"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

lunedì 29 gennaio 2018

Carmela Crescenti, Jihad: impegno sacrificale e codice d’onore

Carmela Crescenti
Jihad: impegno sacrificale e codice d’onore

È noto ormai al mondo occidentale che il termine jihâd non è traducibile con “guerra santa” se non facendo doverose precisazioni linguistiche, ideologiche e contenutistiche.
Si sa infatti che la parola in sé rimanda ad una radice JHD in cui il significato prevalente è quello di compiere uno sforzo, applicarsi con assiduità e zelo a qualcosa, in vista di un determinato scopo. (Kazimirski).
È in virtù del suo uso giuridico e della sua collocazione nella shari’a, la legge islamica, che tale termine ha assunto il ristretto significato di guerra per la difesa del diritto divino, e questo è ciò a cui si riferisce il termine di guerra santa di derivazione occidentale. Che poi il significato nelle applicazioni si sia ancor più impoverito, finendo per riferirsi ad ogni azione bellica compiuta dai musulmani in nome di Dio, anche laddove le motivazioni religiose erano puri e semplici pretesti per avallare mire espansionistiche o prevaricazioni ideologizzanti, è un dato di fatto storico.
Il Corano e gli ahâdîth (i detti e fatti del Profeta) che rimandano ai significati più spirituali ed essenziali  ogni termine cardine, fondamento della shari’a, ci suggeriscono spesso, con il termine jihâd, la grande guerra spirituale intrapresa da chi rivolge tutto se stesso alla ricerca del Volto di Dio ed impegna i beni e la vita sulla Sua Via.
«E lottate con zelo in Dio, con tutto lo sforzo dovuto. Egli vi ha prescelti e nella religione che ha rivelato non vi ha imposto nulla di gravoso. Essa è la tradizione del padre vostro Abramo; lui vi ha chiamati muslim fin da prima...» Cor. XXII 78
Ma ciò su cui vorremmo qui porre l’accento è il codice di comportamento che il jihâd comporta, intendendolo, allora, proprio nella sua accezione, più terrena e limitata, di combattimento prescritto da Dio a difesa di ciò che è sacro.
«Il permesso (di combattere) è dato a coloro che sono combattuti  perchè sono stati oggetto di tirannia e certo Dio è ben capace di soccorrerli; a coloro che sono stati cacciati ingiustamente dalle loro case, senza altro motivo che l’aver detto: Il nostro Signore è Dio...» Cor. XXII 39-40
Questo versetto che, secondo l’esegesi circostanziale islamica, era stato rivelato al Profeta poco dopo il suo arrivo a Medina, diede anche l’avvio ai preparativi per l’epica battaglia di Badr, la prima che i musulmani dello stato teocratico di Medina combatterono contro i nemici meccani. Esso è, inoltre, il versetto coranico giustificativo della guerra, quello che fa sì che nei trattati di diritto islamico si possa dire che il jihâd è un obbligo di istituzione divina, posto, al pari di altri obblighi, tra le opere rituali prescritte nel compimento dello statuto divino; e tuttavia mitigato, quanto alla sua imposizione, per il fatto che si tratta di un atto il cui assolvimento da parte di alcuni, ne dispensa altri. Ciò non giustifica certo la codardìa o la viltà, ma semplicemente prende in considerazione le necessità contingenti e circostanziali per cui sono esonerati dall’entrare in battaglia anziani e malati, donne e bambini. Ed altrettanto vi sarà restrizione rispetto al raggio d’azione della guerra, per cui nessuno che abbia ricevuto l’amân (il patto di salvaguardia) dovrà essere ucciso o coinvolto nelle azioni belliche. Non si dovranno violare i patti presi in precedenza con coloro con i quali ci si era accordati né potranno esser uccisi donne e bambini, a meno che non abbiano partecipato in qualche modo ai combattimenti ed altrettanto si dovrebbe fare con monaci o rabbini considerati genti pacifiche dedite a Dio e non coinvolte nella guerra.
I versetti coranici poco sopra riportati proseguono con indicazioni esplicite al riguardo, mostrando i motivi sacrali della legittimità del combattimento, necessario per la difesa di coloro che sono interamente dediti a Dio: 
«E certo se Dio non respingesse alcuni uomini per mezzo di altri, giacerebbero ora distrutti: monasteri, sinagoghe, chiese e moschee, nei quali il nome di Dio è molto menzionato. Certamente Dio soccorrerà con la vittoria colui che lo pone in trionfo. In verità Dio è Possente ed Eminente.» Cor. XXII 40
Eppure quanti, in nome di Allâh, hanno pensato di potersi arrogare il diritto di giudicare ed uccidere non per gli stessi motivi? Dov’è la sacralità dell’azione se un codice d’onore ed un rigore rituale non aprono in modo effettivo il compiersi del sacrificio e del giudizio divino?
Nel codice di sacralità della guerra v’è dunque il rispetto ancestrale del divino, precedente persino l’avvento storico dell’islâm, che considera l’inviolabilità ed intangibilità dello spazio sacro, del tempo sacro e della persona dedita a Dio. A questo proposito dice il Corano: 
