"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

lunedì 25 maggio 2015

René Guénon, Introduzione generale allo studio delle dottrine indù - III. Le dottrine indù - 4. Sul buddhismo

René Guénon
Introduzione generale allo studio delle dottrine indù

III. Le dottrine indù 
4. Sul buddhismo[1]

Abbiamo appena detto che il buddhismo sembra più vicino alle concezioni occidentali, o piuttosto meno lontano, di quanto non lo siano le altre dottrine orientali, e quindi più facile da studiare per gli occidentali; ed è senz’altro il motivo per cui gli orientalisti gli testimoniano un’accentuata predilezione.
Costoro infatti pensano di trovarvi qualcosa che rientri negli schemi della loro mentalità, o che almeno non ne esuli completamente; comunque non si sentono imbarazzati, come nelle altre dottrine, dalla totale impossibilità di comprensione che, senza confessarselo, devono avvertire più o meno confusamente. Tale è almeno l’impressione che provano di fronte a certe forme del buddhismo, dal momento che, come diremo fra breve, occorre fare molte distinzioni al riguardo; e naturalmente vogliono vedere nelle forme a loro più accessibili il buddhismo autentico e in qualche modo primitivo, mentre le altre non sarebbero, a loro dire, che alterazioni più o meno tardive.
Ma il buddhismo, qualunque esso sia e anche negli aspetti più «semplicistici» che ha potuto assumere in qualcuna delle sue diramazioni, rimane malgrado tutto ugualmente orientale; pertanto gli orientalisti eccedono davvero troppo nell’assimilarli ai punti di vista occidentali quando, per esempio, vogliono farne l’equivalente di una religione nel senso europeo della parola, ciò che del resto li mette talvolta in un singolare imbarazzo: non ha forse dichiarato qualcuno, senza arretrare davanti a una contraddizione in termini, che si tratta di una «religione atea»? In realtà il buddhismo non è più «ateo» di quanto sia «teista» o «panteista»; semplicemente bisogna dire che non si pone dal punto di vista rispetto al quale questi termini diversi hanno un senso; ma se così non si pone, è precisamente perché non è una religione. In questo modo gli orientalisti riescono a snaturare con le loro interpretazioni anche ciò che potrebbe sembrare meno estraneo alla loro mentalità, e per di più in diverse maniere, perché quando vogliono vedervi una filosofia non lo snaturano molto meno di quando vogliono farne una religione: parlando per esempio di «pessimismo», come spesso si fa, non è certo il buddhismo che si caratterizza, o per lo meno è soltanto il buddhismo visto attraverso la filosofia di Schopenhauer; il buddhismo autentico non è né «pessimista» né «ottimista», poiché per esso le questioni non si pongono esattamente in questo modo; ma si deve pensare che per taluni sia davvero arduo non potere applicare a una dottrina le etichette occidentali.
La verità è che il buddhismo non è né una religione né una filosofia, benché alcune delle sue forme, a cui vanno le preferenze degli orientalisti, siano sotto certi aspetti più vicine all’una e all’altra di quanto non lo siano le dottrine tradizionali indù. Di fatto si tratta di scuole che, essendosi poste fuori della tradizione regolare e avendo quindi dimenticato la vera metafisica, tendevano inevitabilmente a sostituire a quest’ultima qualcosa che in una certa misura assomiglia al punto di vista filosofico, ma solo in una certa misura. Talvolta vi si trovano addirittura delle speculazioni che, quando siano osservate in superficie, possono far pensare alla psicologia, ma è evidente che non si tratta propriamente di psicologia, cosa prettamente occidentale e, anche in Occidente, recentissima, giacché risale di fatto soltanto a Locke; non bisognerebbe attribuire ai buddhisti una mentalità che procede in modo specialissimo dal moderno empirismo anglosassone. Per essere legittimo, l’accostamento non deve giungere all’assimilazione, e analogamente, parlando della religione, il buddhismo può esserle paragonato solo su un punto, importante senza dubbio, ma insufficiente a far concludere per un’identità di pensiero: si tratta dell’introduzione di un elemento sentimentale, che del resto può spiegarsi in tutti i casi come un adattamento alle condizioni particolari del periodo in cui nacquero le dottrine che ne sono portatrici e che di conseguenza non implicano necessariamente che queste ultime siano tutte di una stessa specie. La differenza reale dei punti di vista può essere di gran lunga più essenziale di una somiglianza che, tutto sommato, si regge principalmente sulla forma di espressione delle dottrine; ecco quanto sfugge in particolare a coloro che parlano di «morale buddhista»: ciò