Il Serpente e la Corda
Indice I Parte
Introduzione
1. Attuale situazione delle forme tradizionali e delle organizzazioni iniziatiche
2. L’induismo contemporaneo e le sue organizzazioni iniziatiche
3. La Conoscenza o esperienza intuitiva del Brahman
4. L’Intuizione che sorge dall’osservazione dei tre stati
5. Gli strumenti di conoscenza che rimuovono l’ignoranza
6. Alcune considerazioni sul metodo vedāntico: śrāvaṆa
7. Alcune considerazioni sul metodo vedāntico: manana
8. Alcune considerazioni sul metodo vedāntico: nididhyāsana
9. Significato vedāntico di Yoga
10. Gradi di discriminazione tra Sé e non-Sé
11. Da manana a nididhyāsana
12. Superamento delle opinioni erronee e delle difficoltà
13. Significato vedāntico di alcuni termini ricorrenti nei testi
11. Da manana a nididhyāsana
In qualunque modo nididhyāsana sia chiamato nei diversi
testi, il punto di partenza su cui si basa è sempre l’Ātma pratyāya,
vale a dire la certezza d’essere il Sé esistente e cosciente; questa è una
esperienza indiscutibile, condivisa anche tra gli uomini comuni. Ma l’uomo
comune confonde la certezza di esistere come Sé cosciente con il proprio senso
dell’“io”.
L’iniziato all’Advaita Vedānta deve invece corroborare questa esperienza assumendo la consapevolezza che il Sé non è l’“io”, bensì il Brahman, com’è dimostrato dalla conoscenza della propria vera natura (Ātma svarūpa). Il sādhaka, cioè, deve anzitutto riconoscere l’assolutezza della prospettiva metafisica (pāramārtika siddhānta) che riguarda il Brahman Supremo (Parabrahman), distinguendola da qualsiasi altro punto di vista fino a quel momento condiviso, che appare allora come parziale e illusorio. Tuttavia questo rovesciamento di prospettiva si può presentare spontaneamente solo a conclusione di un percorso di conoscenza non suprema (aparavidyā), prenatale[1] o compiuto durante la vita attuale, come purificazione attraverso gli elementi grossi e sottili della propria individualità, ciò che costituisce la catarsi della mente (mānasa śodha) o restaurazione dello stato mentale primordiale (ādya sthāna). Ciò predispone l’iniziato a mettersi in contatto con un maestro di Vedānta realizzato, dal quale ottenere l’insegnamento (upadeśa) del metodo discriminativo per mezzo del “neti neti” upaniṣadico[2]. Vale a dire che dal guru dovrà imparare l’uso di manana in accordo con la dottrina[3], al fine di procedere per intuizione. Infine dovrà collocarsi in una prospettiva tale da identificarsi con la propria coscienza del Sé, in modo da riconoscere l’onnipervadenza dell’Ātman in tutti i fenomeni duali, praticando così nididhyāsana, o ādhyātmika yoga.
L’iniziato all’Advaita Vedānta deve invece corroborare questa esperienza assumendo la consapevolezza che il Sé non è l’“io”, bensì il Brahman, com’è dimostrato dalla conoscenza della propria vera natura (Ātma svarūpa). Il sādhaka, cioè, deve anzitutto riconoscere l’assolutezza della prospettiva metafisica (pāramārtika siddhānta) che riguarda il Brahman Supremo (Parabrahman), distinguendola da qualsiasi altro punto di vista fino a quel momento condiviso, che appare allora come parziale e illusorio. Tuttavia questo rovesciamento di prospettiva si può presentare spontaneamente solo a conclusione di un percorso di conoscenza non suprema (aparavidyā), prenatale[1] o compiuto durante la vita attuale, come purificazione attraverso gli elementi grossi e sottili della propria individualità, ciò che costituisce la catarsi della mente (mānasa śodha) o restaurazione dello stato mentale primordiale (ādya sthāna). Ciò predispone l’iniziato a mettersi in contatto con un maestro di Vedānta realizzato, dal quale ottenere l’insegnamento (upadeśa) del metodo discriminativo per mezzo del “neti neti” upaniṣadico[2]. Vale a dire che dal guru dovrà imparare l’uso di manana in accordo con la dottrina[3], al fine di procedere per intuizione. Infine dovrà collocarsi in una prospettiva tale da identificarsi con la propria coscienza del Sé, in modo da riconoscere l’onnipervadenza dell’Ātman in tutti i fenomeni duali, praticando così nididhyāsana, o ādhyātmika yoga.
