"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

mercoledì 13 maggio 2015

René Guénon, Introduzione generale allo studio delle dottrine indù - II. I modi generali del pensiero orientale - 8. Pensiero metafisico e pensiero filosofico

René Guénon
Introduzione generale allo studio delle dottrine indù

II. I modi generali del pensiero orientale
8. Pensiero metafisico e pensiero filosofico

Abbiamo detto che la metafisica, che è profondamente separata dalla scienza, non lo è meno da tutto ciò che gli occidentali, e soprattutto i moderni, designano col nome di filosofia, sotto il quale si trovano del resto riuniti elementi molto eterogenei se non addirittura discordi.
Poco importa qui l’intenzione prima che i Greci possono aver voluto racchiudere nella parola filosofia, la quale agli inizi sembra avere compreso per loro, in un modo abbastanza indistinto, ogni conoscenza umana, nei limiti in cui erano in grado di concepirla; noi intendiamo occuparci esclusivamente di ciò che sotto questa denominazione esiste attualmente di fatto.
Tuttavia è utile far notare prima di tutto che quando vi fu in Occidente una metafisica vera, si cercò sempre di associarla a considerazioni che dipendevano da punti di vista specifici e contingenti, affinché confluisse con queste in un insieme designato col nome di filosofia; ciò dimostra che i caratteri essenziali della metafisica, con le distinzioni profonde che essi implicano, non furono mai isolati con sufficiente chiarezza. Diremo di più: il fatto di considerare la metafisica un ramo della filosofia, sia ponendola sullo stesso piano di altre relatività, sia anzi definendola, come faceva Aristotele, «filosofia prima», rivela un disconoscimento della sua vera portata e del suo carattere di universalità: il tutto assoluto non può essere una parte di qualcosa, e l’universale non può essere racchiuso o compreso in checchessia. Già solo questo fatto è dunque un segno evidente del carattere incompleto della metafisica occidentale, la quale in fondo si riduce alla sola dottrina di Aristotele e degli scolastici, giacché, escluse le poche considerazioni frammentarie che si possono trovare sparse qua e là, o cose che non sono conosciute in modo sufficientemente sicuro, non si incontra in Occidente, per lo meno a partire dall’antichità classica, nessun’altra dottrina veramente metafisica, sia pure con le restrizioni imposte dalla mescolanza di elementi contingenti, scientifici, teologici o di altra natura; non parleremo degli alessandrini su cui agirono direttamente influenze orientali.
Se consideriamo la filosofia moderna nel suo insieme possiamo dire, in linea generale, che il suo punto di vista non presenta alcuna differenza davvero essenziale rispetto a quello della scienza: è sempre un punto di vista razionale, o almeno che si vuole tale, e ogni conoscenza che si mantiene nell’ambito della ragione, la si definisca filosofica o meno, è una conoscenza di ordine propriamente scientifico; se mira ad essere qualcos’altro, essa perde di conseguenza ogni valore sia pure relativo, attribuendosi una portata che non può legittimamente avere: è quel che noi chiameremo pseudo-metafisica. D’altronde la distinzione tra sfera filosofica e sfera scientifica è ancor meno giustificata, in quanto la prima comprende tra i suoi molteplici elementi certe scienze che sono specifiche e ristrette quanto le altre, senza alcun carattere che possa differenziarle tanto da accordare loro una posizione privilegiata; scienze simili, come la psicologia o la sociologia per esempio, vengono chiamate filosofiche esclusivamente per effetto di un’abitudine che non si fonda su alcuna ragione logica; e la filosofia ha, tutto sommato, un’unità prettamente fittizia, storica se si vuole, senza che si possa troppo spiegare come mai non si è presa o conservata l’abitudine di includervi allo stesso titolo qualsiasi altra scienza. Del resto scienze che in una certa epoca erano considerate filosofiche, oggi non lo sono più e per uscire da questo insieme mal definito è bastato che si sviluppassero maggiormente, senza tuttavia che la loro natura intrinseca fosse cambiata in nulla; nel fatto che alcune vi permangano ancora si deve vedere solo un vestigio dell’estensione che i Greci operarono originariamente della filosofia, che in effetti comprendeva tutte le scienze.