che scambiano per morale, tanto più facilmente in quanto il suo aspetto sentimentale può in effetti prestarsi a una tale confusione, è di fatto inteso in tutt’altro modo, e ha una ragione d’essere molto diversa, la quale non è neppure di un ordine equivalente. Basterà un esempio per rendersene conto: la notissima formula, «Che gli esseri siano felici», riguarda l’universalità degli esseri senza alcuna restrizione, e non i soli esseri umani; è questa una estensione di cui il punto di vista morale, per definizione stessa, non è in alcun modo suscettibile. La «compassione» buddhista non è la «pietà» di Schopenahuer; sarebbe piuttosto comparabile alla «carità cosmica» dei musulmani, che è del resto perfettamente trasferibile fuori da ogni sentimentalismo. Ciò non toglie che il buddhismo abbia incontestabilmente una forma sentimentale che, senza spingersi fino al «moralismo», costituisce tuttavia un elemento caratteristico di cui bisogna tenere conto, tanto più che è proprio uno di quelli che lo differenziano in modo nettissimo dalle dottrine indù, facendolo sembrare certo più lontano dalla «primordialità» tradizionale di quanto non lo siano queste ultime.
Un altro punto che è importante mettere in rilievo a questo proposito è che esiste un legame abbastanza stretto tra la forma sentimentale di una dottrina e la sua tendenza alla diffusione, tendenza che è presente tanto nel buddhismo quanto nelle religioni, com’è provato dalla sua espansione nella maggior parte dell’Asia; ma di nuovo non si deve esagerare la rassomiglianza, e forse non è così giusto parlare dei «missionari» buddhisti che si spinsero fuori dall’India in determinate epoche, perché, a parte che si trattò di fatto soltanto di qualche figura isolata, è inevitabile che la parola ricordi troppo i metodi di propaganda e proselitismo propri degli occidentali. D’altra parte è davvero notevole che, col progredire di questa diffusione, il buddhismo declinasse nella stessa India, finendo con lo spegnersi del tutto, dopo aver dato origine a scuole degenerate e nettamente eterodosse, contro le quali sono dirette le opere indù contemporanee a questa ultima fase del buddhismo indiano, in particolare quelle di Shankarâchârya, che se ne occupano soltanto per confutare le teorie di tali scuole in nome della dottrina tradizionale, senza del resto imputarle minimamente al fondatore del buddhismo, ciò che dimostra come si trattasse di una degenerazione; e la cosa più curiosa è che sono proprio queste forme impoverite e deviate a rappresentare con la massima approssimazione possibile, agli occhi della maggior parte degli orientalisti, il vero buddhismo originario. Su questo ritorneremo fra poco; ma prima è importante precisare che in realtà l’India non fu mai buddhista, contrariamente a quanto affermano in genere gli orientalisti, i quali vogliono in qualche modo fare del buddhismo il centro stesso di tutto ciò che riguarda l’India e la sua storia: l’India prima del buddhismo, l’India dopo il buddhismo, è questa la frattura più netta che immaginano di poter stabilire, intendendo del resto che il buddhismo lasciò, anche dopo la sua totale scomparsa, una profonda impronta nel suo paese d’origine, il che è completamente falso, per la ragione da noi indicata. Vero è che questi orientalisti. come immaginano che gli Indù siano debitori verso la filosofia greca, così potrebbero ugualmente sostenere, senza maggior offesa per la verosimiglianza, che lo furono altrettanto verso il buddhismo; e non siamo certissimi che la sostanza del pensiero di alcuni fra loro non si riduca a questo. Si deve riconoscere che al riguardo esistono stimabili eccezioni, e così Barth ha affermato che «il buddhismo ebbe solamente l’importanza di un episodio», e almeno per l’India è la rigorosa verità; ma ciò nonostante l’opinione opposta non ha mai cessato di avere la preminenza, per non parlare naturalmente della grossolana ignoranza dell’uomo comune che in Europa è incline a credere che il buddhismo sia tuttora dominante in India! Quel che si dovrebbe dire è soltanto che pressappoco all’epoca del re Ashoka, vale a dire verso il secolo III prima dell’era cristiana il buddhismo ebbe in India un periodo di grande affermazione, contemporaneo all’inizio della sua espansione fuori dell’India, e che esso fu del resto rapidamente seguito dal declino; ma anche qui, qualora si volesse trovare un’analogia col mondo occidentale, si dovrebbe dire che tale affermazione fu piuttosto simile a quella di un ordine monastico che a quella di una religione che si rivolga a tutto l’insieme della popolazione; questo paragone, senza essere perfetto, sarebbe certamente il meno inesatto.