Passiamo ora a descrivere più tecnicamente come, attraverso manana, s’arrivi all’Adhyātma.
Tutta l’esperienza del mondo esterno è garantita esclusivamente dalle cinque
facoltà di senso: l’udito (śrotra), che recepisce i suoni acuti o gravi,
continui o ripetuti, in tonalità diverse, prodotti nell’ambiente esterno al
nostro corpo; la vista (cakṣus), che ravvisa le forme e i colori; il
tatto (tvak), che degli oggetti che entrano in contatto con la pelle
afferra le sensazioni di caldo-freddo, morbido-duro, liscio-scabro,
leggero-pesante; il gusto (rasanā), che assapora il dolce, il salato,
l’aspro, l’amaro, il piccante, l'astringente; l’odorato (ghrāṇa), che
riceve il fragrante, il fruttato, l’agro, il pungente, il mucido e il rancido.
Al di fuori di queste esperienze sensoriali, non si può aver alcun contatto con
gli oggetti esterni. Inoltre, possiamo affermare che se non ci fossero questi
cinque strumenti di sensazione, non avremmo alcuna prova dell’esistenza del
mondo esterno. O, per meglio dire, il mondo esterno non esisterebbe in quanto
tale. I jñānendriya quindi sono ciò che fa esistere il mondo. Perciò le
facoltà di senso sono il “Sé” del mondo.
Tutto questo[4] in verità è il Brahman: questo Ātman è Brahman e questo Ātman ha quattro piedi (pāda).[5] Il primo pāda è Vaiśvānara, il cui dominio è lo stato di veglia. Egli conosce gli oggetti esterni.[6]
Quando è messo in relazione con ciò che gli è diverso (anātman)
l’Ātman, appare all’uomo ordinario in quattro forme differenti: sembra
che dimori all’interno del proprio aham; sembra pervadere le cose
esterne; rimane comunque indipendente da esse; e, infine, si rapporta con tutti
gli oggetti riconosciuti come anātman, come un’essenza a essi superiore[7].
La mente è superiore ai sensi, l’intelletto è superiore alla mente, il mahān Ātman [il jīvātman] è superiore all’intelletto e l’Indifferenziato supremo è superiore al mahān Ātman.[8]Si dice che i sensi sono superiori [agli oggetti], che la mente è superiore ai sensi, che l’intelletto è superiore alla mente, che il Sé è superiore all’intelletto...[9]
Naturalmente, le caratteristiche principali dei non-Sé sono
diametralmente opposte a quelle dell’Ātman. Perciò gli anātman appaiono
come esterni, sono pervasi dall’Ātman, dipendono dall’Ātman e
risultano inferiori e più grossolani del Sé. Procedendo in conformità a questi
quattro criteri, l’inziato advaitin sarà in grado di riconoscere la
natura del Sé riflettendo su tutta la gradazione degli oggetti manifestati a
partire dal mondo esterno, fino a raggiungere l’Ātman interiore. In
questo modo di procedere per mezzo del manana, il primo gradino
consisterà nel rimuovere il mondo esterno per mezzo dei jñānendriya.
