"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

giovedì 18 gennaio 2018

Gian Giuseppe Filippi, Il Serpente e la Corda - I Parte - 10. Gradi di discriminazione tra Sé e non-Sé

Gian Giuseppe Filippi
Il Serpente e la Corda

Indice I Parte

Introduzione
1. Attuale situazione delle forme tradizionali e delle organizzazioni iniziatiche
2. L’induismo contemporaneo e le sue organizzazioni iniziatiche
3. La Conoscenza o esperienza intuitiva del Brahman
4. L’Intuizione che sorge dall’osservazione dei tre stati
5. Gli strumenti di conoscenza che rimuovono l’ignoranza
6. Alcune considerazioni sul metodo vedānticośrāvaṆa
7. Alcune considerazioni sul metodo vedānticomanana
8. Alcune considerazioni sul metodo vedānticonididhyāsana
9. Significato vedāntico di Yoga
10. Gradi di discriminazione tra Sé e non-Sé
11. Da manana a nididhyāsana
12. Superamento delle opinioni erronee e delle difficoltà
13. Significato vedāntico di alcuni termini ricorrenti nei testi


10. Gradi di discriminazione tra Sé e non-Sé

L’iniziato al Vedānta, seguendo il suo proprio metodo, dovrà comportarsi in modo del tutto diverso sia dal profano sia dal sādhaka che segue una via del non-Supremo.