Ciò detto, risulta evidente che la vera metafisica non può avere maggiori rapporti, né rapporti di natura diversa, per esempio con la psicologia, di quanti ne abbia con la fisica o la fisiologia: queste sono, esattamente allo stesso titolo, scienze della natura, ossia scienze fisiche nel senso originario e generale della parola. A maggior ragione la metafisica non può dipendere in alcun modo da una scienza specifica: pretendere di darle un fondamento psicologico, come vorrebbero certi filosofi che non hanno altra attenuante se non quella di ignorare completamente che cosa essa sia in realtà, significa volere far dipendere l’universale dall’individuale, il principio dalle sue più o meno indirette e lontane conseguenze, e sotto un altro riguardo significa anche approdare fatalmente a una concezione antropomorfica, dunque propriamente antimetafisica. La metafisica deve necessariamente bastare a se stessa, poiché è la sola conoscenza veramente immediata, e non può fondarsi su nessun’altra cosa per il fatto stesso di essere la conoscenza dei principi universali dai quali tutto il resto discende, compresi gli oggetti delle diverse scienze, oggetti che queste isolano da tali principi per considerarli secondo le loro prospettive particolari; e ciò è d’altronde perfettamente legittimo da parte di queste scienze, giacché esse non potrebbero agire in modo diverso e collegare i loro oggetti a principi universali senza uscire dai confini delle proprie sfere. Quest’ultima osservazione prova che nemmeno si deve pensare a fondare direttamente le scienze sulla metafisica: la relatività stessa dei punti di vista costitutivi assicura loro, sotto questo riguardo, una certa autonomia, il cui disconoscimento non può avere altro risultato che di provocare urti proprio dove normalmente non possono verificarsi; un simile errore, che grava su tutta la filosofia moderna, fu inizialmente commesso da Cartesio, che d’altronde fece solo della pseudo-metafisica e che si interessò ad essa solo come introduzione alla propria fisica, a cui credeva così di dare fondamenti più solidi.
Se ora consideriamo la logica, il caso è un po’ diverso da quello delle scienze che abbiamo finora esaminato e che possono tutte definirsi sperimentali, avendo come fondamento i dati dell’osservazione. La logica è di nuovo una scienza specifica, perché consiste essenzialmente nello studio delle condizioni proprie all’intelletto umano; ma ha un legame più diretto con la metafisica perché quelli che si definiscono i principi logici non sono che l’applicazione e la specificazione, in un dato ambito, dei veri principi, che sono di ordine universale; nei loro confronti può dunque essere effettuata una trasposizione simile a quella che abbiamo indicato per la teologia. La stessa osservazione vale del resto allo stesso modo per le matematiche: queste, anche se di una portata ristretta in quanto confinate esclusivamente nell’ambito della quantità, applicano al loro oggetto specifico dei principi relativi che si possono considerare una determinazione immediata in rapporto a certi principi universali. Così la logica e le matematiche sono in tutta la sfera delle scienze quelle che maggiormente presentano rapporti reali con la metafisica; ma, ovviamente, per il fatto stesso che rientrano nella definizione generale della conoscenza scientifica, vale a dire nei confini della ragione e nell’ordine delle concezioni individuali, sono ancora profondissimamente separate dalla metafisica pura. Tale separazione non consente di accordare un valore effettivo a punti di vista che si situano, più o meno, tra la logica e la metafisica, quali le «teorie della conoscenza» che tanta importanza hanno assunto nella filosofia moderna; ridotte a quanto possono contenere di legittimo, queste teorie non sono che pura e semplice logica, e là dove pretendono di andare oltre la logica non sono più che bizzarrie pseudo-metafisiche, destituite della minima consistenza. In una dottrina tradizionale la logica può essere solo un ramo secondario e subordinato della conoscenza, e infatti proprio questo accade sia in Cina che in India; come la cosmologia, studiata anche dal Medioevo occidentale, ma ignorata dalla filosofia moderna, essa non è, tutto sommato, che un’applicazione dei principi metafisici a un punto di vista specifico e in un ambito dato; avremo d’altronde occasione dì riparlarne a proposito delle dottrine indù.