Ovvero, dopo aver riconosciuto che si può avere l’esperienza del mondo esterno
solamente attraverso le vibrazioni sensibili che sono recepite dai sensi, si
arriva alla consapevolezza che non c’è alcun mondo esterno che sia indipendente
da queste sensazioni sperimentate dai jñānendriya. Avendo compreso a
fondo ciò, il sādhaka non si rivolgerà più al mondo, poiché non potrà
più essere attratto degli oggetti esterni. Il risultato di questa ferma presa
di coscienza è definito come “eliminazione del mondo esterno per mezzo delle
facoltà di senso”.
Questo è un primo passo sulla via della rinuncia (vairāgya
o saṃnyāsa).
Dopo questo primo gradino preparatorio, si deve individuare qual è
la fonte dei jñānendriya. Procedendo allo stesso modo, il sādhaka arriverà
alla conclusione che la mente è il Sé delle facoltà di senso, in quanto
coordina e unifica le informazioni che riceve. Anche in questo caso il manas
appare risiedere nei sensi, pervadendoli interamente, pur rimanendone
distaccato, poiché risulta comunque sempre superiore ai jñānendriya. Di
converso si procederà a considerare che i sensi sono esterni alla mente, pur
essendone pervasi; le facoltà di senso, perciò, appaiono dipendenti dal manas
che è loro superiore. Perciò lo stesso rapporto di sudditanza che hanno gli
oggetti esterni nei confronti dei sensi si ritrova nella subordinazione dei jñānendriya
alla mente. Ciò comporta la ferma presa di consapevolezza da parte del sādhaka
che è la mente che prende l’apparenza non solo delle facoltà di senso, ma
anche del mondo esterno, ivi comprese la concezione della perennità temporale,
dell’immensità spaziale, della causalità e delle altre condizioni
dell’esistenza corporea. Questa presa di coscienza è definita come
“eliminazione dei sensi per mezzo della mente”.
Dopo di ciò si dovrà procedere per questa via d’introspezione a
esaminare l’intelletto. La buddhi è la facoltà di decisione che delimita
e oggettiva l’agitazione e l’emotività del manas. L’intelletto, perciò,
è il Sé della mente. Con acuta attenzione, si eliminerà la mente per mezzo
dell’intelletto, procedendo grazie alle osservazioni già usate nei gradini
precedenti. Il discepolo arrivato a questo livello s’identifica alla buddhi.
Per lui non ci sono più né mente né sensi né mondo esterno che possano
sussistere indipendentemente dall’intelletto. Questa presa di coscienza è
definita come “eliminazione della mente per mezzo dell'intelletto”.
A questo punto il sādhaka discriminerà l’intelletto (buddhi)
dal suo substrato, ovvero l’aham, il senso dell’“Io”[10]. L’aham oggettiva l’intelletto in questo modo: «Il mio intelletto è
capace di comprendere questa e quella cosa, mentre è incapace di comprendere
tal’altra. Invece l’“Io” mi è sempre ugualmente presente». Da ciò deriva che l’ego
è l’essenza interiore all’intelletto: inoltre, a questo punto, ci si accorgerà
che è l’aham che gode o soffre per le scelte della buddhi. Ciò
sta a dimostrare che l’intelletto è strumentale nei confronti del senso
dell’“Io”, e che quanto la buddhi considera piacevole o spiacevole, in
realtà diventa esperienza dell’aham, e l’aham s’identifica in
qualche modo con quelle sensazioni piacevoli o spiacevoli. Perciò l’“Io” ne è
il vero fruitore. Quando questo senso dell’“Io” è considerato nella dimensione
microcosmica, cioè nel particolare, esso è chiamato jīvātman. Quando
questo medesimo senso dell’ego si riferisce alla prospettiva
macrocosmica o universale, esso è chiamato Hiraṇyagarbha. La distinzione tra jīvātman
e Hiraṇyagarbha, tuttavia, ha senso soltanto per coloro che sono impegnati
in vie che appartengono al dominio del Brahman non-Supremo. Infatti, nelle vie
della conoscenza non suprema (aparavidyā) il sādhaka può superare
quella distinzione solo nei prolungamenti della vita postuma quando, a
conclusione del devayāna, egli si universalizzerà incorporandosi a Hiraṇyagarbha,
considerato come jīva ghana. In jīva ghana, come dice lo stesso
termine, i jīva sono reintegrati in una unica “nube” vitale, un “insieme
sintetico di vita” per “non più ritornare”.
