Il Serpente e la Corda
Indice I Parte
Introduzione
1. Attuale situazione delle forme tradizionali e delle organizzazioni iniziatiche
2. L’induismo contemporaneo e le sue organizzazioni iniziatiche
3. La Conoscenza o esperienza intuitiva del Brahman
4. L’Intuizione che sorge dall’osservazione dei tre stati
5. Gli strumenti di conoscenza che rimuovono l’ignoranza
6. Alcune considerazioni sul metodo vedāntico: śrāvaṆa
7. Alcune considerazioni sul metodo vedāntico: manana
8. Alcune considerazioni sul metodo vedāntico: nididhyāsana
9. Significato vedāntico di Yoga
10. Gradi di discriminazione tra Sé e non-Sé
11. Da manana a nididhyāsana
12. Superamento delle opinioni erronee e delle difficoltà
13. Significato vedāntico di alcuni termini ricorrenti nei testi
7. Alcune considerazioni sul metodo vedāntico: manana
Passiamo ora a considerare manana. I discepoli (śiṣya)
non eccezionalmente qualificati, e che perciò non hanno raggiunto il mokṣa durante il semplice ascolto
dell’insegnamento magistrale, avranno una seconda opportunità impegnandosi in manana, la riflessione, su quanto
appreso dal guru. A proposito delle
tre opportunità per la realizzazione, Śaṃkara commentando una śruti, afferma:
Perciò il Sé , mia cara Maitreyī, deve essere realizzato, è opportuno che sia realizzato, dovrebbe essere considerato la meta da realizzare. Si dovrà per prima cosa ascoltare di Lui dal maestro e dalle scritture[1]. Poi si dovrebbe riflettere su di lui tramite la ragione[2], e infine si dovrà contemplarlo[3] fermamente.[4]
Questa è una breve e preziosa sintesi su quei tre momenti.
Sul primo ci si è già espressi sopra. Passiamo perciò a considerare il secondo,
manana. Com’è evidente dall’ultima
citazione, manana è una azione
compiuta con la mente (mānasa[5] kriyā). Il ragionamento generalmente
corrisponde alla logica (tarka), che
usa solamente i seguenti strumenti validi di conoscenza (pramāṇa): la
deduzione o inferenza (anumāna), l’analogia basata sulla comparazione (upamāna), la supposizione (arthāpatti), talvolta coadiuvati
dall’esempio (udhāraṇa); tuttavia
quest’ultimo non fa parte di quegli strumenti di valida conoscenza, essendone
solamente di supporto chiarificatore. Nel caso della conoscenza del Sé si deve
comprendere che la semplice logica e la dialettica, come sono concepite dalla
filosofia occidentale e dai logici (tārkika) dell’India, sono scarsamente utili
all’iniziato.
Secondo l’insegnamento di Śaṃkara, ci sono tre livelli di
logica. Il primo e più basso, è quello della logica astratta (śuṣka tarka)[6], che s’avvale cioè
esclusivamente di dati mentali o ricordi memorizzati; è privo della verifica
percettiva[7], perciò è solo un’astrazione. Può essere utilizzato per correggere opinioni
mentali erronee, come per esempio:
Se qualcuno dice che una biscia d’acqua è come un cobra, la biscia non per questo diventa velenosa; e, di converso, se si dice che un cobra è come una biscia d’acqua, non è che con questo il cobra diventi innocuo.[8]
La logica di questo primo livello è raramente usata dal Vedānta. Lo si potrà desumere dal
seguente esempio di logica astratta, applicata soprattutto nelle matematiche
per illustrare certe leggi come, per esempio, la proprietà transitiva: se A è
uguale a B e B è uguale a C, A è uguale a C. Questi elaborati di logica
astratta si appoggiano su certi procedimenti mentali, ma nessuno saprebbe come
attribuire ad A, B e C una esistenza oggettiva.[9] Inoltre il concetto astratto d’eguaglianza, anche se puramente quantitativo, è
contraddetto dal principio degli indiscernibili, per cui se due o più cose sono
uguali, esse sono rigorosamente una cosa e una soltanto. Questi due esempi sono
sufficienti per descrivere la natura labile e la scarsa utilità dello śuṣka tarka, detto anche kutarka[10].