Quello che abbiamo detto sui rapporti tra metafisica e logica potrà alquanto stupire coloro che sono soliti pensare che la logica domini in un certo senso ogni possibile conoscenza, giacché una speculazione di un ordine qualsiasi può essere valida solo a condizione di conformarsi rigorosamente alle sue leggi; tuttavia è evidente che la metafisica, sempre a causa della sua universalità, non può dipendere dalla logica più che da qualsiasi altra scienza, e si potrebbe aggiungere che simile errore deriva dal fatto di non concepire la conoscenza se non nella sfera della ragione. Sennonché occorre distinguere qui tra la metafisica stessa, quale concezione intellettuale pura, e la sua esposizione ridotta in formula: mentre la prima sfugge nel modo più totale alle limitazioni individuali, dunque alla ragione, la seconda, nella misura in cui è formulabile, non può consistere che in una sorta di traduzione delle verità metafisiche in modo discorsivo e razionale, dato che la costituzione stessa di ogni linguaggio umano non permette che sia altrimenti. La logica, come peraltro le matematiche, è esclusivamente una scienza del ragionamento; l’enunciazione metafisica può assumere un carattere analogo nella forma, ma nella forma soltanto, e se deve allora conformarsi alle leggi della logica, è perché queste stesse leggi hanno un fondamento metafisico essenziale, in mancanza del quale sarebbero prive di valore; ma allo stesso tempo occorre che questa enunciazione, per avere una portata metafisica vera, sia sempre formulata in modo tale da lasciare aperte, come già abbiamo indicato, possibilità di concezione illimitate, allo stesso modo in cui è illimitato il dominio stesso della metafisica.
Quanto alla morale, parlando del punto di vista religioso abbiamo già detto di che cosa si tratti, ma tralasciando quello che si riferisce alla sua concezione propriamente filosofica, in quanto nettamente diversa dalla sua concezione religiosa. In tutta la sfera della filosofia non c’è nulla che sia più relativo e contingente della morale; a dire il vero non è nemmeno più una conoscenza di un ordine più o meno ristretto, bensì semplicemente un insieme di considerazioni più o meno coerenti, il cui scopo e portata possono essere soltanto pratici, sebbene troppo spesso ci si illuda al riguardo. Di fatto si tratta esclusivamente di formulare regole che siano applicabili all’azione umana, e la cui ragione d’essere risiede tutta quanta nell’ordine sociale, perché queste regole non avrebbero senso se gli uomini non vivessero in società formando collettività più o meno organizzate; e per di più le si formula ponendosi da un punto di vista specifico, che invece di essere solo sociale come avviene presso gli orientali, è specificamente morale ed estraneo alla maggior parte dell’umanità. Abbiamo visto come questo punto di vista possa introdursi nelle concezioni religiose tramite il collegamento dell’ordine sociale a una dottrina che abbia subito l’influenza di elementi sentimentali; ma, a parte questo caso, non è troppo chiaro che cosa possa fornirgli una giustificazione. Fuori del punto di vista religioso che dà un senso alla morale, tutto ciò che a quest’ordine si riferisce dovrebbe logicamente ridursi a un insieme di pure e semplici convenzioni, stabilite e osservate all’unico scopo di rendere la vita in società possibile e sopportabile; ma se, riconosciuto francamente questo carattere convenzionale, lo si accettasse, non esisterebbe più morale filosofica. È ancora la sentimentalità che interviene qui e che, al fine di soddisfare le sue esigenze particolari, si sforza di prendere e di far prendere queste convenzioni per quel che non sono: ne consegue uno spiegamento di considerazioni diverse, che ora restano dichiaratamente sentimentali sia nella forma sia nel contenuto, ora si camuffano sotto apparenze più o meno razionali. D’altronde se la morale, come tutto ciò che concerne le contingenze sociali, varia moltissimo secondo i tempi e i paesi, le teorie morali che compaiono in un dato ambiente, per quanto opposte possano apparire, tendono tutte a giustificare le stesse regole pratiche, che sono sempre quelle che comunemente si osservano in quel medesimo ambiente; ciò dovrebbe bastare a provare che simili teorie sono prive di ogni reale valore, perché costruite da ogni filosofo all’unico scopo di accordare, a cose fatte, la propria