Non è così per il Vedānta. Quando, durante la vita nel
corpo, l’advaitin arriva a quel grado di coscienza in cui si discrimina
tra aham e intelletto, il suo jīvātman appare allora identico a
Hiraṇyagarbha[11]. L’identità jīvātman-Hiraṇyagarbha
è denominata in termini vedāntici mahān Ātman, il grande Ātman.
Questo significa che qui il sādhaka ha realmente inglobato in Sé tutti i
mondi (loka) e gli stati (avasthā) individuali di veglia e di
sogno[12]. A questo punto l’intelletto è del tutto rimosso per mezzo dell’aham.
Ovviamente per arrivare a questa rimozione si deve riflettere per mezzo dei
medesimi quattro criteri esposti nelle righe precedenti. Quindi l’aham,
considerato nella sua dimensione di mahān Ātman, appare evidentemente
essere il Sé di tutti gli oggetti formali, sia esterni sia interni. Questa
presa di coscienza è definita come “eliminazione della buddhi per mezzo
del mahān Ātman”.
Quando si considera il senso dell’aham, esso appare
invariabilmente accompagnato da tutto il corteo degli oggetti appartenenti al
suo proprio mondo. E qui sarà essenziale ricordare e ragionare intuitivamente
che il nostro aham nello stato di veglia (jāgrat avasthā) e
quello nello stato di sogno (svāpna avasthā) non sono il medesimo “io”.
Infatti, essi non hanno alcuna relazione reciproca, per quanto strano possa
sembrare all’esperienza ordinaria, vyāvahārika anubhāva:
[L’Ātman], dopo aver fruito e aver vagato in stato di sogno, dopo aver sperimentato lì buone e cattive azioni, torna indietro alla sua condizione precedente, cioè allo stato di veglia, procedendo in senso contrario [rispetto a quello in cui era entrato in stato di sogno]. Non si porta dietro nulla di tutti gli oggetti che aveva visto durante il suo vagare, perché questo Puruṣa rimane incontaminato. E allo stesso modo, dopo aver fruito e aver vagato in stato di veglia, dopo aver sperimentato lì buone e cattive azioni, torna indietro alla sua condizione precedente, procedendo in senso contrario [rispetto a quando era entrato in stato di veglia], allo stato di sogno.[13]
L’Ātman assume nel sogno un senso dell’ego tipico di quello
stato che proietta un suo proprio mondo onirico:
Questo autoluminoso [Deva], assumendo parvenze talvolta nobili e talvolta animalesche, proietta innumerevoli forme: talvolta gode ridendo della compagnia di fanciulle, talvolta presenziando a scene orribili.[14]
Naturalmente ciò avviene in maniera analoga di quando l’Ātman
si ritrova nello stato di veglia. E dove non c’è senso dell’“io” non vi è
alcuna traccia di nessun mondo, com’è il caso della suṣupti avasthā. Per
questo motivo il Macrocosmo e il microcosmo devono essere considerati in modo
unitario: e questo è peculiare del Vedānta. Per ottenere conferma di
ciò, dobbiamo considerare la vita in questo mondo da un punto di vista
onnicomprensivo sulla base dell’esperienza intuitiva universale. Quando appare
l’aham dello stato di veglia, viene in esistenza l’intero mondo della
veglia. Esattamente allo stesso modo quando compare l’“io” dello stato di
sogno, assieme a lui prende esistenza il mondo del sogno. Ma, quando nello
stato di sonno profondo questi due tipi di aham, accompagnati dal loro
seguito di buddhi, manas, e sensi, scompaiono, non vi è più
alcuna traccia di qualsiasi mondo e di qualsiasi dualità. Perciò è evidente che
questi aham sono il sé di tutti i fenomeni manifestati. Che ovviamente
non è ancora l’Ātman in quanto tale.