Il secondo livello di logica è chiamata pramāṇa tarka, ossia la logica che s’appoggia sui validi mezzi di
indagine, su prove riconosciute. Essa consiste nell’arte della deduzione,
applicata alle informazioni percettive (pratyakṣa)
provenienti dal mondo esterno tramite i sensi (jñānendriya); sensi che permettono d'indagare su un oggetto
presente (sat), oppure di constatare l'impossibilità di percepire (anupalabdhi) un oggetto assente (asat). L’esempio classico è il
seguente: se si osserva del fumo sulla cima di una montagna si deduce che lì ci
sia del fuoco. L’esistenza del fumo è provata dall’oggettiva informazione
ricevuta dalla vista[11],
in base alla quale la mente deduce l’esistenza del fuoco. Naturalmente, che il
fuoco produca fumo è dipendente dal ricordo di una passata esperienza durante
la quale, una volta per tutte, s’è osservato un fuoco produrre fumo. Questo pramāṇa tarka è piuttosto affidabile, ed
è usato quotidianamente da tutti. La scienza della logica, Tarka Śāstra, sia quella antica, Prācīna Nyāya, più aderente alle scritture, sia quella medievale, Navīna Nyāya[12], più astrattamente speculativa, ha stilato con grande precisione innumerevoli
regole ed elaborato esempi efficaci. Nelle sfide tra logici, colui che è più
fortemente ancorato a prove evidenti è sempre capace di sconfiggere gli
avversari. In questa scienza logica, se l'iniziale percezione dei sensi, su cui
poi si costruisce tutta l’argomentazione deduttiva, risultasse falsa, allora
tutto il castello di argomentazioni crollerebbe nel nulla. Per esempio, quando
qualcuno reputa di aver visto del fumo sulla cima della montagna, ma poi
s’accorgesse che non si trattava di fumo, ma di nebbia o di polvere sollevata
dal vento, a quel punto dovrebbe ammettere che tutte le sue ulteriori deduzioni
rimangono annullate. Allo stesso modo, se l’evidenza o l’esempio risultassero
scorretti, tutti i suoi ragionamenti non reggerebbero più. A questo tipo di
logica Śaṃkara imputa tre difetti[13]. Il primo consiste nel fatto che non si può mai raggiungere una spiegazione
definitiva, perché un logico che afferma una verità come provata può essere
confutato da un logico più sperimentato; il quale, a sua volta, potrà essere
contraddetto da un altro ancora più abile e così
indefinitamente. Ed è impossibile arrivare alla verità d’una dimostrazione
facendo la sommatoria dei giudizi contrastanti emessi da logici nel passato,
nel presente e, se fosse possibile, nel futuro. Il secondo difetto sta nel
fatto che anche se due logici arrivassero alla medesima conclusione, il loro
percorso deduttivo potrebbe essere reciprocamente incompatibile; e quindi
ognuno sosterrà che esclusivamente la propria dimostrazione debba essere
ritenuta valida. Infine, i logici, durante le loro dimostrazioni, sono soliti a
entrare in contraddizione con loro stessi senza farsi degli scrupoli, pur di
dimostrare la bontà della loro tesi.
Il terzo livello di logica è definito śrauta tarka (logica basata sulla śruti) in quanto è
il tipo di ragionamento basato sulle Upaniṣad.
Con questo termine di tarka si deve
intendere manana, ossia la
riflessione vedāntica sul Sé.