condotta e quella dei suoi simili, o almeno di quelli che sono a lui più vicini, alle proprie idee e soprattutto ai propri sentimenti. Si noti che il rifiorire di queste teorie morali si verifica soprattutto in epoche di decadenza intellettuale, indubbiamente perché tale decadenza è correlativa o consecutiva all’espansione del sentimentalismo, e anche perché, dedicandosi così a speculazioni illusorie, si conserva per lo meno l’apparenza del pensiero che manca; questo fenomeno si produsse in modo particolare presso i Greci quando la loro intellettualità ebbe dato, con Aristotele, tutto quel che poteva dare: per le scuole filosofiche posteriori, come gli epicurei e gli stoici, tutto fu subordinato al punto di vista morale, e per questo ebbero successo presso i Romani, per i quali ogni speculazione più elevata sarebbe stata troppo difficilmente accessibile. Lo stesso carattere si riscontra nell’epoca attuale, dove il «moralismo» diventa singolarmente invadente, ma questa volta soprattutto per un declino del pensiero religioso, come ben dimostra il caso del protestantesimo; è del resto naturale che popoli con una mentalità pratica, la cui civiltà è soltanto materiale, tentino di soddisfare le loro aspirazioni sentimentali con questo falso misticismo, che nella morale filosofica trova una delle sue espressioni.
Abbiamo passato in rassegna tutti i rami della filosofia che abbiano un carattere ben definito; ma nel pensiero filosofico vi sono inoltre ogni sorta di elementi piuttosto mal definiti che a rigore non si possono includere in alcuno di questi rami e il cui legame non è costituito da nessuna caratteristica della loro natura, ma soltanto dal fatto di essere raggruppati in una stessa concezione sistematica. Per questo motivo, dopo avere separato in tutto e per tutto la metafisica dalle differenti scienze chiamate filosofiche, bisogna ancora distinguerla, non meno profondamente, dai sistemi filosofici, dei quali una delle ragioni più comuni è, come abbiamo già detto, la pretesa all’originalità intellettuale; l’individualismo che si afferma in tale pretesa è evidentemente contrario allo spirito tradizionale e altrettanto incompatibile con qualsiasi concezione che abbia un’autentica portata metafisica. La metafisica pura esclude il sistema, perché qualsiasi sistema si presenta come una concezione chiusa e angusta, come un insieme più o meno strettamente definito e limitato, ciò che è assolutamente incompatibile con l’universalità della metafisica; e d’altronde un sistema filosofico è sempre il sistema di qualcuno, ossia una costruzione il cui valore non può essere che prettamente individuale. Per di più ogni sistema è necessariamente fondato su premesse specifiche e relative, e si può dire che in definitiva è soltanto lo sviluppo di un’ipotesi, mentre la metafisica, la quale ha un carattere di certezza assoluta, non può ammettere nulla di ipotetico. Non vogliamo con ciò dire che tutti i sistemi non possono contenere una certa parte di verità in questo o quel punto determinato; ma in quanto sistemi essi sono illegittimi, e alla stessa forma sistematica è inerente la radicale falsità di una simile concezione presa nel suo insieme. A ragione Leibniz diceva che «ogni sistema è vero in quel che afferma e falso in ciò che nega», vale a dire in fondo che è tanto più falso quanto più è strettamente limitato o, il che è lo stesso, più sistematico, giacché una concezione di questo genere approda inevitabilmente alla negazione di tutto quanto è incapace di contenere; sennonché, ad esser giusti, questo dovrebbe applicarsi a Leibniz stesso non meno che agli altri filosofi, dato che anche la sua concezione si presenta come un sistema; tutto ciò che vi si trova di vera metafisica è tratto, del resto, dalla scolastica, e sovente snaturato perché mal compreso. Quanto alla verità di ciò che un sistema afferma, non bisognerebbe vedervi l’espressione di un «eclettismo» qualsivoglia; sarebbe come dire che un sistema è vero in quanto resta aperto su possibilità meno limitate, il che è d’altronde evidente, ma implica per l’appunto la condanna del sistema in quanto tale. La metafisica, proprio perché è al di fuori e al di là delle relatività, le quali appartengono tutte all’ordine individuale, sfugge a ogni sistematizzazione, allo stesso modo e per la stessa ragione per cui non si lascia comprendere in nessuna formula.