A questo punto il sādhaka dovrà oggettivare il suo senso
dell’“io”, “collocandosi” nella vera natura del proprio Sé che è il Testimone (Sākṣin)
dell’“io”. Per fare del senso dell’“io” un oggetto, l’unico metodo da usare è
la discriminazione[15]. Quando per mezzo dell’attenzione contemplativa (nididhyāsana) si
arriverà a riconoscere il grado di realtà dell’aham, ovvero quando lo si
considererà come un oggetto altro da Sé, allora ci si troverà nella propria
vera natura di Ātman, poiché solo quest’ultimo è il Testimone dell’ego.
Non c’è necessità di alcuno sforzo per “collocarsi” nella vera natura del Sé,
poiché essa è la nostra stessa natura come Essere totale, il quale è sempre
Quello (tat). Ci si forma l’errata idea che “io sono così e così” a
causa della falsa identificazione con i non-sé, come l’ego, la buddhi
ecc. Assumendo questo processo di discriminazione con la mente (antaḥkāraṇa)
concentrata su questo Ādhyātmika yoga, come è stato descritto qui in
poche righe, si cancella la propria identificazione con l’aham e con
tutto il suo seguito. Per esempio, quando il sādhaka discrimina il senso
dell’ego come appare nello stato di veglia dal diverso senso dell’ego
che appare nello stato di sogno, mentre scompaiono del tutto nello stato di
sonno profondo, in quel momento egli rinuncia alla sua identificazione con
l’idea di “io”. Ma quando egli volesse esprimere questa intuizione, allora
immediatamente egli si riapproprierebbe del suo senso dell’“io” e degli
strumenti che sono usati da quest’ultimo, proprio per poter spiegare la sua
intuizione. Ciò lo può portare a essere confuso e potrebbe pensare: «Ho
conosciuto l’assenza del senso dell’“io” nel sonno profondo per mezzo del mio
intelletto e della mia mente».
Invece non può essere così, perché suṣupti non
è manifestato e in quel dominio le facoltà individuali non hanno accesso per
poter indagare. Quindi, per “collocarsi” nella vera natura del Sé, non c’è altro
mezzo se non quello della discriminazione. Ciò è spiegato molto chiaramente da
Śaṃkara[16]. Una citazione summenzionata si conclude in questo modo:
Chi usa la discriminazione, viveka, riconduca [...] il mahān Ātman [il jīvātman] all’immutabile Ātman [Śāntātman].[17]
Vediamo ora, dunque, qual è il significato di questa frase. Per
mezzo dell’Adhyātman il sādhaka giunge a conoscere che la propria
natura è al di là dell’“io”. Quando diventa cosciente di questa verità, allora
rimane in se stesso come Testimone dell’ego. Perciò conoscere il Sé vuol
dire essere il Sé; ed essere il Sé vuol dire cessare di identificarsi con il
non-Sé. Qui il sādhaka è penetrato all’interno di se stesso riflettendo
intensamente con discriminazione ed è arrivato al limite estremo della dualità,
al centro stesso dell’esistenza, dove sta come puro Ātman o Testimone
dell’ego. In seguito, allo stesso modo con cui aveva proceduto
anteriormente, ma in senso inverso, egli dovrà osservare la natura
onnipervadente del Testimone in tutte le cose, a partire dall’ego fino
al mondo esterno. In questo modo prenderà coscienza che ciò che fino a quel
momento aveva considerato non-sé, (anātman) non ha alcuna esistenza
indipendente dalla vera natura del Sé. Né è possibile a questo punto
distinguere il Sé da tutto il resto in base alle concezioni di tempo e di
spazio, perché tempo, spazio e causalità fanno parte esclusivamente del dominio
dell’aham. Perciò nemmeno il non-sé è nel tempo e nello spazio, poiché
la vera natura dell’Ātman, da cui l’anātman è indistinguibile,
non è sottoposta alle condizioni di tempo e spazio. Quindi non è possibile
affermare che il Sé viene prima e il non-sé viene dopo, o che il Sé sta qui e
il non-sé lì. Rigorosamente parlando tutte le apparenze di non-sé sono pervase
solo dall’Ātman, esattamente come l’acqua pervade le onde e la creta
ogni tipo di vasellame. Perciò non c’è alcun anātman che esista in
quanto tale diverso da Ātman. Quando non si conosce la vera natura del
Sé, allora ci si forma un’idea errata del Sé, come se esso fosse non-sé. Da qui
l’errore di credere che il mondo non sia il Sé e perciò che sia inesistente.