Anzitutto, durante la prima fase di viveka, egli deve discriminare tra il Sé e gli oggetti esterni, mantenendo verso di loro un atteggiamento di distacco e indifferenza, respingendo in questo modo la tendenza istintiva a percepire in modo differente quanto ai sensi appare piacevole o spiacevole. Questa indifferenza consiste propriamente nella discriminazione sensibile tra sé e gli oggetti. Naturalmente questo sé non è l’Ātman in quanto tale, ma un sé relativo che comprende tutte le componenti manifestate dell’essere totale (ādhyātmika puruṣa), vale a dire quelle che compongono il corpo (sthūla śarīra) e la psiche (sūkṣma śarīra) fino al senso dell’ego (aham), a esclusione del Sé supremo. I sensi, quindi, continueranno a vedere, udire, toccare ecc., gli oggetti grossi del mondo esterno, ma senza partecipazione, come lo spettatore (draṣṭṭa, dṛkvṛttāntadarśin), assiste allo spettacolo, dṛśya, senza esserne coinvolto.[1] Questo primo gradino corrisponde allo yama dello Yoga, il controllo dei sensi.
La seconda fase o secondo gradino di viveka corrisponde alla presa di coscienza di non essere il corpo, cioè di non essere l’involucro grosso, sthūla śarīra, che da questo punto di vista non si distingue dalla medesima modalità grossolana degli oggetti esterni. La tecnica usata è quella dell’adhyāropāpavāda. All’inizio il sādhaka dà per scontato di essere identico al corpo[2], per poi, in seguito, mettere alla prova questa convinzione erronea: utilizzando il “neti neti”, prende coscienza che il dolore, la malattia, la morte colpiscono il corpo e non il proprio Sé, il quale rimane inalterato nonostante malattia, ferite, stanchezza, debolezza o senescenza[3]. Questo gradino corrisponde al membro (aṅga) dello Yoga chiamato āsana, cioè la determinazione della posizione del corpo rispetto al sé relativo.
Il testo dell’Upaniṣad citato a chiusura del capitolo precedente[4] comincia, però, dal terzo gradino, dando per scontato che il distacco dagli oggetti esterni e dal corpo sia già stato effettuato[5]. Ora, qui si tratta di ricondurre alla mente, manas, tutte le facoltà di azione sintetizzate dalla più elevata tra esse, la parola (vac). Il sādhaka, a questo punto, non reagisce più nel mondo esterno tramite i karmendriya, in base alle scelte istintive prodotte dalla mente o a quelle ponderate dall’intelletto, in quanto non prova più per gli oggetti esterni né attrazione né repulsione[6]. Le sue azioni, corporalmente compiute nel mondo, si riducono perciò esclusivamente alle attività che permettono la propria sopravvivenza, come mangiare, bere, respirare, riposare; cui saggiungono altre azioni esteriori (kriyā) occasionalmente compiute senza desiderio del risultato, come insegnare, lavarsi, alzarsi, rispondere, spostarsi, sedersi ecc. La produzione di tutti gli altri karma, sia quelli riprovevoli (adhārmika) sia quelli virtuosi (dhārmika), ivi compresi anche i rituali, deve essere abbandonata, poiché essi producono comunque risultati, repellenti o attraenti che siano. Arrivati a questo punto il sādhaka non può fare a meno di comprendere che gli indriya non sono oggetti interni che hanno una loro realtà indipendente (tattva), come insegnano il Sāṃkhya e lo Yogadarśana, ma sono soltanto dei pensieri del manas. Quando quest’ultimo produce il pensiero della vista, allora esso è in grado si vedere attraverso l’occhio corporeo, e così via. Il manas produce il pensiero della deambulazione, e allora esso è in grado di muovere le gambe. Quando si conosce ciò, allora gli indriya-pensieri ritornano a essere, (o, meglio, ci si rende conto di) quello che sono sempre stati: soltanto manas. Considerato da un punto di vista più esteriore questa presa di coscienza appare come fosse una reintegrazione degli indriya-effetti, nel manas-causa. Questo terzo gradino corrisponde a niyama, il controllo dei karmendriya, e a prāṇāyama, con cui lo Yoga riconduce tutti gli indriya alla mente tramite il riassorbimento dei prāṇa. Tuttavia, come appare evidente, yama e niyama del Vedānta sono invero molto diversi dalle prescrizioni dello Yoga di Patañjali. Infatti, in quest’ultimo caso si tratta di ingiunzioni da parte di un guru di Yoga, ovvero di ordini, ai quali l’iniziato accetta di sottoporsi, esercitando uno sforzo corporale e