Si può ora capire che cosa intendiamo esattamente per pseudo-metafisica: è tutto ciò che, nei sistemi filosofici, si presenta con pretese metafisiche, completamente ingiustificate a causa della stessa forma sistematica, la quale basta da sola a privare considerazioni simili di ogni valore reale. Alcuni dei problemi che il pensiero filosofico si pone abitualmente appaiono anzi privi, non soltanto di ogni importanza, ma di ogni significato; c’è tutta una congerie di questioni che si regge solo su un equivoco, su una confusione di punti di vista, questioni che in fondo esistono unicamente perché sono mal poste e che non avrebbero alcun motivo di porsi veramente; in molti casi basterebbe dunque metterne a fuoco l’enunciato perché scompaiano senz’altro, se la filosofia non avesse al contrario il massimo interesse a conservarle, perché è soprattutto di equivoci che essa vive. Esistono poi altre questioni, appartenenti del resto ai più diversi ordini di idee, che possono aver ragione di porsi, ma il cui enunciato preciso ed esatto comporterebbe una soluzione pressoché immediata, essendo la loro difficoltà assai più verbale che reale; ma se fra tali questioni ve ne sono alcune a cui la loro stessa natura potrebbe conferire un certo valore metafisico, esse lo perdono interamente quando siano incluse in un sistema, giacché non è sufficiente che una questione sia di natura metafisica, bisogna ancora che, riconosciuta tale, sia esaminata e trattata metafisicamente. È infatti evidente che una stessa questione può esser trattata sia da un punto di vista metafisico, sia da qualunque altro punto di vista; così le considerazioni a cui la maggior parte dei filosofi ha creduto bene di dedicarsi su ogni sorta di cose, possono essere più o meno interessanti in sé, ma non hanno comunque niente di metafisico. È quanto meno deplorevole che la mancanza di precisione, così caratteristica del pensiero occidentale e visibile tanto nelle concezioni come nella loro espressione, mentre consente di discutere all’infinito e a vanvera senza risolvere mai niente, lascia libero il campo a una pletora di ipotesi, che è sicuramente legittimo definire filosofiche, ma che non hanno niente a che spartire con la vera metafisica.
In linea generale, possiamo ancora far notare, a questo proposito, come le questioni che si pongono per così dire incidentalmente, che presentano solo un interesse particolare e momentaneo, quali se ne troverebbero molte nella storia della filosofia moderna, sono per ciò stesso palesemente prive di ogni carattere metafisico, tale carattere non essendo altro che l’universalità; d’altronde questioni simili appartengono di solito alla categoria dei problemi la cui esistenza è del tutto artificiale. Può essere davvero metafisico, torniamo a ripeterlo, soltanto ciò che è assolutamente stabile, permanente, indipendente da tutte le contingenze e in particolare dalle contingenze storiche; è metafisico ciò che non muta, ed è ancora l’universalità della metafisica a costituire la sua unità essenziale – incompatibile sia con la molteplicità dei sistemi filosofici sia con quella dei dogmi religiosi – e quindi la sua immutabilità profonda.