Ma non si esauriscono qui le bizzarrie degli orientalisti: taluni, come Max Müller, tentano di scoprire «i germi del buddhismo», cioè, stando al loro modo di concepirlo, i germi dell’eterodossia, persino nelle Upanishad[2], le quali, facendo parte integrante del Vêda, sono uno dei fondamenti essenziali dell’ortodossia indù; sarebbe certo difficile spingere oltre l’assurdità e dare prova di un’incomprensione più completa. Qualunque idea si abbia del buddhismo, è tuttavia facile capire che, nato in ambiente indù e originato in qualche modo dall’induismo, esso doveva sempre, pur allontanandosene, conservare qualcosa di comune, e quanto di simile si trova da una parte e dall’altra non si spiega altrimenti; Roussel ha senza dubbio esagerato in senso contrario, insistendo sull’assoluta mancanza di originalità di questa dottrina, ma la sua opinione è almeno più plausibile di quella di Max Müller, e in ogni caso non implica alcuna contraddizione; e aggiungeremo per parte nostra che essa esprimerebbe un elogio piuttosto che una critica per quanti, come noi, si attengono al punto di vista tradizionale, dato che le differenze tra le dottrine, per essere legittime, non possono risolversi che in una semplice questione di adattamento, basandosi soltanto su forme di espressione più o meno esterne e non interessando in alcun modo i principi stessi; l’introduzione della stessa forma sentimentale rientra in questo caso, almeno finché lasci sussistere intatta la metafisica al centro della dottrina.
Ciò detto, bisognerebbe ora chiedersi fino a qual punto si possa parlare di buddhismo in generale, come si è soliti fare, senza esporsi a molteplici confusioni; per evitarle bisognerebbe invece aver cura di precisare sempre di quale buddhismo si tratta, giacché di fatto il buddhismo ha compreso e ancora comprende un gran numero di ramificazioni o di scuole diverse, e non si può attribuire a tutte indistintamente quanto appartiene in proprio soltanto all’una o all’altra. Nel loro insieme queste scuole possono raggrupparsi in due grandi divisioni che portano i nomi di Mahâyâna e Hînayâna, di solito tradotti con «Grande veicolo» e «Piccolo veicolo», ma che sarebbe più esatto e insieme più chiaro rendere con «Grande Via» e «Piccola Via»; è molto meglio conservare questi nomi, che autenticamente le designano, piuttosto di sostituirli con denominazioni quali «buddhismo del Nord» e «buddhismo del Sud» che hanno un valore esclusivamente geografico, per di più abbastanza vago, e non caratterizzano in alcun modo le dottrine in questione. Si può dire che solo il Mahâyâna rappresenta davvero una dottrina completa, incluso l’aspetto propriamente metafisico che ne costituisce la parte superiore e centrale; lo Hînayâna invece sembra una dottrina in qualche modo ridotta al suo aspetto più esterno e che non va oltre quanto è comprensibile alla maggioranza degli uomini, ciò che giustifica la sua denominazione, ed è naturalmente in questo ramo impoverito del buddhismo, di cui il buddhismo di Ceylon è attualmente il più tipico rappresentante, che si sono prodotte le deviazioni alle quali abbiamo prima accennato. Proprio qui gli orientalisti sovvertono i rapporti normali, affermando che le scuole più deviate, quelle che portano all’estremo l’eterodossia, sono l’espressione più autentica dello Hînayâna e che lo stesso Hînayâna è propriamente il buddhismo primitivo o almeno la sua continuazione regolare, ad esclusione del Mahâyâna che, per loro, sarebbe solo il prodotto di una serie di alterazioni e aggiunte più o meno tardive. Tutto sommato, essi non fanno che seguire le tendenze antitradizionali della loro mentalità, che li inducono naturalmente a simpatizzare con tutto ciò che è eterodosso, e si conformano anche più particolarmente a quel falso concetto, pressoché