Ogni tanto, per qualche fine particolare, anche il pramāṇa tarka ed, eccezionalmente,
perfino lo śuṣka tarka possono essere
usati per la riflessione vedāntica, a patto che questi strumenti logici non
entrino in conflitto con le affermazioni scritturali. Tuttavia è più regolare
che il sādhaka utilizzi
prevalentemente lo śrauta tarka,
com’è dichiarato da Śaṃkara:
Si deve anche tenere in considerazione che per fruire della riflessione che segue l’ascolto dell’insegnamento del guru, la Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad riconosce l’utilità dell’impiego della logica. Ma, in questo caso, non possono essere accettati né i sofismi né la logica basata sulla percezione, perché solo la logica conforme alle Upaniṣad è approvata come mezzo sussidiario utile alla realizzazione.[14]
Con śrauta tarka
s’intende anzitutto la logica posta al servizio dall’esperienza intuitiva della
propria reale natura in quanto Sé, quell’esperienza dell’“Io esisto”, che è
accettata universalmente per la sua patente evidenza. Ciò significa che deve
basarsi sulla piena consapevolezza di esistere e di essere cosciente, insita in
ciascuno.
[...] questo Puruṣa è chiamato con la parola Sé; ed è impossibile negare il proprio Sé, perché anche chi lo nega è Ātman.[15]
In second’ordine, śrauta
tarka ha il compito di prendere in considerazione due intuizioni parziali e
unirle tra loro in modo tale da arrivare a una conclusione unica, basata
fermamente sull’esperienza intuitiva. C'è da aggiungere che śrauta tarka è un ragionamento che
supera i limiti della dualità, il che significa che non è connesso alla
percezione sensoriale, né ai concetti mentali, né alle deduzioni intellettuali,
né alle costruzioni mentali di tempo, spazio, causalità, ecc. Allo śiṣya perspicace deve essere chiaro che
non può esserci margine alcuno per alterità, opposizioni e contraddizioni nelle
conclusioni che si traggono dallo śrauta
tarka, perché questo modo di riflettere è al di là dei limiti della
dualità.
Troviamo l’esempio di come funziona la riflessione nella prossima
citazione tratta da Śaṃkara. Cogliamo l'occasione per far notare che la
dottrina dei quattro pāda di Ātman, com’è esposta nella Māṇḍūkya Upaniṣad, svolge un ruolo
essenziale nel metodo advitīya.
[… lo śrauta tarka] ha queste caratteristiche: considerando che lo stato di sogno e lo stato di veglia si contraddicono mutuamente, il Sé non può essere identificato con nessuno dei due. Dato che l’anima individuale, jīvātman, si dissocia dal mondo quando è in stato di sonno profondo per diventare tutt’uno con il Sé, che è l’Esistenza, essa deve essere il medesimo Sé assoluto. Perciò la manifestazione è stata prodotta dal Brahman e, poiché la causa e l’effetto non possono essere differenti, la manifestazione non deve essere differenziata dal Brahman; e così via [...][16]
Nella quale citazione troviamo l’esempio dell’applicazione
d’ognuna delle tre tipologie di logica. Il primo livello è qui rappresentato
laddove si dice che lo stato di veglia e lo stato di sogno non possono
coesistere. Quando si è nello stato di veglia, lo stato di sogno
inevitabilmente scompare e viceversa. Il Sé, che è il sostrato di questi due
stati, non può essere in loro contenuto né da loro circoscritto. Questo è il
senso del primo ragionamento logico.
Nel mondo che appare nello stato di veglia, si devono
riconoscere tre aspetti: il macrocosmo, adhidaivika
prapañca, corrispondente al mondo esterno e che include la generalità della
manifestazione grossolana, delle modalità sottili e Hiraṇyagarbha[17] che le ingloba tutte; il secondo aspetto è quello microcosmico, ādhyātmika prapañca, che comprende tutte
le modalità costitutive d’un singolo individuo, ossia quelle grosse che
compongono il corpo, quelle psichiche e il jīvātman[18], che le ingloba tutte; infine, il terzo aspetto corrisponde alla sola
manifestazione grossolana, adhibhautika
prapañca[19], con cui s’intende sia il
mondo esterno e gli oggetti di cui si compone sia il corpo d’un singolo essere,
in quanto entrambi composti dai medesimi cinque elementi grossi (pañcabhūta). Si devono, inoltre, evocare
i concetti di spazio, tempo e causalità, oltre alla molteplicità di tutti gli
altri esseri che hanno il medesimo senso dell’“io”, esattamente come lo
possiede anche lo stesso jijñāsu. Così tutti questi fenomeni, oggetti e
persone dello stato di veglia devono essere considerati come un tutt’uno,
devono essere oggetto unico da parte del Testimone (Sākṣin).