Da ciò che precede discende inoltre che la metafisica non ha alcun rapporto con tutte quelle concezioni che, come l’idealismo, il panteismo, lo spiritualismo, il materialismo, portano appunto il carattere sistematico del pensiero filosofico occidentale; e questa osservazione è tanto più opportuna qui in quanto una delle manie condivise dagli orientalisti è di volere ad ogni costo far rientrare il pensiero orientale in questi schemi ristretti, che non gli si addicono affatto; in seguito dovremo segnalare in modo speciale l’abuso che si fa di queste vane etichette, o per lo meno di qualcuna di esse. Su un solo punto vogliamo insistere per il momento: la disputa fra lo spiritualismo e il materialismo, attorno alla quale ruota quasi tutto il pensiero filosofico da Cartesio in poi, non tocca per nulla la metafisica pura; si tratta del resto di un esempio di quelle questioni transitorie a cui abbiamo appena accennato. Effettivamente la dualità «spirito-materia» non si era mai posta come assoluta e irriducibile prima della concezione cartesiana; gli antichi, in particolare i Greci, non possedevano nemmeno la nozione di «materia» nel senso moderno della parola, così come non la possiede tuttora la maggior parte degli orientali: in sanscrito non esiste una parola che corrisponda sia pure remotamente a questa nozione. L’idea di una dualità di questo genere ha l’unico merito di rappresentare abbastanza bene l’apparenza esteriore delle cose; ma appunto perché si ferma alle apparenze è del tutto superficiale, e, ponendosi da un punto di vista specifico, meramente individuale, diventa negatrice di ogni metafisica, non appena si voglia attribuirle un valore assoluto affermando l’irriducibilità dei suoi due termini, affermazione in cui risiede il dualismo propriamente detto. D’altra parte, in questa opposizione di spirito e materia, non si deve vedere altro che un caso particolarissimo di dualismo, poiché i due termini dell’opposizione potrebbero essere del tutto diversi da questi due principi relativi, e sarebbe possibile esaminare nello stesso modo, secondo altre determinazioni più o meno specifiche, una indefinità di coppie di termini correlativi differenti da quella che abbiamo esaminato. In via del tutto generale, il carattere distintivo del dualismo è di arrestarsi a un’opposizione tra due termini più o meno particolari, opposizione che senz’altro esiste realmente da un certo punto di vista e costituisce la parte di verità contenuta nel dualismo; ma dichiarando questa opposizione irriducibile e assoluta, mentre invece è del tutto relativa e contingente, esso si impedisce di andare oltre i due termini che ha posto uno di fronte all’altro, e così si ritrova limitato da ciò che costituisce il suo carattere di sistema. Se non si accetta questa limitazione e si vuole risolvere l’opposizione su cui il dualismo si arrocca ostinatamente, potranno presentarsi soluzioni diverse; e in effetti ne troviamo anzitutto due nei sistemi filosofici che possiamo classificare sotto la denominazione comune di monismo. Si può dire che il monismo è caratterizzato essenzialmente dal fatto che, non ammettendo l’irriducibilità assoluta e volendo superare l’opposizione apparente, crede di riuscirci riducendo uno dei due termini all’altro; se, in particolare, si tratta dell’opposizione di spirito e materia, si avrà da una parte il monismo spiritualista, il quale pretende di ridurre la materia a spirito, e dall’altra il monismo materialista, che pretende al contrario di ridurre lo spirito a materia. Il monismo, qualunque esso sia, ha ragione di ammettere che non vi è opposizione assoluta, perché così facendo risulta meno strettamente limitato del dualismo, e almeno costituisce uno sforzo per penetrare maggiormente il fondo delle cose; ma gli accade quasi fatalmente di cadere in un altro difetto, e di trascurare completamente, se non di negare, l’opposizione che, pur essendo solo un’apparenza, merita nondimeno di essere considerata come tale; anche qui è l’esclusività del sistema a costituire il suo primo difetto. D’altronde, volendo ridurre direttamente uno dei