Introduzione generale allo studio delle dottrine indù
III. Le dottrine indù
3. Ortodossia ed eterodossia
L’ortodossia e l’eterodossia possono essere considerate non soltanto dal punto di vista religioso, benché questo sia il caso più frequente in Occidente, ma anche dal punto di vista molto più generale della tradizione in tutti i suoi aspetti; per quanto riguarda l’India è il solo modo di concepirle, poiché lì non esiste niente di propriamente religioso, mentre in Occidente non c’è niente di veramente tradizionale al di fuori della religione.
Quanto alla metafisica e a tutto ciò che più o meno direttamente ne deriva, l’eterodossia di una concezione non è altro in fondo che la sua falsità, risultante dal disaccordo con i principi fondamentali; e questa falsità è anche per lo più un’assurdità manifesta, per poco che si voglia ricondurre la questione alla semplicità dei suoi dati essenziali: non può essere altrimenti, dal momento che la metafisica, come abbiamo detto, esclude tutto ciò che presenta un carattere ipotetico per ammettere solo ciò di cui la comprensione implica immediatamente la vera certezza.
Quanto alla metafisica e a tutto ciò che più o meno direttamente ne deriva, l’eterodossia di una concezione non è altro in fondo che la sua falsità, risultante dal disaccordo con i principi fondamentali; e questa falsità è anche per lo più un’assurdità manifesta, per poco che si voglia ricondurre la questione alla semplicità dei suoi dati essenziali: non può essere altrimenti, dal momento che la metafisica, come abbiamo detto, esclude tutto ciò che presenta un carattere ipotetico per ammettere solo ciò di cui la comprensione implica immediatamente la vera certezza.
Così stando le cose, l’ortodossia fa tutt’uno con la conoscenza vera, poiché risiede in un accordo costante con i principi; e dato che nella tradizione indù tali principi sono essenzialmente contenuti nel Vêda, è evidentemente l’accordo con il Vêda che stabilisce, qui, il criterio dell’ortodossia. Bisogna però capire bene che qui si tratta assai meno di ricorrere all’autorità dei testi scritti quanto di osservare la perfetta coerenza dell’insegnamento tradizionale nel suo insieme; l’accordo o il disaccordo con i testi vedici non è insomma che un segno esteriore della verità o falsità intrinseca di una concezione, ed è questo che costituisce realmente la sua ortodossia o eterodossia. Se così è, si potrà obiettare, perché dunque non parlare semplicemente di verità o di falsità? Perché l’unità della dottrina tradizionale, con la sua forza intrinseca, è la guida più sicura per impedire alle divagazioni individuali di espandersi liberamente; questa forza, che la tradizione ha in se stessa, è d’altronde sufficiente a tal fine, senza che sia necessaria la costrizione esercitata da un’autorità più o meno somigliante a una autorità religiosa: ciò risulta da quanto abbiamo detto sulla vera natura dell’unità indù. Là dove manca la forza della tradizione, e nemmeno vi è un’autorità esteriore che possa in qualche modo supplirvi, si vede fin troppo bene, dall’esempio della filosofia occidentale moderna, a quale confusione conducano lo sviluppo e l’espandersi sfrenato delle opinioni più azzardate e contraddittorie; se le false concezioni nascono dunque così facilmente, e anzi giungono a imporsi alla mentalità comune, è perché non è più possibile riferirsi a un accordo coi principi, perché non esistono più principi nel vero senso della parola. Al contrario, in una civiltà essenzialmente tradizionale, i principi non vengono mai persi di vista ed è sufficiente applicarli, direttamente o indirettamente, in un ordine o nell’altro; le concezioni che se ne discostano saranno dunque molto più rare, se non addirittura eccezionali, e se talora nasceranno, il loro credito non sarà mai molto grande: queste deviazioni resteranno sempre delle anomalie, come lo erano all’origine, e se poi per la loro gravità diventano incompatibili coi principi più essenziali della tradizione, saranno per ciò stesso espulse dalla civiltà dove erano nate.