generale negli occidentali moderni, secondo cui quanto è più semplice, diremmo volentieri più rudimentale, dev’essere di conseguenza il più antico; con pregiudizi simili, non li sfiora neanche l’idea che è vero l’esatto contrario. Così stando le cose, è lecito chiedersi quale strana caricatura abbia potuto venir presentata agli occidentali come il vero buddhismo, quale lo avrebbe formulato il suo fondatore, e non si può non sorridere pensando che proprio questa caricatura è diventata oggetto di ammirazione per tanti di loro, seducendoli al punto che alcuni non hanno esitato a proclamare la loro adesione, peraltro teorica e «ideale», a tale buddhismo così straordinariamente conforme alla loro forma mentis «razionalista» e «positivista».
Ovviamente, quando dicevamo che il Mahâyâna doveva essere incluso nel buddhismo fin dall’origine, ci riferivamo a ciò che potremmo chiamare la sua essenza, indipendentemente dalle forme più o meno specifiche che sono proprie delle sue diverse scuole; queste forme sono solo secondarie, nondimeno sono tutto ciò che il «metodo storico» consente di scorgere e proprio questo dà una parvenza di giustificazione alle affermazioni degli orientalisti quando dicono che il Mahâyâna è «tardivo» o nient’altro che un buddhismo «alterato». A complicare ulteriormente le cose si aggiunge il fatto che il buddhismo, uscendo dall’India, si modificò in una certa misura e in modi diversi, e che così doveva necessariamente modificarsi per adattarsi ad ambienti molto dissimili; ma l’intero problema si ridurrebbe a sapere fin dove giunsero queste modificazioni, problema che tuttavia non sembra di facilissima soluzione, specie per coloro che conoscono pochissimo le dottrine tradizionali con cui esso venne a contatto. Così è in particolare per l’Estremo Oriente, dove il taoismo ha manifestamente influenzato, almeno nelle loro modalità di espressione, certe branche del Mahâyâna; la scuola Zen, specialmente, ha adottato metodi di cui è evidentissima l’ispirazione taoista. Tale fatto può spiegarsi col particolare carattere della tradizione estremo-orientale e con la profonda separazione che esiste fra le sue due parti, interna ed esterna, vale a dire fra il taoismo e il confucianesimo; il buddhismo, così, poteva in qualche modo insediarsi in una zona intermedia fra l’uno e l’altro, e si può anzi dire che in certi casi sia servito di «copertura esterna» al taoismo, consentendogli di mantenersi sempre estremamente chiuso, cosa che, altrimenti, sarebbe stata assai più difficile. Ciò spiega anche perché il buddhismo estremo-orientale assimilò certi simboli di origine taoista, e perché ad esempio identificò talvolta Kuan Yin a un Bodhisattwa, o più precisamente ad un aspetto femminile di Avalokiteshvara in virtù della funzione «provvidenziale» che è loro comune; e di sfuggita faremo notare che da qui nasce un altro errore degli orientalisti che per lo più conoscono il taoismo quasi soltanto di nome; essi hanno pensato che Kuan Yin appartenga propriamente al buddhismo e sembrano ignorare del tutto la sua provenienza essenzialmente taoista. D’altronde, quando affrontano qualcosa di cui non sanno determinare esattamente il carattere o l’origine, si traggono d’impaccio abbastanza comunemente applicandogli l’etichetta di «buddhista»; è un espediente alquanto comodo per nascondere un imbarazzo più o meno consapevole, e vi ricorrono tanto più volentieri in quanto, grazie al monopolio di fatto che sono riusciti a costituire in proprio favore, sono pressoché sicuri che nessuno verrà a contraddirli; che cosa infatti può temere, al riguardo, chi abbia posto come principio che non c’è competenza vera, in quel dato campo di studi, se non quella che si acquista alla sua scuola? Non occorre dire peraltro che tutto quanto è così, secondo