Allo stesso modo, si deve considerare lo stato di sogno (svāpna avasthā).
Quando il sādhaka
segue questo processo di discriminazione tra gli stati di veglia e di sogno,
allora è portato ad abbandonare spontaneamente la sua identificazione con il
suo ego e a “installarsi” nella sua
reale natura che è il Sé. Questi due fenomeni della veglia e del sogno non
possono essere contemplati in maniera comprensiva in alcun altro modo. Durante
questo processo di discriminazione, si arriva al punto in cui ci si rende conto
che la propria vera natura non è contaminata da questi due stati. Di
conseguenza si comprende che l’essenza di quelle due false apparenze è solo il
Sé. Nella Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad[20] il ṛṣi Yājñavalkya insegnò questa
verità al re Janaka, affermando che la natura del Sé è incontaminata, auto
luminosa e non duale. Queste tre conclusioni del processo di viveka sono state descritte nel corso
della dimostrazione precedente, dove l’intuizione dello stato di veglia e dello
stato di sogno erano state considerate come due intuizioni ancora parziali.
Perciò le due intuizioni sono state unificate fra loro sulla base della
riflessione che il loro comune denominatore è la reale natura del Sé. Alla
fine, dopo aver dimostrato che i due stati sono inconciliabili tra loro, si
perviene alla loro cancellazione reciproca, trovando così nella reale natura
del Sé la risoluzione del problema antinomico. In questo modo, a conclusione di
questo manana, il sādhaka si riconosce nella sua natura
essenziale di Brahman non duale. Per ottenere questo risultato si è ricorsi
soltanto alla logica upaniṣadica (śrauta
tarka). Allora il sādhaka sarà ben consapevole di come
questo ragionamento compiuto con lo śrauta
tarka sia in grado di andare ben al di là dei limiti dell’intelletto e dei
concetti di spazio, tempo e causalità. Questa è la caratteristica tipica dello śrauta tarka, come si può notare anche
da questa affermazione della Kāṭha Upaniṣad:
Non esiste una Sua forma che possa essere contemplata, né alcuno che Lo possa vedere con la vista. La coscienza che sta nel cuore e che controlla la mente Lo comprende tramite la riflessione. Coloro che così Lo conoscono diventano immortali.[21]
Al secondo livello di ragionamento sono state considerate
due intuizioni parziali riguardanti lo stato di veglia e di sonno profondo, e
da queste si è dunque giunti alla conclusione che la natura del jīvātman è sempre libera dalle
limitazioni mondane (sāṃsārika upādhi).
Dal punto di vista del mondo della veglia ogni individuo sperimenta il
godimento del piacere e la sofferenza del dolore. Questa credenza è dovuta alla
erronea identificazione con i non-Sé, cioè con tutte le modalità comprese tra
quella corporea e il senso dell’“io” (aham).
Chi capisce che piacere e dolore sono irraggiati dal Sé e che quest’ultimo è il
Testimone di questi due pensieri, immediatamente comprenderà di essere libero
da entrambi. Il comune discepolo dotato di scarse qualifiche trova diversee
difficoltà ad assumere una simile capacità discriminativa nitida e acuta. Un
uomo comune, anche se provvisto di un intelletto molto sviluppato, considera
questo tipo di discriminazione come se fosse una semplice deduzione mentale,
poiché la sua natura è riluttante a rivolgersi verso la sua interiorità in
quanto si trova in difficoltà a respingere la sua identificazione con il
proprio ego. Invece, lo śiṣya qualificato è in grado di
comprendere questa verità nel suo significato appropriato e nella giusta
prospettiva.
