"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

martedì 19 maggio 2015

René Guénon, Introduzione generale allo studio delle dottrine indù - III. Le dottrine indù - 1. Significato esatto della parola «indù»

René Guénon
Introduzione generale allo studio delle dottrine indù

III. Le dottrine indù
1. Significato esatto della parola «indù»

Tutto quanto è stato detto finora potrebbe servire d’introduzione generale allo studio di tutte le dottrine orientali; quanto diremo ora riguarderà più in particolare le dottrine indù, adeguate specialmente a modi di pensiero che, pur possedendo le caratteristiche comuni al pensiero orientale nel suo insieme, presentano inoltre dei tratti distintivi, a cui corrispondono differenze formali, anche là dove la sostanza è rigorosamente identica a quella delle altre tradizioni, come sempre avviene, per le ragioni che abbiamo indicato, quando si tratta di metafisica pura.
In questa parte della nostra esposizione è importante prima di tutto precisare il significato esatto della parola «indù», il cui impiego più o meno vago dà origine in Occidente a frequenti errori.
Per determinare nettamente ciò che è indù e ciò che non lo è non possiamo esimerci dal ricordare brevemente qualcuna delle considerazioni che abbiamo già sviluppato: questa parola non può designare una razza, dato che si applica ugualmente a elementi appartenenti a razze diverse, né tanto meno una nazionalità, dato che niente di simile esiste in Oriente. Volendola considerare nella sua totalità, l’India sarebbe paragonabile all’insieme dell’Europa piuttosto che a questo o quell’altro Stato europeo, e ciò non soltanto per la sua estensione o per l’importanza numerica della sua popolazione, ma anche per le varietà etniche che quest’ultima presenta; al riguardo le differenze fra il Nord e il Sud dell’India sono almeno altrettanto grandi di quelle che esistono fra un’estremità e l’altra dell’Europa. D’altronde, fra le diverse regioni non vi è alcun legame governativo o amministrativo, se si esclude quello che gli europei vi hanno stabilito recentemente in modo del tutto artificiale; è vero che questa unità amministrativa era già stata realizzata prima di loro dagli imperatori mongoli, e forse prima ancora da altri, ma essa non ebbe mai se non un’esistenza passeggera in rapporto alla permanenza della civiltà indù, e bisogna notare che fu quasi sempre dovuta alla dominazione di elementi stranieri, o comunque non indù; inoltre non arrivò mai a sopprimere completamente l’autonomia degli Stati particolari, ma si sforzò piuttosto di convogliarli in un’organizzazione federativa. D’altra parte non si trova affatto in India qualcosa che possa essere paragonato al genere di unità che altrove si realizza con il riconoscimento di un’autorità religiosa comune, sia essa rappresentata da un unico individuo come nel cattolicesimo, o da una pluralità di funzioni distinte come nell’islamismo; la tradizione indù, pur non essendo in alcun modo di natura religiosa, potrebbe tuttavia implicare un’organizzazione più o meno analoga, ma così non è, a dispetto delle supposizioni gratuite che certuni hanno potuto fare al riguardo perché non comprendevano come potesse effettivamente realizzarsi l’unità attraverso la sola forza inerente alla dottrina tradizionale stessa. Ciò è ben diverso in effetti da tutto quanto esiste in Occidente, eppure è così: l’unità indù, lo abbiamo ripetuto più volte, è un’unità di ordine puramente ed esclusivamente tradizionale, che per mantenersi non ha bisogno di alcuna forma di organizzazione più o meno esterna, né dell’appoggio di alcuna autorità che non sia quella della dottrina stessa.
La conclusione di tutto ciò può essere formulata nel modo seguente: sono indù tutti coloro che aderiscono a una stessa tradizione, purché, beninteso, siano debitamente qualificati per potervi aderire realmente ed effettivamente, e non in un modo solo esteriore e illusorio; al contrario, non sono indù coloro che per qualsiasi ragione non partecipano a questa stessa tradizione. In particolare è il caso dei jaina e dei buddhisti, come pure, nei tempi moderni, dei sikh, sui quali d’altronde si esercitarono influenze musulmane che sono ben visibili nella loro speciale dottrina. Tale è la vera distinzione, e non possono esservene altre, benché sia difficilmente comprensibile, bisogna riconoscerlo, per la mentalità occidentale, abituata ad appoggiarsi su tutt’altri elementi di giudizio, che qui fanno totalmente difetto. Così stando le cose, è un vero e proprio nonsenso parlare, per esempio, di «buddhismo indù», come pure si fa troppo sovente in Europa e in particolare in Francia; quando si vuole designare il buddhismo quale esistette in India in altri tempi, non c’è altro appellativo che possa convenirgli se non quello di «buddhismo indiano» allo stesso modo in cui si può correttamente parlare di «musulmani indiani», cioè musulmani dell’India, che non sono affatto indù. Si vede allora in che cosa consista la gravità reale di un errore come quello che segnaliamo e perché sia ai nostri occhi assai più di una semplice inesattezza di dettaglio: esso testimonia una profonda incomprensione del carattere più essenziale della civiltà indù; e la cosa più stupefacente non è che questa ignoranza sia diffusa in Occidente, ma che sia condivisa da certi orientalisti di professione.