il loro estro, dichiarato «buddhista», come pure ciò che effettivamente lo è, viene definito comunque «buddhismo alterato»; in un manuale di storia delle religioni già da noi ricordato, e dove il capitolo sulla Cina testimonia, nel suo insieme, una incomprensione oltremodo incresciosa, si afferma che «in Cina non restano più tracce del buddhismo primitivo», e le dottrine che vi permangono attualmente di «buddhista non hanno che il nome»[3]; se si intende per «buddhismo primitivo» quel che gli orientalisti presentano come tale, l’affermazione è del tutto esatta, ma bisognerebbe prima sapere se si debba accettare l’idea che essi se ne fanno o se non sia piuttosto quest’ultima che, al contrario, rappresenta effettivamente un buddhismo degenerato.
La questione dei rapporti fra buddhismo e taoismo è ancora relativamente facile da chiarire, purché, beninteso, si sappia che cos’è il taoismo; ma bisogna riconoscere che ve ne sono di più complesse; ed è soprattutto quando si considerano non più elementi appartenenti a tradizioni estranee all’India, ma elementi indù, riguardo ai quali può essere difficile dire se siano sempre stati più o meno strettamente connessi al buddhismo a causa dell’origine indiana di quest’ultimo o se, piuttosto, non si siano integrati in un secondo tempo a qualcuna delle sue forme. Così è per esempio degli elementi shivaiti che tanta importanza hanno nel buddhismo tibetano, detto comunemente, in modo abbastanza poco corretto, «lamaismo»; questo, del resto, non è proprio del solo Tibet, giacché anche a Giava si ritrova uno Shiva-Buddha che testimonia un’associazione dello stesso genere portata al suo estremo. Di fatto la soluzione di questo problema potrebbe trovarsi nello studio dei rapporti del buddhismo, sia pure originario, col tantrismo; ma quest’ultimo è conosciuto così male in occidente, che sarebbe quasi inutile parlarne senza addentrarsi in considerazioni troppo lunghe che non possono trovar posto qui; ci limiteremo quindi a questa semplice indicazione per lo stesso motivo che ci ha spinti a ricordare solo incidentalmente la civiltà tibetana, nonostante la sua importanza, quando abbiamo elencato le grandi divisioni dell’Oriente.
Ci resta ora da trattare, almeno sommariamente, un ultimo punto: come mai il buddhismo si è così espanso fuori del suo paese di origine con grande floridezza, mentre nel suo stesso paese è degenerato abbastanza rapidamente finendo con l’estinguersi? e non risiede precisamente in questa diffusione esterna la vera ragione d’essere del buddhismo stesso? Intendiamo dire che il buddhismo sembra davvero destinato a popoli non indiani; tuttavia fu necessario che avesse origine dall’induismo stesso per riceverne gli elementi da trasmettere altrove dopo un necessario adattamento; ma una volta assolto questo compito, era tutto sommato normale che scomparisse dall’India, dove non aveva un suo vero posto. In proposito si potrebbe fare a ragion veduta un paragone fra la situazione del buddhismo in rapporto all’induismo e quella del cristianesimo in rapporto all’ebraismo, purché ovviamente si tenga sempre conto delle differenze dei punti di vista su cui abbiamo insistito. In ogni caso questa considerazione è la sola che permetta di riconoscere al buddhismo, senza rischiare di essere illogici, il carattere di dottrina tradizionale che è impossibile rifiutare per lo meno al Mahâyâna, così come l’eterodossia non meno evidente delle forme ultime e deviate dello Hînayâna; ed è anche quella che spiega che cosa ha potuto essere in realtà la missione del Buddha. Se egli avesse insegnato la dottrina eterodossa che gli attribuiscono gli orientalisti, sarebbe del tutto inconcepibile che numerosi indù ortodossi non esitano a considerarlo un Avatâra, vale a dire una «manifestazione divina», di