguate che tendono a restringerle e perciò a snaturarle. Queste formule, come tutti i simboli, possono servire solo come punto di partenza, come «supporto» per così dire, per aiutare a concepire ciò che in sé rimane inesprimibile, ed è compito di ciascuno sforzarsi di concepirlo effettivamente a misura della propria capacità intellettuale, supplendo in tal modo, in questa stessa misura, alle fatali imperfezioni dell’espressione formale e limitata; è del resto evidente che tali imperfezioni raggiungeranno il loro massimo quando l’espressione dovrà avvenire in lingue che, come quelle europee, soprattutto moderne, sembrano quanto mai refrattarie all’esposizione delle verità metafisiche. Come appunto dicevamo più sopra a proposito delle difficoltà di traduzione e adattamento, la metafisica, in quanto si apre su possibilità illimitate, deve sempre riservarsi la parte dell’inesprimibile, che in fondo è anche per lei del tutto essenziale.
Questa conoscenza di ordine universale deve porsi al di là di tutte le distinzioni che condizionano la conoscenza delle cose individuali, e delle quali il tipo generale e fondamentale è la distinzione fra soggetto e oggetto; ciò mostra una volta di più che l’oggetto della metafisica non è assolutamente paragonabile all’oggetto specifico di qualsiasi altro genere di conoscenza, e che non può neppure essere chiamato oggetto se non in un senso puramente analogico, perché per poterne parlare bisogna pur attribuirgli una qualche denominazione. Allo stesso modo, se si vuol parlare del mezzo della conoscenza metafisica, esso non potrà che costituire un tutt’uno con la conoscenza stessa, dove soggetto e oggetto sono unificati in modo essenziale; come dire che tale mezzo, seppure è lecito chiamarlo così, non può esser nulla di simile all’esercizio di una facoltà discorsiva quale è la ragione umana individuale. Si tratta, come dicevamo, dell’ordine sovraindividuale e, di conseguenza, sovrarazionale, che non significa affatto irrazionale: la metafisica non può opporsi alla ragione, piuttosto è al di sopra della ragione, che lì può intervenire solo in modo del tutto secondario per la formulazione e l’espressione esteriore di quelle verità che vanno di là dalla sua sfera e dalla sua portata. Le verità metafisiche possono essere concepite unicamente da una facoltà che non è più dell’ordine individuale e che si può definire intuitiva per il carattere immediato della sua operazione, purché, beninteso, si aggiunga che non ha assolutamente niente in comune con ciò che certi filosofi contemporanei chiamano intuizione, facoltà soltanto sensitiva e vitale, che è propriamente al di sotto, e non più al di sopra, della ragione. Occorre dunque dire, per maggior precisione, che la facoltà di cui stiamo parlando è l’intuizione intellettuale, di cui la filosofia moderna ha negato l’esistenza perché non la capiva, quando non preferì ignorarla puramente e semplicemente; si può ancora designarla col nome di intelletto puro, seguendo l’esempio di Aristotele e dei suoi continuatori scolastici, per i quali infatti l’intelletto è ciò che possiede immediatamente la conoscenza dei principi. Aristotele dichiara espressamente[1] che «l’intelletto è più vero della scienza», vale a dire, in definitiva, della ragione che costruisce la scienza, ma che «nulla è più vero dell’intelletto», il quale è necessariamente infallibile proprio perché la sua operazione è immediata e perché, non essendo realmente distinto dal proprio oggetto, si confonde con la verità stessa. Tale è il fondamento essenziale della certezza metafisica; e da questo si vede che l’errore può introdursi soltanto con l’uso della ragione, vale a dire nella formulazione delle verità concepite dall’intelletto, e ciò perché la ragione è evidentemente fallibile a causa del suo carattere discorsivo e mediato. D’altronde, ogni espressione essendo necessariamente imperfetta e limitata, l’errore, nella forma se non nella sostanza, vi è inevitabile: per quanto rigorosa si voglia rendere l’espressione, quel che essa esclude è sempre molto più di quel che può includere; ma un errore del genere può non avere nulla di positivo in quanto tale, e tutto sommato essere solo una verità minore che risiede unicamente in una formulazione parziale e incompleta della verità totale.