Per chiarire con un esempio ciò che abbiamo detto, esamineremo il caso dell’atomismo, su cui in seguito dovremo ritornare: questa concezione è nettamente eterodossa perché in disaccordo formale con il Vêda, e d’altronde la sua falsità può facilmente essere dimostrata, poiché implica di per sé elementi contraddittori; eterodossia e assurdità sono dunque in fondo sinonimi veri e propri. Nell’India l’atomismo apparve per la prima volta nella scuola cosmologica di Kanâda; del resto è da notare che, in scuole dedite alla speculazione puramente metafisica, concezioni eterodosse non potevano formarsi con facilità, perché sul terreno dei principi l’assurdità è di un’evidenza assai più immediata che nelle applicazioni secondarie. La teoria atomista non fu mai presso gli Indù che una semplice anomalia senza grande importanza, almeno finché ad essa non venne ad aggiungersi qualcosa di più grave: ebbe dunque un’estensione molto limitata, soprattutto in paragone a quella che doveva acquistare più tardi in Grecia, dove, già venendo meno i principi tradizionali, fu correntemente accolta da diverse scuole di «filosofia fisica», e dove l’epicureismo soprattutto le diede una diffusione considerevole, la cui influenza si esercita ancora sugli occidentali moderni. Per tornare all’India, l’atomismo in un primo momento si presentò solo come una teoria cosmologica specifica, la cui portata, come tale, era alquanto limitata; ma, per coloro che ammettevano questa teoria, l’eterodossia su questo punto particolare doveva logicamente tradursi in eterodossia su molti altri punti, giacché nella dottrina tradizionale tutto è strettamente connesso. Così la concezione degli atomi quali elementi costitutivi delle cose ha come corollario la concezione del vuoto in cui tali atomi devono muoversi; da qui doveva prima o poi discendere una teoria del «vuoto universale», inteso non già in un senso metafisico concernente il «non-manifestato», ma al contrario in senso fisico o cosmologico, e in effetti così accadde in certe scuole buddhiste che, identificando questo vuoto con l’âkâsha o etere, giunsero naturalmente a negare l’esistenza di quest’ultimo come elemento corporeo e ad ammettere soltanto quattro elementi invece di cinque. In proposito bisogna ancora notare che anche la maggior parte dei filosofi greci ha ammesso solo quattro elementi, come le scuole buddhiste di cui sopra, e che se pure qualcuno di essi ha parlato di etere, lo ha fatto in modo alquanto ristretto, conferendogli un’accezione assai più specifica, e d’altronde molto meno netta, che non gli Indù. Abbiamo già detto abbastanza da dove devono venire i prestiti quando si constatano concordanze di questo genere, e soprattutto quando tali prestiti sono avvenuti in modo incompleto, che è forse la loro caratteristica più evidente; e non si obietti che gli Indù avrebbero «inventato» l’etere in un secondo tempo, per ragioni più o meno plausibili, analoghe a quelle per cui lo accettano abbastanza generalmente i fisici moderni; le loro ragioni sono di tutt’altro ordine, e non dipendono affatto dall’esperienza; come abbiamo già spiegato, non vi è alcuna «evoluzione» delle concezioni tradizionali, e d’altronde la testimonianza dei testi vedici è formale tanto per l’etere quanto per gli altri quattro elementi corporei. Sembra pertanto che in moltissimi casi i Greci, quando sono venuti a contatto con il pensiero indù, lo abbiano ereditato in modo deformato e mutilato, e che inoltre non lo abbiano sempre esposto fedelmente come lo avevano ereditato; d’altronde è possibile, come abbiamo già detto, che nel corso della loro storia essi abbiano avuto rapporti più diretti e costanti con i buddhisti, o almeno con certi buddhisti, che non con gli Indù. Comunque sia, per quanto riguarda l’atomismo, diremo ancora che è pericoloso in quanto le sue caratteristiche lo predispongono a servire di fondamento a quel «naturalismo» che in genere è tanto contrario al pensiero orientale quanto frequente, in forme più o meno accentuate, nelle concezioni occidentali; si può dire infatti che se ogni «naturalismo» non è necessariamente atomista, l’atomismo è sempre più o meno naturalista, almeno come tendenza; quando si incorpora in un sistema filosofico, come avvenne in Grecia, esso diventa anche «meccanicista», il che non sempre vuole dire «materialista», poiché il materialismo è cosa tutta moderna. Questo ha però poca importanza qui, dal momento che in India non si ha a che fare con sistemi filosofici né con dogmi religiosi; le stesse deviazioni del pensiero indù non sono mai state né religiose né filosofiche, e ciò è vero anche per il buddhismo, che peraltro è quel che in tutto l’Oriente sembra avvicinarsi di più, sotto certi aspetti, ai punti di vista occidentali, ed è quindi quel che più facilmente si presta alle false assimilazioni che gli orientalisti sono soliti fare; a questo riguardo, e benché lo studio del buddhismo non sia pertinente al nostro argomento, dobbiamo tuttavia dire qualche parola, non fosse che per dissipare certe confusioni correnti in Occidente.
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