Se il sādhaka trova
una qualche difficoltà a porsi nel Sé come sua vera natura, allora egli dovrà
prendere come suo criterio guida l’intuizione del sonno profondo. Nel sonno
profondo (suṣupti avasthā)
ogni essere è chiaramente libero da ogni limitazione (baṅdha) in
quanto è libero del proprio “io”.
Vediamo ora di chiarire il modo in cui i due tipi di
intuizioni parziali vengono congiunti: sebbene l’individuo nello stato di
veglia soffra per le disgrazie mondane, tuttavia il Sé non ne è intaccato in
quanto è Testimone di quelle stesse sofferenze. Nello stato di sonno profondo
egli è libero da tutte le miserie del mondo, essendo privo di tutte le
sovrapposizioni come corpo, sensi, mente e intelletto, che sono false apparenze
caratteristiche dello stato di veglia. Queste due intuizioni parziali sono qui
state unite e, in conclusione, si raggiunge il risultato che la natura del Sé è
sempre libera dalle sofferenze del mondo. Questo è il senso del secondo livello
di logica usato per la riflessione (manana).
Invece, l’uso di ciò che abbiamo paragonato al sillogismo
aristotelico corrispondente al primo livello di logica secca, è contenuto
nell’affermazione che segue: «Perciò la manifestazione è stata prodotta dal
Brahman e, poiché la causa e l’effetto non possono essere differenti, la
manifestazione non deve essere considerata differente dal Brahman.»
Si potrà ora considerare la grande distanza che separa
questa visione puramente metafisica dalle altre concezioni, scientifiche,
cosmologiche o teologiche che dir si voglia, rivolte sempre e soltanto al mondo
esterno della veglia (jāgrat prapañca),
ordinariamente considerato come l’unica realtà incontestabilmente reale.
Secondo la scienza contemporanea, particelle come protoni,
elettroni e neutroni vibrano e compongono il sistema dell’atomo, che costituirebbe
l’unità di base di tutte le cose presenti nella manifestazione grossolana. Gli
scienziati non rispondono alla domanda da dove queste particelle siano
prodotte, e sostengono che esse sono là casualmente e spontaneamente[22].
Ovviamente, perché queste cose funzionino, è richiesta l’esistenza a priori dei concetti di tempo e spazio.
Se si chiede loro da dove tempo e spazio siano venuti in esistenza, essi si
schermiscono dicendo che queste problematiche sono poco scientifiche e
aggiungono con sufficienza che sono “problemi metafisici”. In altre parole,
senza volerlo, ammettono che queste domande conducono a un dominio che è al di
fuori della loro portata [23].
Anche nel pensiero indiano le concezioni che prescindono
dall’insegnamento advaita sono il
frutto di elaborazioni che poggiano su presupposti erronei. I seguaci del Sāṃkhya, per esempio, sostengono che la
sostanza primordiale, matrice non manifestata dell’universo, chiamata di volta
in volta Pradhāna, Prakṛti o Avyakta, è la causa del mondo. Secondo
il Vaiśeṣika la causa dell’universo
sono gli atomi. Vaiśeṣika, Nyāya e Yoga darśana concordano che ci debba essere un Dio, Īśvara, che
manifesta il mondo a partire dagli atomi o dalla Prakṛti. Questo Dio, però, è qualcosa di natura diversa sia dal
mondo sia dalle anime. Le religioni monoteistiche sostengono che Dio ha creato,
mantiene in esistenza e distruggerà questo mondo, rimanendo eternamente
differente dalle anime e dal mondo, palesando quanto, in realtà, il monoteismo
sia dualista.
Il Buddhismo, distinguendosi da tutte le altre forme
tradizionali, afferma che l’universo è solo una creazione mentale, come un
sogno, e che tutta questa esistenza non ha niente di reale. E fino a questo
punto tale teoria sarebbe condivisibile se non fosse che conclude affermando
che la natura dell’universo, Dio e l’anima sono privi di essere. [24]
Consideriamo ora il punto di vista vedāntico circa la
manifestazione. Per prima cosa si deve comprendere che le condizioni di tempo,
spazio, causalità, molteplicità ecc. sono tutte incluse nel mondo manifestato
dal nome e dalla forma[25].
