Introduzione generale allo studio delle dottrine indù
III. Le dottrine indù
5. La legge di «Manu»
Fra le nozioni che, non avendo equivalente, mettono in grande difficoltà gli occidentali, possiamo citare quella che in sanscrito è espressa dalla parola dharma; certamente non mancano traduzioni proposte dagli orientalisti, ma la maggior parte è grossolanamente approssimativa o addirittura completamente erronea, sempre per la confusione dei punti di vista che abbiamo segnalato.
Così, si vuole talvolta tradurre dharma con «religione», quando il punto di vista religioso non è applicabile; ma al tempo stesso si deve riconoscere che questa parola non designa propriamente la concezione della dottrina, a torto supposta religiosa.
Così, si vuole talvolta tradurre dharma con «religione», quando il punto di vista religioso non è applicabile; ma al tempo stesso si deve riconoscere che questa parola non designa propriamente la concezione della dottrina, a torto supposta religiosa.
D’altra parte, se si tratta del compimento dei riti, che comunque non hanno carattere religioso, essi sono designati nel loro insieme da un’altra parola, karma, che viene allora usata in un’accezione specifica, tecnica in qualche modo, il suo significato generale essendo «azione». Per coloro che a tutti i costi vogliono vedere nella tradizione indù una religione, rimarrebbe ancora la morale, e proprio quest’ultima sarebbe chiamata più specificamente dharma; da qui discendono, secondo i casi, interpretazioni diverse e più o meno secondarie, come quelle di «virtù», «giustizia», «merito», «dovere», tutte nozioni in effetti esclusivamente morali, ma che proprio per questo sono ben lontane dal rendere la concezione di cui parliamo. Il punto di vista morale, in mancanza del quale le nozioni suddette sono prive di senso, in India non esiste; vi abbiamo già sufficientemente insistito, sottolineando come il buddhismo, l’unico che potrebbe sembrare adatto a introdurlo, non si spinse così oltre sulla via del sentimentalismo. D’altronde, sia detto di sfuggita, queste stesse nozioni non sono tutte ugualmente essenziali al punto di vista morale; intendiamo dire che alcune di esse non sono comuni a ogni concezione morale: così, l’idea di dovere o di obbligo manca nella maggior parte delle morali antiche, in particolare in quella degli stoici; è solo con i moderni, e soprattutto dopo Kant, che essa ha acquistato un’importanza preponderante. È importante notare qui, essendo una delle più frequenti fonti d’errore, che idee o punti di vista diventati abituali tendono per ciò stesso a sembrare essenziali; è il motivo per cui ci si sforza di trasferirli nell’interpretazione di tutte le concezioni, anche le più remote nel tempo o nello spazio, eppure spesso non occorrerebbe risalire molto indietro per scoprirne l’origine e il punto di partenza.
Ciò detto per eliminare false interpretazioni, le più correnti, cercheremo di indicare il più nettamente possibile che cosa bisogna realmente intendere per dharma. Come indica il senso della radice verbale dhri, da cui è derivata, questa parola nel suo significato più generale non designa altro che una «maniera di essere»; è, se si vuole, la natura essenziale di un essere, che comprende tutto l’insieme delle sue qualità o proprietà caratteristiche, e determina, attraverso le tendenze o le disposizioni che implica, il modo in cui questo essere si comporta, tanto nella sua totalità quanto in rapporto a ogni circostanza particolare. La stessa nozione può essere applicata non soltanto a un essere unico, ma a una collettività organizzata, a una specie, a tutto l’insieme degli esseri di un ciclo cosmico o di uno stato di esistenza, o anche all’ordine totale dell’Universo; è allora la conformità, in un grado o in un altro, alla natura essenziale degli esseri, realizzata nella costituzione gerarchicamente ordinata del loro insieme; è anche, per conseguenza, l’equilibrio fondamentale, l’armonia integrale che risulta da tale gerarchizzazione, a cui d’altronde si riduce la nozione stessa di «giustizia» quando sia spogliata del suo carattere specificamente morale. Considerato, così, principio di ordine, quindi organizzazione e disposizione interiore, per un essere o un insieme di esseri, dharma può in un certo senso opporsi a karma, che è solo l’azione mediante cui tale disposizione verrà manifestata esteriormente, purché l’azione sia normale, cioè conforme alla natura degli esseri e dei loro stati, e ai rapporti che ne derivano. Allora, dunque, ciò che è adharma non è affatto il «peccato» in senso teologico, né il «male» in senso morale, nozioni entrambe estranee allo spirito indù; è semplicemente la «non-conformità» con la natura degli esseri, lo squilibrio, la rottura dell’armonia, la distruzione o il sovvertimento dei rapporti gerarchici. Indubbiamente, nell’ordine universale la somma di tutti gli squilibri particolari concorre sempre all’equilibrio totale che nulla può rompere; ma, in ogni punto considerato a parte e in se stesso, lo squilibrio è possibile e concepibile, e, si tratti di applicazione sociale o di altro, non è necessario attribuirgli il sia pur minimo carattere morale per definirlo contrario, secondo la sua portata specifica, alla «legge dì armonia» che regge sia l’ordine cosmico sia l’ordine umano. Precisato in tal modo il senso della «legge» e liberatolo da tutte le applicazioni particolari e derivate alle quali può dare luogo, possiamo accettare la parola «legge» per tradurre dharma, in modo certo ancora imperfetto, ma meno inesatto degli altri termini desunti dalle lingue occidentali; ancora una volta, però, non è affatto di legge morale che si tratta, e le stesse nozioni di legge scientifica e legge sociale o giuridica si riferiscono qui solo a casi particolari.