«Essi ti chiederanno del mese sacro e del combattervi. Dì: combattere in questo mese è una grande offesa, ma più grave è distrarre gli uomini dalla Via di Dio, distogliere da Lui e la Moschea Sacra, lo scacciare il suo popolo di là, sono cose più gravi per Dio. Ed il disordine è più grave dell’uccisioneCor. II 217
Si nota inoltre che nessun versetto coranico, nessun hadîth, giustifica la volontà di eccidio di popoli e l’uso di armi abnormi in rapporto al nemico che si ha dinnanzi.
Anche sul piano più esteriore e comune al genere umano è evidente che l’intento del jihâd è quello di arginare un male diffuso e ristabilire la giustizia e, se anche è primariamente importante ristabilirla dapprima in sé stessi, nel proprio cuore, è tuttavia importante ed in taluni casi necessario farlo anche esteriormente per cui, ancora una volta restringendo il campo di visuale al solo ambito della lotta armata, vediamo come in linea generale ciò a cui si mira è schierare in campo una parità di forze, non considerata tuttavia dal solo punto di vista quantitativo, bensì fondamentalmente da quello qualitativo. Così si legge ancora nei trattati di giurisprudenza: “Fuggire davanti al nemico è un peccato mortale, se gli effettivi avversari sono il doppio o meno del doppio del numero dei combattenti musulmani; ma se il nemico ha forze superiori al doppio dei nostri, non è sconveniente fuggire.” (Risâla Qairawâniyya).
Si sa che nelle battaglie dei primi tempi dell’islâm i musulmani schierati contro gli arabi avversari furono spesse volte in numero molto inferiore rispetto all’armata nemica, ma è significativo anche il fatto che i combattimenti che aprirono la battaglia di Badr furono scontri alla pari, veri e propri duelli da cavalieri: dapprima ci fu l’uccisione da parte di Hamza, zio del Profeta, di Aswad dei Banû Makhzûm che marciava alla testa dell’armata Quraishita avversaria dei musulmani di Medina; poi, a riscatto di questa uccisione, fu lanciata una sfida da parte di tre nobili Quraishiti che richiesero espressamente di far schierare in campo tre campioni della loro stessa tribù. E l’Inviato di Dio permise l’uscita in campo di tre uomini pari ai primi per grado di nobiltà, età ed esperienza d’armi.
Il combattimento tra campioni, alla pari, era, in origine, un’ordalia: un giudizio il cui esito non doveva mostrare il prevalere della forza di uno su quella dell’altro, bensì il manifestarsi del volere divino, in un decreto a Lui noto, ma non sempre esplicito e ben accetto all’uomo.
«V’è stato prescritto di combattere e questo vi è sgradito. Può darsi che troviate sgradevole una cosa che invece è un bene per voi e può darsi che vi piaccia una cosa che invece è un male per voi. Iddio sa e voi non sapeteCor. II 216.
In questo versetto, come del resto in molti altri riferibili alla guerra, non compare il termine jihâd, è usata, invece, la parola qitâl che vuol dire propriamente combattere contro qualcuno, essendo un infinito di terza forma e quindi implicante l’idea di confronto con qualcuno nell’azione che si compie. La radice QTL da cui deriva si riferisce più espressamente all’idea di uccidere ed è quindi il combattere e togliere la vita all’avversario che sono indicati come cose sgradite.
Ma il preciso riferimento alla Sapienza divina risospinge ancora una volta l’idea del combattimento al compimento di uno sforzo sovrumano, estremo sacrificio, inteso questo come immolazione della vittima ed atto di sacralizzazione.
Per tornare al codice d’onore ed al rigore morale richiesti a coloro che si impegnano in combattimenti è bene richiamare alla mente le parole di un proclama di Abû Bakr, il primo successore del Profeta alla guida dei musulmani, suo fedelissimo compagno ed amico:
“Siate giusti e coraggiosi, pronti a morire piuttosto che cedere; siate misericordiosi. Non uccidete uomini anziani, donne e bambini. Non distruggete alberi da frutta, grano o bestiame. Mantenete la parola data anche di fronte ai nemici. Non molestate quei religiosi che vivono ritirati dal mondo, ma obbligate gli altri a farsi musulmani o a pagarci il tributo. Se rifiutano tali condizioni allora uccideteli.”
In esso la scelta data ai nemici non era islâm o morte, ma islâm, tributo o morte e le stesse prescrizioni a proposito della preservazione degli inermi, si estendono alle ricchezze della natura e ai beni comuni. Queste stesse indicazioni furono date dal Profeta dell’islâm in occasione del suo ultimo pellegrinaggio, noto per questo come il Pellegrinaggio dell’Addio, quello che compì nell’anno 631 dell’era cristiana.

Articolo apparso sulla rivista “Idea, il Giornale del Pensiero”. Ed. Gei

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