cui presenta in effetti tutti i caratteri ciò che di lui si riferisce; vero è che gli orientalisti, i quali per partito preso intendono eliminare tutto ciò che ha carattere «non umano», affermano che si tratta solo di «leggenda», qualcosa quindi che non ha valore storico, e inoltre è estraneo al «buddhismo primitivo», ma se si eliminano questi fatti «leggendari», che cosa rimane del fondatore del buddhismo come individualità puramente umana? Certo sarebbe difficilissimo dirlo, ma la «critica» occidentale non si sconcerta per così poco, e per scrivere una vita del Buddha adattata alle sue opinioni, arriva al punto di porre in linea di principio, con Oldenberg, che gli «indo-germani non ammettevano il miracolo»; come restare seri davanti ad affermazioni simili? Questa sedicente «ricostruzione storica» della vita del Buddha ha lo stesso valore di quella della sua dottrina «primitiva», e discende interamente dagli stessi pregiudizi; sia nell’una che nell’altra si tratta principalmente di sopprimere tutto quel che dispiace alla mentalità moderna, ed è con tale procedimento eminentemente «semplicista» che costoro immaginano di giungere alla verità.
Di più non diremo al riguardo, perché non è il buddhismo che ci prefiggiamo qui di studiare e perché ci bastava «situarlo», da un lato, in rapporto alle dottrine indù e dall’altro in rapporto ai punti di vista occidentali ai quali si tenta di identificarlo più o meno indebitamente. Dopo questa digressione possiamo quindi ritornare alle concezioni propriamente indù, ma non prima di aver formulato un’ultima riflessione che potrà servire in qualche modo da conclusione a tutto quanto abbiamo testé detto: se gli orientalisti, che si sono per così dire «specializzati» in buddhismo, commettono al riguardo tanti errori gravi, che valore potrà avere quel che dicono delle altre dottrine, le quali per essi sono state sempre e soltanto oggetto di studi secondari, oggetto che in confronto al primo è quasi «accidentale»?



[1] Per i lettori che conoscessero la prima edizione di questo libro, riteniamo opportuno indicare brevemente le ragioni che ci hanno indotto a modificare il presente capitolo: quando apparve la prima edizione non avevamo motivo di mettere in dubbio che, come abitualmente si pensa, le forme più ristrette e più nettamente antimetafisiche dello Hînayâna rappresentassero l’insegnamento stesso di Shâkya-Muni; non avevamo il tempo di intraprendere le lunghe ricerche che sarebbero state necessarie per approfondire di più questo problema e d’altronde quel che allora conoscevamo del buddhismo non era tale da impegnarci a farlo. Sennonché da allora le cose sono molto cambiate dopo i lavori di A. K. Coomaraswamy (il suo essere indù, e non buddhista, garantisce sufficientemente della sua imparzialità) e la sua reinterpretazione del buddhismo originario, il cui vero significato è estremamente difficile da isolare da tutte le eresie che in seguito sono venute a sovrapporvisi, e che noi avevamo soprattutto in mente al momento della prima stesura; è sottinteso che, per quanto riguarda tali forme deviate, ciò che avevamo scritto allora resta pienamente valido. Approfittiamo dell’occasione per aggiungere che siamo sempre disposti a riconoscere il valore tradizionale di ogni dottrina, dovunque essa si trovi, qualora ne avessimo prove sufficienti; ma, sfortunatamente, se le nuove informazioni che abbiamo ottenuto sono interamente favorevoli alla dottrina di Shâkya-Muni (il che non vuol dire di tutte indistintamente le scuole buddhiste), ben diversamente accade per tutte le cose di cui abbiamo denunciato il carattere anti-tradizionale.
[2] The Upanishads, tomo II, Introduzione, pag. XXVI-XXVII, L-LIII.
[3] Christus, cap. IV, p. 187.

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