mentale, e regolando dettagliatamente le energie vitali, prāṇa, in modo da evitare con yama di compiere azioni negative e d’acquisire virtù con niyama. Ma come abbiamo visto, il Vedānta insegna il distacco sia dai vizi sia dalle virtù. Perciò la riconduzione vedāntica dei karmendriya (e, preliminarmente, dei jñānendriya) al manas non è una pratica meditativa per il riavvolgere le facoltà individuali in modo progressivo nel corso d’un certo periodo di tempo. Al contrario significa che il sādhaka comprende per conoscenza intuitiva che quelle facoltà non possono essere considerate come oggetti separati (tattva) dotati di una loro realtà. Esse sono, invece, delle sovrapposizioni illusoriamente attribuite al Sé. Vale a dire che gli indriya risultano appartenere alla categoria dei non-Sé (anātman) sovrapposti al sé, e che devono perciò essere discriminati in quanto tali tramite viveka[7]. Anche in questo caso il sé di cui si tratta non è l’Ātman come tale, ma un sé relativo che comprende tutte quelle parti manifestate dell’essere totale che sono comprese tra il manas e l’ego.
In maniera analoga, il quarto gradino, quello cui si riferisce la medesima śruti che continuiamo a commentare, corrisponde all’affermazione: “... il manas all’intelletto...”. Esso consiste nella presa di coscienza che il manas non è il Sé, in quanto le sue attività, i suoi pensieri, le sue emozioni sono passeggeri, contraddittori e, comunque, sempre rivolti verso il mondo grossolano in modo immaginifico e mnemonico, anche durante il suo stato di separazione dall’esperienza diretta degli oggetti esterni. Le forme degli oggetti esterni vi sono radicate come ricordi, e queste stesse forme appaiono comunque piacevoli o spiacevoli alla mente. Allo stesso modo, la mente rielabora i ricordi sgradevoli trasformandoli in qualcosa di piacevole per mezzo dell’immaginazione. Discriminando così, il jñāni riconosce che la mente è oggetto di giudizio da parte di qualcosa che lo supera e che appare come fosse il sé del manas. E di nuovo dobbiamo affermare che questo sé non è l’Ātman in quanto tale, ma un sé relativo che comprende tutto ciò che sta tra l’intelletto (buddhi) e l’aham. Questo gradino è ciò che anche il Pātañjala yoga conosce come pratyāhāra [8]. Nell’Advaita, però, il ritiro della mente da tutti gli oggetti sia esterni sia interni avviene per discriminazione. E la mente come produttrice di pensieri mutevoli ed emotivi, s’immerge anch’essa in buddhi, poiché l’iniziato ha verificato l’inesistenza di un manas separato; perciò la mente appare per quello che è, ossia una temporanea modificazione (vṛtti) dell’intelletto.
Qui le analogie tra la via proposta dallo Yoga darśana e la conoscenza vedāntica s’arrestano definitivamente.[9] Infatti, la comprensione di come la buddhi sia pur sempre soltanto una facoltà di giudizio e di scelta d’ordine individuale, è del tutto preclusa a una via che fa parte del dominio della conoscenza non suprema (aparavidyā)[10]. Per andar oltre a questa restaurazione dello stato primordiale o purificazione della mente (antaḥkāraṇa śuddhi) e raggiungere il mokṣa per mezzo dell’Adhyātma yoga, è necessario ottenere l’insegnamento (upadeśa) che riguarda la conoscenza del Brahman supremo. Solamente in questo modo si sarà in grado di riconoscere la limitazione della funzione intellettuale, reintegrandola nel grande Sé, il Mahān Ātman, che altro non è se non l’“io” (jīvātman). Questo jīvātman è il Testimone (Sākṣin) inteso come Coscienza cosmica (Prajñā), che corrisponde allo stato di sonno profondo (suṣupti sthāna), e che è concepito per mezzo del nididhyāsana come più sottile del sottile (sarvasūkṣma).
Di tutte le apparenti “parti” dell’Essere totale, dunque, solamente il jīvātman è in grado di stare coscientemente nel sonno profondo, suṣupti avasthā, proprio perché è di natura universale, mentre tutte le altre componenti individuali ne sono escluse. Una volta “rientrato” in suṣupti, il jīvātman non è più un sé trasmigrante: esso è l'immutabile coscienza universale stessa, Caitanya, il Testimone, Sākṣin, l’Ātman in quanto Sé supremo.[11] E per chi così ha realizzato il mokṣa, il terzo stato di sonno senza sogni (suṣupti avasthā) non è più uno stato, ma è l’Assoluto, l'Ātman, il Brahman non duale. Esso è in realtà il Quarto (Turīya), che non è altro che il Brahman-Ātman, comprendente in una sintesi suprema tutti i mondi (loka), tutti gli stati (avasthā), tutti gli esseri totali (sarva sattā). Su questo ultimo passaggio, che l’Upaniṣad descrive così “Colui che usa la discriminazione (viveka) riconduca [...] quest’ultimo [il jīvātman] allo Śāntātman”, dovremo soffermarci più a lungo, dato che questo è il vero risultato dell’Ādhyātmika yoga.