due termini all’altro non si esce mai completamente dall’alternativa posta dal dualismo, poiché non si considera niente che esuli dai due termini che esso ha posto come suoi principi fondamentali; anzi sarebbe opportuno chiedersi se, questi due termini essendo correlativi, l’uno abbia ancora la propria ragione d’essere senza l’altro, se è logico conservare l’uno dato che si sopprime l’altro. Inoltre, ci si trova così di fronte a due soluzioni che in fondo sono assai più equivalenti di quanto non appaiano in superficie: che il monismo spiritualista affermi che tutto è spirito, e il monismo materialista che tutto è materia, ha insomma ben poca importanza, tanto più che ciascuno si trova costretto ad attribuire al principio che mantiene le proprietà più essenziali del principio che sopprime. Si comprenderà come, su simile terreno, la discussione tra spiritualisti e materialisti debba degenerare molto rapidamente in un semplice conflitto di parole; in realtà le due opposte soluzioni moniste sono solo le due facce di una duplice soluzione, peraltro del tutto insufficiente. È a questo punto che un’altra soluzione deve intervenire; ma, mentre col dualismo e il monismo avevamo a che fare solo con due tipi di concezioni sistematiche e di ordine semplicemente filosofico, ora si tratterà di una dottrina che al contrario si pone da un punto di vista metafisico e quindi non ha ricevuto alcuna denominazione nella filosofia occidentale, che non può che ignorarla. Designeremo questa dottrina come il «non-dualismo», o meglio ancora come la «dottrina della non-dualità», volendo tradurre nel modo più esatto possibile il termine sanscrito adwaita-vâda, il quale non ha equivalente usuale in alcuna lingua europea; la prima di queste due espressioni ha il vantaggio di essere più breve della seconda, e per questo la adotteremo volentieri, ma tuttavia ha l’inconveniente della terminazione «ismo» la quale, nel linguaggio filosofico, è di solito connessa con la denominazione dei sistemi; si potrebbe dire, è vero, che bisogna far gravare la negazione sull’intera parola «dualismo», terminazione inclusa, con ciò intendendo che la negazione deve appunto applicarsi al dualismo in quanto concezione sistematica. Pur non ammettendo, come il monismo, alcuna irriducibilità assoluta, il «non-dualismo» ne differisce profondamente perché non pretende affatto che uno dei due termini sia puramente e semplicemente riducibile all’altro; esso li considera entrambi simultaneamente nell’unità di un principio comune, di ordine più universale, e in cui sono ugualmente contenuti, non più come opposti, propriamente parlando, ma come complementari, tramite una sorta di polarizzazione che non modifica in nulla l’unità essenziale del principio comune. In tal modo l’intervento del punto di vista metafisico ha come effetto di risolvere in modo immediato l’opposizione apparente, ed esso solo consente del resto di farlo davvero, là dove il punto di vista filosofico mostrava la sua impotenza; e quel che è vero per la distinzione spirito-materia lo è ugualmente per qualsiasi altra distinzione tra tutte quelle che in modo analogo si potrebbero stabilire fra aspetti più o meno specifici dell’essere, e che sono una moltitudine indefinita. Se d’altronde è possibile considerare simultaneamente tutta questa indefinità delle distinzioni che sono così possibili, e che sono tutte ugualmente vere e legittime dai loro punti di vista rispettivi, è perché non si è più prigionieri di una sistematizzazione limitata a una di queste distinzioni, escludendo tutte le altre; e così il «non-dualismo» è l’unico tipo di dottrina che sia consono all’universalità della metafisica. I diversi sistemi filosofici possono in generale richiamarsi, per l’uno o l’altro aspetto, sia al dualismo sia al monismo; ma il solo «non-dualismo», di cui abbiamo indicato il principio, è in grado di oltrepassare immensamente la portata di ogni filosofia, perché esso solo è propriamente e puramente metafisico nella sua essenza, o, in altri termini, è espressione del carattere più essenziale e fondamentale della metafisica stessa.