In linea di principio, la «legge» può essere considerata un «volere universale», per una trasposizione analogica che, del resto, in una simile concezione non lascia sussistere niente di personale né, a maggior ragione, di antropomorfico. L’espressione di questo volere in ogni stato dell’esistenza manifestata è designata come Prajâpati o il «Signore degli esseri prodotti»; e in ogni ciclo cosmico particolare questo stesso volere si manifesta come il Manu che dà a tale ciclo la legge che gli è propria. Manu non deve quindi essere inteso come il nome di un personaggio mitico, leggendario o storico; esso designa propriamente un principio che si potrebbe definire, secondo il significato della radice verbale man, come «intelligenza cosmica» o «pensiero riflesso dell’ordine universale». Questo principio è d’altra parte visto come il prototipo dell’uomo, il quale è chiamato mânava in quanto è considerato essenzialmente un «essere pensante», caratterizzato dal possesso del manas, elemento mentale o razionale; la concezione del Manu è dunque equivalente, almeno per certi aspetti, a quella che altre tradizioni, in particolare la Cabala ebraica e l’esoterismo musulmano, designano come L’«Uomo universale», e che il taoismo chiama il «Re». Abbiamo visto in precedenza che il nome Vyâsa designa non un uomo, ma una funzione; tuttavia è una funzione in qualche modo storica, mentre qui si tratta di una funzione cosmica che potrà diventare storica solo nella sua applicazione specifica all’ordine sociale e senza d’altronde implicare alcuna «personificazione». Insomma, la legge di Manu, per un ciclo o una collettività qualsivoglia, non è altro che l’osservanza dei rapporti gerarchici naturali che esistono fra gli esseri sottoposti alle condizioni specifiche di quel ciclo o collettività, con l’insieme delle prescrizioni che normalmente ne risultano. Non insisteremo qui sulla concezione dei cicli cosmici, tanto più che per renderla facilmente intelligibile occorrerebbe addentrarsi in disamine abbastanza lunghe; ci limiteremo a dire che fra essi non vi è successione cronologica, bensì concatenazione logica e causale, perché ogni ciclo è determinato nel suo insieme dall’antecedente e determina a sua volta il conseguente con una produzione continua, sottomessa alla «legge di armonia» che stabilisce l’analogia costitutiva di tutti i modi della manifestazione universale.
Quando si giunge all’applicazione sociale, la «legge», assumendo la sua accezione specificamente giuridica, potrà essere formulata in uno shâstra o codice, il quale, in quanto espressione del «volere cosmico» al suo grado particolare, sarà riferito a Manu o più precisamente al Manu del ciclo attuale; ma evidentemente questa attribuzione non fa del Manu l’autore dello shâstra, almeno nel senso ordinario in cui si dice che un’opera puramente umana è di un certo autore. Anche qui, come per i testi vedici, non c’è dunque origine storica rigorosamente assegnabile, e d’altronde, come abbiamo spiegato, il problema di tale origine è di importanza nulla dal punto di vista dottrinale; ma fra i due casi vi è da segnalare una grande differenza: mentre i testi vedici sono designati col termine shruti, essendo il frutto di una ispirazione diretta, il dharma-shâstra appartiene solamente alla categoria di scritti tradizionali chiamata smriti, la cui autorità è meno fondamentale, e che comprende sia i Purâna sia gli Itihâsa, che l’erudizione occidentale considera solo poemi «mitici» ed «epici», dato che non è capace di cogliere il profondo significato simbolico che ne fa una cosa totalmente diversa dalla «letteratura». La distinzione fra shruti e smriti corrisponde in fondo a quella fra l’intuizione intellettuale pura e immediata, che si applica esclusivamente al dominio dei principi metafisici, e la coscienza riflessa, di natura razionale, che si esercita sugli oggetti di conoscenza appartenenti all’ordine individuale, com’è appunto il caso quando si tratta di applicazioni sociali o altre. Ciò nonostante l’autorità tradizionale del dharma-shâstra non deriva da quegli autori umani che hanno potuto formularla, certo oralmente all’inizio, per iscritto in seguito, ed è la ragione per cui tali autori sono rimasti sconosciuti e indeterminati; essa deriva esclusivamente da ciò che ne fa davvero l’espressione della legge di Manu, cioè dalla sua conformità all’ordine naturale delle esistenze che è destinato a governare.
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