Il riassorbimento delle facoltà individuali, descritto secondo la dottrina dei quattro pāda di Ātman della Māṇḍūkya Upaniṣad, è indicato nella Chāndogya Upaniṣad[12] come insegnamento caratteristico dell’Ādhyātmika yoga. Riassumiamo i passaggi più importanti di quest’ultima śruti: vi si narra come Virocana, Re dei titani (asura), e Indra, Re degli dèi, si recassero presso Prajāpati per diventare suoi discepoli. Gli chiesero di spiegar loro come conoscere l’Ātman. Prajāpati rispose che l’Ātman è questo corpo come lo si conosce in stato di veglia (jāgrat avasthā). Soddisfatti, i due discepoli se ne ritornarono ai loro rispettivi regni. Virocana raggiunse l’asura loka e insegnò a tutti i suoi titanici sudditi che l’Ātman non è altro che il loro corpo[13]. Perciò chi s’identifica al corpo è di natura asurica. Indra, invece, strada facendo, fu colto da molti dubbi[14], perciò ritornò indietro per chiedere chiarimenti al guru. Prajāpati, allora, gli insegnò che, in verità, l’Ātman è quella mente che fruisce dei sogni durante lo stato onirico, svāpna sthāna. Anche questa volta Indra fu colto da dubbi lungo la via di ritorno. Tornato dal guru, ricevette un altro insegnamento da Prajāpati: l’Ātman è ciò che si sperimenta durante il sonno senza sogni, suṣupti. Indra se ne andò, per ritornare subito sui suoi passi e obiettare al maestro quanto segue:
«In quello stato, o maestro, l’Ātman non conosce se stesso come un “io” individuale, non conosce gli altri esseri, è come fosse ottenebrato; in ciò non trovo alcun beneficio.»[15]
A questa obiezione Prajāpati rispose:
«In realtà le cose stanno proprio così, o Magnifico, ma dovrò spiegarti meglio questo Ātman...»[16]
«... ciò che comprende tutto è Brahman, è l’immortalità, è l’Ātman.»[17]
Come s’è già detto ripetute volte, l’Ādhyātmika yoga non insegna la meditazione (upāsanā) come fanno le vie della conoscenza non suprema (aparavidyā), le quali sono della natura del kratutantra. Quest’ultimo termine vuol dire “basato sulla volontà”, dipendente cioè dalla determinazione e dall’impegno, dallo sforzo di chi vi si dedica. L’Adhyātman è invece della natura del vastutantra, che vuol dire “ciò che è aderente alla realtà in quanto tale”. Ciò significa che, in questo caso, il sādhaka deve osservare i fatti per quello che sono, prestando una profonda attenzione dell'intelletto su essi per comprenderli e per porli nella loro corretta prospettiva. Come si diceva, questa speciale attenzione contemplativa, nididhyāsana, con il nome di dhyāna yoga, è l’argomento dell’intero sesto capitolo della Bhagavad Gītā, in maniera particolare negli śloka che seguono:
Quando chi s’è liberato dalla dipendenza nei confronti degli oggetti desiderabili, si rivolge con la mente controllata al solo Ātman, allora si dice che è identificato all’Ātman.[18]Dopo aver ritirato mentalmente le facoltà di senso e d’azione, chi ha completamente abbandonato tutti i desideri che scaturiscono dalla mente, a poco a poco si fisserà nell’intelletto con fermezza. Avendo riassorbito stabilmente l’organo interno (antaḥkāraṇa) nel Sé, egli non contemplerà null’altro.[19]
E altrove:
Alcuni realizzano il Sé nel Sé con l’aiuto del Sé per mezzo del dhyāna. Questi si dedicano al Sāṃkhya yoga, altri invece al Karma yoga.[20]Avendo respinto il senso dell’“io”, ahaṃkāra, la forza [d’attrazione e repulsione], l’orgoglio, il desiderio, l’ira, il senso del “mio” ed essendo pacificato, costui è qualificato per identificarsi al Brahman.[21]
L’Ādhyātmika yoga è menzionato anche nelle Māṇḍūkya Kārikā[22] di Gauḍapāda con il nome Manonigraha yoga, yoga del controllo della mente. In questi passaggi citati sia della smṛti sia della śruti, l’Ādhyātmika yoga è trattato descrivendone l’uso, le tecniche, gli ostacoli in cui ci si può imbattere e il modo con cui rimuovere quest’ultimi.