Se abbiamo creduto necessario soffermarci così a lungo su queste considerazioni, è in ragione dell’ignoranza che di solito predomina in Occidente su tutto ciò che riguarda la vera metafisica, e anche perché esse hanno un rapporto affatto diretto con il nostro argomento, qualunque cosa possa sembrare a certuni, poiché il centro unico di tutte le dottrine dell’Oriente è la metafisica, al punto che nulla si può comprendere di esse se prima non si sia acquisita, su ciò che è la metafisica, una nozione che ci permetta almeno di evitare ogni possibile confusione. Mettendo in rilievo tutta la differenza che separa un pensiero metafisico da un pensiero filosofico, abbiamo mostrato come i problemi classici della filosofia, anche quelli da essa considerati i più generali, non occupino rigorosamente alcun posto rispetto alla metafisica pura: la trasposizione, il cui effetto è d’altronde di mettere in luce il senso profondo di talune verità, fa svanire questi pretesi problemi, ciò che precisamente mostra come essi non abbiano alcun significato profondo. D’altra parte questa disamina ci ha fornito il pretesto per accennare al significato della «non-dualità», la cui comprensione, essenziale per ogni metafisica, non lo è meno per l’interpretazione più particolare delle dottrine indù; ciò è del resto ovvio, dal momento che queste dottrine sono di essenza puramente metafisica.
Aggiungeremo ancora un’osservazione la cui importanza è capitale: non soltanto la metafisica non può essere limitata dalla considerazione di una qualunque dualità di aspetti complementari dell’essere, si tratti di aspetti molto specifici come lo spirito e la materia, o al contrario di aspetti quanto mai universali, come quelli che si possono designare con i termini «essenza» e «sostanza», ma nemmeno può essere limitata dalla concezione dell’essere puro in tutta la sua universalità, perché non deve esserlo assolutamente da nulla. Non si può, come fece Aristotele, definire in modo esclusivo la metafisica come «conoscenza dell’essere»: tale è propriamente l’ontologia, che è indubbiamente di competenza della metafisica, ma non per questo costituisce tutta la metafisica; e questa è la ragione per cui ciò che vi fu di metafisico in Occidente è sempre rimasto incompleto e insufficiente, così come del resto per un altro aspetto che indicheremo più avanti. L’essere non è veramente il più universale di tutti i principi, cosa che invece sarebbe necessaria perché la metafisica si riducesse all’ontologia, e questo perché, pur essendo la più primordiale di tutte le determinazioni possibili, nondimeno esso resta una determinazione, e ogni determinazione è una limitazione, alla quale il punto di vista metafisico non può arrestarsi. D’altronde un principio è evidentemente tanto meno universale quanto più è determinato, e quindi più relativo; in un modo per così dire matematico, si può affermare che un «più» determinativo equivale a un «meno» metafisico. Questa indeterminazione assoluta dei principi più universali, quindi di quelli che devono essere considerati prima di tutti gli altri, è causa di difficoltà abbastanza serie, non nella concezione, salvo forse per coloro che non ci sono abituati, ma almeno nell’esposizione delle dottrine metafisiche, e spesso obbliga a servirsi esclusivamente di espressioni che nella loro forma esteriore sono puramente negative. Così, per esempio, l’idea dell’Infinito, che è in realtà la più positiva di tutte, poiché l’Infinito non può essere che il tutto assoluto, ciò che non essendo limitato da nulla nulla lascia fuori di sé, quest’idea, dicevamo, può essere espressa solo da un termine di forma negativa, perché nel linguaggio ogni affermazione diretta è necessariamente l’affermazione di qualcosa, ovvero un’affermazione particolare e determinata; ma la negazione di una determinazione o di una limitazione è propriamente la negazione di una negazione, dunque un’affermazione reale, così che la negazione di ogni determinazione equivale in fondo all’affermazione assoluta e totale. Quel che diciamo dell’idea dell’Infinito potrebbe applicarsi parimenti a molte altre nozioni metafisiche di estrema importanza, ma questo esempio è sufficiente per quanto ci proponiamo di far capire qui; e del resto non bisogna mai dimenticare che la metafisica pura è di per sé assolutamente indipendente da tutte le terminologie più o meno imperfette con cui cerchiamo di rivestirla per renderla più accessibile alla nostra comprensione.

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