Questa verità è confermata dal seguente passaggio della śruti:
Perché il fatto è che dove c’è dualità là uno vede l’altro, là uno annusa l’altro, là uno gusta l’altro, là uno parla all’altro, là uno ascolta l’altro, là uno pensa all’altro, là uno tocca l’altro, là uno conosce l’altro. Ma quando per quella persona tutto è diventato il solo Ātman, chi si potrebbe vedere e con che cosa? Chi si potrebbe annusare e con che cosa? Chi si potrebbe gustare e con che cosa? A chi si potrebbe parlare e con che cosa? Chi si potrebbe toccare e con che cosa? Chi si potrebbe conoscere e con che cosa? Con cosa si potrebbe conoscere Quello per mezzo di cui si conosce tutto?[18]
Proprio per questa ragione Śaṃkara ha dichiarato quanto segue a
proposito della relazione causale che intercorre tra Brahman-Ātman e il
mondo:
Perciò si deve concludere che, come lo spazio in una giara e lo spazio in un vaso e altri apparenti spazi conclusi, non sono nient’altro che l’unico spazio cosmico, proprio come l’acqua e altre apparizioni in un miraggio non sono nient’altro che il deserto, perché quello spazio, quell’acqua ecc. sono di tale natura da poter apparire e scomparire, e quella loro apparenza è indefinibile; così anche questo mondo molteplice di esperienze e di cose sperimentate, altro non è in essenza che Brahman.[19]
Da quanto precede, si può giungere alla
conclusione che il Brahman, ossia il Sé, è la realtà e il mondo è una falsa
apparenza. Attraverso questo processo investigativo, quando il discepolo arriva
a comprendere la falsità dei fenomeni del mondo sottoposto alla dualità,
compreso il senso dell’“io”, allora egli s’identifica del tutto naturalmente
nell’assoluto Sé non duale. E, avendo riconosciuto che anche i non-sé non
esistono separatamente, ma sono parte integrante dell’Ātman, egli
realizza la totalizzazione dell’Essere o aiśvarya[20]. Questo è il
risultato finale dell’Ādhyātmika yoga, ossia di nididhyāsana.
Per gentile concessione del Comitato Redazionale Tridaṇḍa del sito Veda Vyāsa Maṇḍala e dell'Autore
Il testo si trova al link:
[1] A differenza delle vie del non-Supremo, che
attribuiscono le qualifiche dell’iniziato esclusivamente agli effetti del karma operato in passate esistenze, l’Advaita Vedānta riconosce la priorità su di essi della
conoscenza raggiunta negli stati prenatali. Tale conoscenza appare sotto forma
di saṃskāra mentali, che costituiscono ciò che definiamo
qualifiche intellettuali.
[2] Qualora ciò non accadesse, l’iniziato dovrà
percorrere il sentiero postumo del devayāna che lo
condurrà a incorporarsi al jīva ghana nel Brahma loka. A proposito di questo destino postumo, le Upaniṣad affermano che da là “non si ritorna, non si
ritorna”. Questo non è ancora il mokṣa: tuttavia i jīva che si trovano in questa situazione hanno ancora
la possibilità di ottenere ivi la conoscenza del Supremo Brahman e di
raggiungere, alla fine del kalpa, la
Liberazione differita. Ovviamente, a raggiungere la krama
mukti saranno avvantaggiate quelle anime che in vita, pur avendo
seguito una via iniziatica del non Supremo, erano pervenute a conoscere
teoricamente la Parabrahman vidyā.