Per gentile concessione del Comitato Redazionale Tridaṇḍa del sito Veda Vyāsa Maṇḍala e dell'Autore




[1] In ciò consiste la vera rinuncia (vairāgya) ai beni terreni, vale a dire la rinuncia al concetto di “mio”. Il saṃnyāsa è dunque solo il segno esteriore di questa vera rinuncia. Ma il re Janaka aveva raggiunto questo stato di rinuncia senza assumere esteriormente il saṃnyāsa.
[2] Ripetiamo che adhyāropa è la fase metodica in cui intenzionalmente si accetta come reale una falsa apparenza. Nel caso specifico, nella cerca spirituale si parte dalla condizione di ignoranza che è propria dell’esperienza quotidiana caratteristica dell’uomo ordinario. “Io sono questo corpo” è il pensiero dovuto allo stato di ignoranza, avidyā, in cui il profano permane. Al contrario, il sādhaka usa questa ignoranza, al fine di rimuoverla, come primo passo per raggiungere la conoscenza.
[3] Questa è la fase metodica dell’apavāda, con cui si demolisce la primitiva credenza; così si rimuove l’ignoranza che consiste nell’identificazione con il proprio corpo. Va da sé che tutti i gradini che qui prenderemo in esame vanno compiuti metodicamente per mezzo della tecnica dell’adhyāropāpavāda.
[4] KU I. 3. 13.
[5] Per la verità, questo distacco dal corpo è il passaggio più difficile, in quanto l’identificazione con il corpo comporta il legame (baṅdha) di tutte le componenti sottili all’attuale posizione spazio temporale ecc., della propria modalità corporea nel mondo dello stato di veglia (jagrat prapāñca). Disfarsi da questo legame grossolano è così importante dal punto di vista della relizzazione che colui che è riuscito a ottenerlo può essere considerato già virtualmente liberato (videha mukta, libero dalla forma corporea).
[6]Tradizionalmente il distacco è descritto in questi termini, partendo dal basso verso l’alto come ordine d’importanza: distacco dai propri beni, dal proprio corpo, dalla propria posizione sociale, dalla propria famiglia, dalla propria casta, dal proprio dharma (riti e doveri compresi), da tutte le sacre scritture, dalla devozione per gli dèi, dal desiderio di raggiungere i cieli e perfino dalla devozione per la persona del guru.
[7] Questa è la ragione per la quale il vedāntin non acquisisce poteri (siddhi), come accade ai sādhaka dei diversi tipi di Yoga. D’altra parte le siddhi non sono nient’altro che l’estensione artificiale delle caratteristiche naturali delle facoltà di sensazione e d’azione. Lo sforzo impiegato per l’acquisizione delle siddhi è, dunque, soltanto una perdita di tempo, in quanto non permette di raggiungere e risolvere neppure quello che qui definiamo terzo gradino. L’acquisizione delle siddhi significa in realtà l’estensione massima delle possibilità degli indriya, che non permette di superare il livello noto come manomaya koṣa (involucro fatto di manas). Le siddhi, inoltre, sono considerate negativamente qualora non siano usate da adhikārī, persone incaricate di qualche specifica missione.
[8] Ciò si sperimenta, nella fase di pratyāhāra, quando il pātañjala yogi si concentra su un unico punto, chiudendo tutte le “bocche”, ovvero gli organi corrispondenti alle facoltà di sensazione rivolti verso il mondo esterno, rimanendo così isolato. In questa fase yogica il meditante (upāsaka) dovrà lottare solo contro la continua interferenza di questi pensieri prodotti dal manas.
[9] Lo Yoga di Patañjali e le vie analoghe, tantriche o meno, sono caratterizzate da uno sforzo progressivo ingiunto da un maestro, per ottenere, in modo dettagliato e progressivo, il riassorbimento delle facoltà individuali nell’organo interno, antaḥkāraṇa. Il percorso dell’Adhyātma yoga è del tutto conoscitivo e basato su prese di coscienza, ossia intuizioni. Qualora fosse necessario, esso compie in modo sintetico la parte che si riferisce alla via della conoscenza non suprema (aparavidyā), per poi giungere alla vera e propria conoscenza del Supremo.
[10] In questa prospettiva più limitata, la buddhi individuale è spesso confusa con la Buddhi universale. In realtà questa Buddhi, il vero e proprio Mahat, nella prospettiva macrocosmica (adhidaivika dṛṣṭi), rappresenta l’intelletto divino di Hiraṇyagarbha. Ma, una volta compreso lo stato di veglia (jāgrat avasthā) nella sua totalità, si realizza la non distinzione tra buddhi e Buddhi.
[11] Il jīvātman è in realtà l’Ātman; ma senza la consapevolezza di esserlo, esso appare illusoriamente come l’“io”, aham. In modo simile la Buddhi universale appare sotto la forma dell’intelletto individualizzato, che in realtà non ne è che il riflesso microcosmico.
[12] ChU VIII. 7. 2; VIII. 15. 1.
[13] L’āsura loka, esattamente come l’inferno dantesco, allude spesso nel linguaggio iniziatico al dominio profano. Si devono notare, in questo racconto, due cose. La prima consiste nel fatto che il maestro risponde sempre commisurando il suo insegnamento alla domanda del discepolo; la seconda è che il discepolo, se vuole ottenere la dottrina più elevata, deve essere sempre attivo nei confronti del guru. Deve perciò porre la domanda, come ci insegna la saga del Graal.
[14] I dubbi di Indra rappresentano la sua riflessione, manana, e la sua capacità di discriminazione, viveka.
[15] Ibid. VIII. 9. 3.
[16] Ibid. VIII. 11. 3. Infatti, quando si sono superati i primi due stati di veglia e di sogno, suṣupti non appare più come uno stato, ma è Turīya, ossia l’Ātman stesso.
[17] Ibid. VIII. 14. 1.
[18] BhG VI. 18.
[19] BhG VI. 24-25.
[20] BhG XIII. 24. Con Karma yoga qui s’intende qualsiasi via di conoscenza non suprema (aparavidyā), mentre Sāṃkhya yoga è l’Adhyātman.
[21] BhG XVIII. 53.
[22] In particolare MāUGK III. 41-48.

Nessun commento:

Posta un commento