Ci si può ora rendere conto di quale sia, nel suo significato più profondo, la distinzione tra conoscenza metafisica e conoscenza scientifica: la prima dipende dall’intelletto puro, il cui dominio è l’universale; la seconda dipende dalla ragione, il cui dominio è il generale, in quanto, come ha detto Aristotele, «non vi è scienza se non del generale». Non bisogna dunque confondere l’universale e il generale come troppe volte fanno i logici occidentali, i quali non si innalzano mai realmente al di sopra del generale neppure quando gli attribuiscono indebitamente il nome di universale. Abbiamo detto che il punto di vista delle scienze è di ordine individuale; infatti il generale non si oppone all’individuale, ma soltanto al particolare, ed anzi altro non è che un’estensione dell’individuale; ma l’individuale può estendersi anche indefinitamente senza perciò perdere la sua natura e travalicare le proprie condizioni restrittive e limitative; e per questo affermiamo che la scienza potrebbe estendersi indefinitamente senza mai raggiungere la metafisica, dalla quale rimarrà sempre separata nel modo più profondo, perché solo la metafisica è la conoscenza dell’universale.
Pensiamo di aver caratterizzato a sufficienza la metafisica; molto di più non potremmo dire senza entrare nell’esposizione della dottrina vera e propria, che qui sarebbe fuori luogo; d’altronde questi dati saranno completati nei capitoli che seguiranno, e in particolare quando parleremo della distinzione tra la metafisica e ciò che nell’Occidente moderno viene generalmente chiamato col nome di filosofia. Tutto quanto abbiamo detto si applica, senza alcuna restrizione, a una qualunque delle dottrine tradizionali dell’Oriente, nonostante le grandi differenze di forma che possono nascondere l’identità di fondo a un osservatore superficiale: tale concezione della metafisica è vera per il taoismo, per la dottrina indù e anche per l’aspetto profondo ed extrareligioso dell’islamismo. Esiste qualcosa di simile nel mondo occidentale? Se si esamina solo ciò che esiste attualmente, si potrebbe sicuramente dare a questa domanda una risposta negativa, perché ciò che il pensiero filosofico moderno si compiace talvolta di abbellire col nome di metafisica non corrisponde in alcun modo alla concezione che abbiamo esposto; ritorneremo comunque su questo punto. Tuttavia quanto abbiamo detto su Aristotele e sulla dottrina scolastica mostra che vi fu, se non la metafisica totale, almeno della metafisica in una certa misura; e nonostante questa riserva necessaria, si trattò di qualcosa di cui la mentalità moderna non offre più il minimo equivalente, e la cui comprensione le sembra preclusa. D’altra parte, se la riserva che abbiamo or ora fatto si impone, è perché esistono, come dicevamo in precedenza, delle limitazioni che sembrano davvero inerenti a tutta l’intellettualità occidentale, almeno a partire dall’antichità classica; e a questo proposito abbiamo notato come i Greci non avessero punto l’idea di Infinito. Del resto, perché mai gli occidentali moderni, quando credono di pensare all’Infinito, si rappresentano quasi sempre uno spazio, il quale non può essere che indefinito, e perché confondono immancabilmente l’eternità, che risiede essenzialmente nel «non tempo», se così possiamo esprimerci, con la perpetuità, che non è se non un’estensione indefinita del tempo, mentre in simili confusioni non incorrono mai gli orientali? Il fatto è che la mentalità occidentale, volta quasi esclusivamente alle cose sensibili, fa costante confusione tra concepire e immaginare, al punto che ciò che non è suscettibile di rappresentazione sensibile le pare veramente impensabile; e già presso i Greci le facoltà immaginative erano soverchianti. Le quali, evidentemente, sono l’esatto opposto del pensiero puro; così stando le cose, non può esserci intellettualità nel vero senso della parola, né, di conseguenza, metafisica. Se a queste considerazioni si aggiunge poi l’altra confusione abituale tra razionale e intellettuale, non si tarderà ad accorgersi che la pretesa intellettualità occidentale non è in realtà, soprattutto nei moderni, che l’esercizio di quelle facoltà meramente individuali e formali che sono la ragione e l’immaginazione; e si capirà allora tutto ciò che la separa dall’intellettualità orientale, per la quale non c’è conoscenza vera e valida se non quella che ha le proprie radici profonde nell’universale e nell’informale.
[1] Analitici secondi, II.
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