[3] Ciò, ovviamente, non vale per quegli adhikāri eccezionalmente qualificati ai quali è
sufficiente l’audizione per realizzare il mokṣa.
[4] Come l’ego, aham, è il soggetto, questo, idam,
è l’oggetto. In questo caso con “tutto questo” si definiscono tutti gli idam, gli oggetti, vale a dire la totalità del mondo
esterno.
[5] Questa dottrina considera che Ātman ha quattro pāda, piedi o
quarti. I primi tre pāda sono denominati sthāna, luoghi, o avasthā, stati. Per
il quarto pāda, Turīya o Caturthā, invece, non sono mai usate tali
denominazioni, trattandosi dell’Ātman incondizionato
e libero da qualsiasi luogo o stato.
[6] MāU I. 2. 3.
[7] Invece di superiore, para, si può trovare altrove anche il termine sūkṣmantara, più sottile, con il medesimo significato.
[8] KU II. 3. 7.
[9] BhG III. 42.
[10] Si noterà che qui scriviamo “Io” con la
maiuscola, in quanto, in realtà il jīvātman, per sua
natura, non è null’altro che l’Ātman stesso. Esso
appare individualizzato e distinto dall’Ātman soltanto per
ignoranza. Questa idea distorta dell’“io” minuscolo o aham è in realtà un prodotto dell’immaginazione della buddhi (ricordiamo che la buddhi, quando
produce questo falso oggetto della sua conoscenza, è detta ahamkāra, ciò che produce l’“io”) e, come tale, è
davvero l’unico oggetto che non solo è illusorio, ma assolutamente irreale.
[11] Per la verità nel Vedānta
vicāra, anche la reintegrazione degli oggetti esterni negli indriya, degli indriya nel manas, del manas nella buddhi avviene in forma non duale; perciò il metodo
conoscitivo rimuove fin dall’inizio ogni illusoria distinzione tra macrantropo,
macrocosmo e microcosmo (adhibhūta, adhidaiva e adhyātman).
[12] Nelle vie della conoscenza non suprema (aparavidyā), come s’è già accennato, ciò viene
raggiunto solamente dopo la morte. Perciò la restaurazione in vita dello stato
primordiale (ādya avasthā) per l’iniziato alla conoscenza non
suprema si limita allo sviluppo delle possibilità di quell’individuo
particolare, senza giungere a reintegrare in sé l’intero grado universale di
esistenza a cui appartiene. Quella reintegrazione avverrà dunque nel post mortem, a conclusione del “viaggio divino
dell’essere” (devayāna).
[13] BU IV. 3. 15-16. Si
noti che chi apparentemente passa attraverso gli stati non è l’aham ma l’Ātman, qui chiamato Puruṣa.
[14] BU IV. 3. 13.
[15] Alcuni sādhaka intellettualmente
qualificati possono raggiungere la Liberazione a conclusione di manana, com’è attestato nel caso di Maitreyī. Non si
deve però cadere nell’errore di credere che śrāvaṇa, manana e nididhyāsana siano
tecniche diverse per natura o fasi in successione, poiché in realtà si tratta
sempre della medesima contemplazione considerata da tre angolature diverse. In
realtà esse corrispondono alle tre caratteristiche dello yogi perfetto o kevala, denominate pāṇḍitya, bālya e mauna.
[16] BSŚBh I. 1. 4.
[17] KU I. 3. 13.
[18] BU IV. 5. 15.
[19] BU IV. 5. 15.
[20] Ovviamente questa è la Signoria suprema, in
cui non esiste null’altro che Īśvara non duale, poiché signoria e sudditi non
sono distinti da Lui. Altrimenti si dovrebbe dare una impossibile risposta alla
domanda: “Chi potrebbe essere signoreggiato e con che cosa?”.
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