Śaṃkara spiega la produzione del mondo come segue:
Quell’onnisciente e onnipotente origine dev’essere Brahman, da cui deriva la nascita, il mantenimento e la dissoluzione di questo universo, che è manifestato per mezzo del nome e della forma, che è associato con diversi agenti e fruitori [dei risultati delle azioni], che presta strumenti per compiere azioni e ottenere risultati, dopo aver regolato tra loro spazio, tempo e causalità, e che sfida tutti i pensieri circa la reale natura della sua manifestazione.[26]
Per riconoscere tutte le realtà, il Vedānta prende come supporto una visione onnicomprensiva della
vita. Tra i profani è diffusa la credenza che l'unica realtà sia lo stato di
veglia, giacché considerano il sogno una mera fantasia e il sonno profondo uno
stato vacuo e inesistente. Invece la vita di tutti gli uomini, anche dei
profani, considerata, come si diceva, in modo onnicomprensivo, è segnata da
quotidiane esperienze di veglia, sogno e sonno profondo. La vita, dunque, nel
suo complesso non è affatto solo la veglia. Mettendo in pratica metodicamente
questo principio, il maestro di Vedānta
guida i suoi iniziati nel seguente modo: l’intero mondo della veglia si limita
a questo stato di veglia che emerge dal Sé, che è mantenuto nel tempo e che,
infine, è dissolto in Lui non appena lo stato di veglia scompare. Proprio per
questo il Vedānta afferma che Brahman
è la causa dell’universo, in quanto esso è Ātman.
In questo caso il termine causa non è
usato nel senso corrente. Nella nostra esperienza di vita quotidiana la causa è
posta al passato e l’effetto è attuale, nel presente. Così la causalità,
considerata all’interno del mondo, inevitabilmente richiede la condizione
temporale; ma quando consideriamo il problema della manifestazione, allora le
parole causa ed effetto devono essere interpretate in un altro modo. Nel linguaggio
vedāntico causa significa la realtà ed effetto, di conseguenza, significa falsa
apparenza (adhyāsa). Per essere più
chiari, per l’effetto non c’è esistenza separata dalla causa. Inoltre,
l’effetto è una cosa immaginata e perciò è soltanto un nome e una relazione
apparente. Per esempio, nel caso di una sedia di legno, la sedia non ha una
esistenza indipendente dal legno di cui è fatta. L’idea della sedia e delle sue
relazioni con il legno, in ultima analisi, sono immaginate sulla sostanza del
legno[27]. Così è anche la relazione tra il mondo e Brahman. Si deve comprendere che il
mondo è reale in quanto Brahman, ma che il mondo in quanto “mondo” è irreale.
Questa verità è proclamata da Śaṃkara con queste parole:
È come lo spazio che si trova dentro a vasi e giare non è differente dallo spazio cosmico, o come l’acqua in un miraggio non è differente dal deserto. Per questa ragione essi talvolta appaiono e talvolta scompaiono, e la loro natura non può essere realmente definita. Allo stesso modo si deve capire che questo mondo fenomenico differenziato in esperienze, cose sperimentate e così via, non ha alcuna esistenza al di fuori di Brahman.[28]
A questo scopo Śaṃkara ha anche aggiunto quanto segue,
basandosi sul sillogismo in uso nel primo livello della logica (śuṣka tarka):
Poiché la manifestazione è stata originata dal Brahman, e poiché per la legge di causalità causa ed effetto non sono tra loro differenti, la manifestazione non dev’essere differente dal Brahman.[29]
Se un sādhaka
investiga sulla causa dell’universo seguendo questa volta lo strumento della
logica upaniṣadica (śrauta tarka) mentre legge e riflette su testi di
Vedānta basandosi su una visione
onnicomprensiva della vita, scoprirà alla fine della sua cerca d’aver
automaticamente[30] demolito l’apparenza
dell’universo. Al tempo stesso, con la cancellazione della falsa apparenza (adhyāsa), egli ottiene l’intuizione
della natura non duale del Brahman come proprio Sé. Questo è il benefico
risultato dell’uso dello śrauta tarka.