La tradizione di cui parliamo fu portata nella contrada che è l’India attuale in un’epoca più o meno remota (e che sarebbe piuttosto difficile precisare) da uomini venuti dal Nord, secondo certe indicazioni che abbiamo già riferito; peraltro non è provato che questi migratori, che dovettero successivamente fermarsi in regioni diverse, abbiano costituito, almeno in origine, un popolo vero e proprio, e nemmeno che siano appartenuti primitivamente a una razza unica. In ogni caso la tradizione indù, o almeno quella che attualmente ha tale denominazione, e che allora poteva averne un’altra o addirittura non averne alcuna, questa tradizione, dicevamo, quando si stabilì in India, fu adottata presto o tardi da quasi tutti i discendenti delle popolazioni indigene; costoro, i Dravida per esempio, divennero dunque indù in qualche modo «per adozione», ma allora lo furono effettivamente allo stesso modo di coloro che lo erano sempre stati, dal momento che li si era ammessi nella grande unità della civiltà tradizionale, e anche se dovettero mantenere tracce della loro origine, sotto forma di modalità particolari di pensare e agire, purché compatibili con lo spirito della tradizione.
Prima di stabilirsi in India questa stessa tradizione apparteneva a una civiltà che noi non chiameremo «arianesimo», avendo già spiegato perché è una parola priva di senso, ma per la quale possiamo accettare, in mancanza di altro, la denominazione di «indoiranica», benché il luogo dove si sviluppò non sia stato verosimilmente né l’India né l’Iran, e semplicemente per sottolineare che doveva in seguito dare origine alle due civiltà indù e persiana, distinte e anzi sotto certi aspetti opposte. In una data epoca dovette dunque prodursi una scissione abbastanza simile a quella che più tardi in India diede origine al buddhismo; e il ramo separato, deviato rispetto alla tradizione primordiale, fu il cosiddetto «iranismo», che doveva poi diventare la tradizione persiana chiamata anche «mazdeismo».
Abbiamo già segnalato la tendenza, generale in Oriente, per cui dottrine che furono dapprima antitradizionali si impongono poi come tradizioni indipendenti; questa di cui parliamo aveva senza dubbio assunto tale carattere già molto tempo prima di essere codificata nell’Avesta sotto il nome di Zarathustra o Zoroastro, nel quale d’altronde bisogna vedere non la designazione di un uomo, ma piuttosto di una collettività, come spesso succede in casi simili: gli esempi di Fo-hi per la Cina, Vyâsa per l’India, Thoth o Ermete per l’Egitto sono abbastanza indicativi. D’altro canto una traccia molto netta della deviazione è rimasta nella stessa lingua dei Persiani, dove certe parole assunsero un significato completamente opposto a quello che primitivamente avevano e che conservarono in sanscrito; il caso della parola dêva è al proposito il più noto, ma se ne potrebbero citare altri, come il nome di Indra per esempio, e non può essere un caso accidentale. Anche il carattere dualistico abitualmente attribuito alla tradizione persiana, se fosse reale, sarebbe una prova manifesta di alterazione della dottrina; ma bisogna tuttavia dire che esso sembra essere solo il prodotto di una interpretazione falsa o incompleta, mentre c’è un’altra prova più seria, costituita dalla presenza di certi elementi sentimentali; non è peraltro necessario insistere oltre su ciò.
A partire dal momento in cui si produce la separazione di cui abbiamo parlato, la tradizione regolare può essere chiamata propriamente «indù», qualunque sia la regione in cui si conservò inizialmente, e a prescindere dal fatto che abbia o no ricevuto da quel momento tale designazione, il cui uso non deve d’altronde far pensare in alcun modo che vi sia stato qualche cambiamento profondo ed essenziale nella tradizione; allora come in seguito, non poté esserci altro che uno sviluppo naturale e normale di quella che era stata la tradizione primordiale. Giungiamo così direttamente a segnalare un altro errore degli orientalisti, i quali, non comprendendo nulla dell’immutabilità essenziale della dottrina, hanno creduto di poter considerare, posteriormente all’epoca «indoiranica», tre successive dottrine immaginate differenti, alle quali hanno dato i nomi rispettivi di «vêdismo», «brâhmanesimo» e «induismo». Se con ciò si volessero intendere soltanto tre periodi della storia della civiltà indù, sarebbe senza dubbio accettabile, quantunque le denominazioni siano molto improprie e sia estremamente difficile delimitare e situare cronologicamente tali periodi. Se anzi si volesse dire che la dottrina tradizionale, pur rimanendo in fondo la stessa, ha potuto ricevere successivamente parecchie espressioni più o meno diverse per adattarsi alle condizioni particolari, mentali e sociali, di tale o di tal altra epoca, ciò potrebbe ancora essere ammesso con riserve analoghe alle precedenti. Ma non è semplicemente questo che sostengono gli orientalisti: con una pluralità di denominazioni, essi suppongono espressamente che si tratti di un succedersi di deviazioni o alterazioni che sono incompatibili con la regolarità tradizionale e mai sono esistite se non nella loro immaginazione. In realtà, l’intera tradizione indù è essenzialmente fondata sul Vêda, lo è sempre stata e non ha mai cessato di esserlo; si potrebbe dunque chiamarla «vêdismo», così come, in qualsiasi epoca, potrebbe convenirle anche il nome di «brâhmanesimo»; in fondo poco importa la designazione che si preferirà darle, purché ci si renda ben conto che, sotto uno o più nomi, si tratta sempre della stessa cosa; nient’altro, cioè, che dello sviluppo della dottrina contenuta in principio nel Vêda, parola che d’altronde significa propriamente la conoscenza tradizionale per eccellenza. Non vi è dunque «induismo» nel senso di una deviazione dal pensiero tradizionale, perché è veramente e puramente indù solo quello che per definizione non ammette deviazioni di sorta; e se ciò nonostante certe anomalie più o meno gravi hanno potuto talvolta prodursi, il senso della tradizione le ha sempre mantenute entro determinati limiti, oppure le ha espulse interamente dall’unità indù, e comunque ha sempre fatto in modo che mai acquisissero un’autorità reale; ma perché ciò possa essere ben compreso, occorrono ancora altre considerazioni.

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