Maitreyī, che non aveva ottenuto la Liberazione (mokṣa) con la
semplice audizione (śrāvaṇa)
dell’insegnamento di Yājñavalkya, raggiunse il mokṣa grazie alla riflessione (manana).[31]
Per gentile concessione del Comitato Redazionale Tridaṇḍa del sito Veda Vyāsa Maṇḍala e dell'Autore
Il testo si trova al link:
[1] L’ascolto (śrāvaṇa) è riferito
all’insegnamento del guru sulle verità upaniṣadiche.
[2] La riflessione (manana).
[3] Nididhyāsana,
l’attenzione contemplativa.
[4] BUŚBh
II. 3. 6.
[5] In questo caso il sostantivo manana, l’aggettivo mānasa e i composti anumāna e upamāna, tutti derivati dalla radice verbale man (pensare), piuttosto che alla
funzione emotiva del manas alludono
all’attività discriminatrice della buddhi.
Il Vedānta preferisce considerare in
modo sintetico manas, ahaṃkāra e buddhi come modificazioni secondarie dell’organo interno (antahkāraṇa). Considerare analiticamente
le facoltà sottili, infatti, è più pertinente a una attitudine psicologica che
non a una visione metafisica.
[6] Lett. “logica secca”.
[7] Gli strumenti di valida conoscenza che
s’appoggiano sui cinque sensi sono: pratyakṣa, la percezione che verifica la presenza di un oggetto e anupalabdhi che ne constata l’assenza. Essi
s’aggiungono ai pramāna mentali
citati nel testo.
[8] BSŚBh
II. 2. 10.
[9] La
restrizione al campo matematico è dovuta al fatto che questa scienza s’applica
alla quantità pura, sprovvista cioè di qualunque aspetto qualitativo. In quel
caso, cambiando l'ordine dei fattori, l'eguaglianza viene rispettata. Se invece
si applica questa proprietà a un altro dominio caratterizzato da certe qualità,
il risultato raramente corrisponderà all’esperienza. Se si prende, per esempio
il risultato del sillogismo aristotelico che procede dal generale al
particolare: “Tutti gli uomini sono mortali; Socrate è un uomo; perciò Socrate
è mortale” si deve ammettere che è condivisibile. Ma se si cambiasse l’ordine
del sillogismo, procedendo dal particolare al generale e s’affermasse:
“Deucalione è un uomo; Deucalione è immortale; perciò tutti gli uomini sono
immortali” il risultato del sillogismo sarebbe clamorosamente falso.
[10] Lett. “logica fallace” o sofisma.
[11] Pramāṇa
tarka deve necessariamente partire da una percezione, altrimenti si
ricadrebbe nel caso dello śuṣka tarka,
quello citato in precedenza, che può fare a meno dell’esperienza sensoria,
limitandosi ai concetti e ricordi mentali.
[12] Lett. “la nuova logica”.
[13] Crf.
BSŚBh II. 1. 11.
[14] BSŚBh
II. 1. 6.
[15] BSŚBh
I. 1. 4.
[16] BSŚBh
II. 1. 6.
[17] Hiraṇyagarbha
va inteso come la proiezione di Brahmā, il dio che manifesta quel mondo, quale
embrione collocato al centro dell’Uovo cosmico, che, per questa ragione è detto
Brahmāṇḍa, uovo di Brahmā.
[18] Hiraṇyagarbha
corrisponde nel cosmo esattamente a ciò che è il jīvātman nell'aggregato individuale.
[19] I termini occidentali di Macrocosmo e
microcosmo corrispondono abbastanza precisamente ai concetti espressi da quelli
sanscriti adhidaivika prapañca e adhyātmika prapañca. Il Macrocosmo, adhidaivika prapañca comprende le tre
componenti dell'Uovo cosmico, che, per ritornare alla terminologia medievale
dell’Occidente, sarebbero Res materiales
vel Corpus Mundi, Anima Mundi e Spiritus Mundi. Analogamente ad adhyātmika prapañca, al microcosmo
umano, corrisponde la triade corpus, anima et spiritus. Perciò il
corpo, l’anima e lo spirito d’un individuo trovano il loro equivalente nella
modalità grossolana degli oggetti che costituiscono l’Universo, in quella
sottile degli esseri intermedi, quali gli yakṣa,
i rākṣasa, i gaṇa e altre schiere di geni, e in quella spirituale delle
gerarchie divine. Ad adhibhūta,
letteralmente “totalità grossolana”, si può far corrispondere il “macrantropo”
del simbolismo ermetico. Si tratta d’un simbolismo ricalcato sulla forma
corporea dell’essere umano: il Macrantropo cosmico (adhibhautika prapañca) è perciò composto di terra,
atmosfera e cielo, trimundio (tribhuvana)
che, benché formato solamente dai cinque elementi, si presta a simboleggiare le
dimore degli esseri corporei, sottili e spirituali. Analogamente la parte
addominale e le gambe del macrantropo individuale, adhibhautika puruṣa, rappresentano la terra, l'apparato
respiratorio l’atmosfera, e la testa il cielo. Tuttavia, la dottrina vedāntica
afferma rigorosamente che questi tre aspetti appartengono tutti allo stato
della veglia, dal momento che lo stato di sogno è provvisto di aspetti suoi
propri e il sonno profondo ne è totalmente privo.
[20] BU IV.
3. 1-6.
[21] KU
II. 3. 9.
[22] L’autoproduzione spontanea, assieme al
concetto di casualità, è il presupposto della scienza atea contemporanea, che
tuttavia rispetta incoerentemente il ferreo dogma ideologico del “progresso
indefinito”. Per cercare di superare l’evidente limitazione intellettuale di
tale posizione generalizzata, un gruppo di cosmologi più intelligenti si sono
riuniti nella cosiddetta “Gnosi di Princeton”, ipotizzando una intelligenza
ordinatrice immanente al cosmo, perciò comunque antimetafisica, assumendo con
il tempo sfumature sempre più marcatamente New
Age.
[23] L’ipotesi del Big bang, attualmente fortemente criticata in sede sperimentale, è
una contraddittoria teoria di creatio ex
nihilo priva di Creatore. Tuttavia questa teoria ammette almeno che spazio
e tempo sono situati all’interno del mondo manifestato. Probabilmente il
sospetto che questa teoria nasconda una vaga tendenza creazionistica sta
all’origine dei forti attacchi a cui è oggi sottoposta dalla scienza ufficiale,
che, per essere ritenuta tale, deve
essere atea.
[24] Ciò non toglie che nelle altre tradizioni si
possano riscontrare sporadicamente tracce di metafisica pura, a testimonianza
della presenza di persone che ivi hanno raggiunto una conoscenza del Supremo.
Tuttavia questi affioramenti sono accuratamente mascherati o nascosti, per
evitare l’ostilità dell’essoterismo corrispondente che così si rivela
dichiaratamente antimetafisico.
[25] Cfr. Ƭ Palingenius,
“Les conditions de l’existence corporelle”, Paris, La Gnose,
Jenvier-Février 1912.
[26] BSŚBh I. 1. 2.
[27] La sedia è tale perché la si usa per
sedersi. Ma se una sedia è usata come sostegno per una lampada, allora non è
più una sedia, poiché il suo uso è mutato. In tal caso la chiamiamo sgabello o
comodino. Ma la relazione con la sua sostanza lignea permane inalterata anche
se le abbiamo cambiato funzione e nome.
[28] BSŚBh
II. 1. 14.
[29] BSŚBh
II. 2. 10.
[30] Automatico insenso etimologico, ossia “fatto
da se stesso”.
[31] “Abbiamo già
visto che Yājñavalkya non andò mai oltre śravaṇa
e manana nella sua spiegazione e che
Maitreyī fu capace di raggiungere l’immortalità unicamente per mezzo di tale
insegnamento”. Svāmī Satcidānandendra, Dottrina e Metodo, cit., p. 172.
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