Gian Giuseppe Filippi
Il Serpente e la Corda
Indice I Parte
Introduzione
1. Attuale situazione delle forme tradizionali e delle organizzazioni iniziatiche
2. L’induismo contemporaneo e le sue organizzazioni iniziatiche
3. La Conoscenza o esperienza intuitiva del Brahman
4. L’Intuizione che sorge dall’osservazione dei tre stati
5. Gli strumenti di conoscenza che rimuovono l’ignoranza
6. Alcune considerazioni sul metodo vedāntico: śrāvaṆa
7. Alcune considerazioni sul metodo vedāntico: manana
8. Alcune considerazioni sul metodo vedāntico: nididhyāsana
9. Significato vedāntico di Yoga
10. Gradi di discriminazione tra Sé e non-Sé
11. Da manana a nididhyāsana
12. Superamento delle opinioni erronee e delle difficoltà
13. Significato vedāntico di alcuni termini ricorrenti nei testi
13. Significato vedāntico di alcuni termini ricorrenti nei testi
Nell’Advaita Vedānta sono in
uso molti vocaboli che si trovano ovunque nella śruti e nella smṛti.
Essi, tuttavia, devono essere interpretati, in questo caso, sotto una luce del
tutto particolare se si vuole comprendere a fondo la dottrina śaṃkariana.
Per
esempio, abbiamo già rilevato brevemente quanto l’uso vedāntico dei termini yoga
e samādhi sia differente per significato da ciò che s’intende
usualmente nelle numerose organizzazioni iniziatiche che si rifanno al Pātañjala
yoga e presso gli Yoga tantrici. Sarà dunque necessario ritornare su
questo tema, in modo da offrire al lettore gli strumenti necessari per una
interpretazione corretta qualora volesse approfondire gli argomenti che abbiamo
affrontato finora, con una lettura diretta dei Prasthāna Traya.
I Prasthāna Traya, vale a
dire le dieci principali Upaniṣad, i Brahma Sūtra e la Bhagavad
Gītā, sono i testi che la Tradizione ha riservato al Vedānta come
suoi fondamenti dottrinali. Ciò significa che il Vedānta darśana (spesso
chiamato anche Uttara Mīmāṃsā) ha come fonti primarie i testi della
sezione conoscitiva della śruti (jñāna kāṇḍa), le Upaniṣad,
oltre a due libri appartenenti alla smṛti, per l’appunto i Brahma
Sūtra e la Bhagavad Gītā.
Per quanto riguarda gli altri darśana,
tutti le vie di Yoga hanno nello Yoga Sūtra di Patañjali il loro
testo fondante, oltre a un folto numero di trattati appartenenti alla smṛti o
ai Tantra. Il Sāṃkhya si basa fondamentalmente sulle Sāṃkhya
Kārikā di Īśvarakṛṣṇa, sui Sāṃkhya Sūtra e i loro commentari.
Similmente il Vaiśeṣika si rifà ai Vaiśeṣika Sūtra di Kaṇāda e il
Nyāya ai Nyāya Sūtra di Gautama e ad altri trattati.
La Pūrva Mīmāṃsā si basa sui Mīmāṃsā
Sūtra di Jaimini e sulle parti rituali del Veda (karma kāṇḍa),
vale a dire Samhitā o inni vedici, Brāhmaṇa e Āraṇyaka[1]. Come si può
notare, quindi, solamente il Vedānta e la Mīmāṃsā hanno il
privilegio di appoggiarsi direttamente all’autorità del Veda[2], mentre tutti gli
altri darśana appartengono alla tradizione smārta (della smṛti). [3]
Ritornando al Vedānta, si
potrà notare che, se le Upaniṣad[4] rappresentano il
testo di massima autorità dottrinale, questo darśana fonda la sua
dottrina anche su due smṛti, come sono sia i Brahma Sūtra sia la Gītā.
I Brahma Sūtra rappresentano un brevissimo sunto a scopo mnemonico della
dottrina upaniṣadica del Brahmātman, estremamente sintetica e
incomprensibile alla lettura senza il commento di Śaṃkarācārya. La Bhagavad
Gītā è, al contrario, un testo che riunisce in un’unica narrazione le
diverse componenti del Vedānta Siddhānta che, nelle varie Upaniṣad sono
esposte in ordine sparso come insegnamenti dei grandi jñāni del passato,
quali sono stati Yājñavalkya, Uḍḍālaka, Śvetaketu e altri ancora. La Gītā,
perciò, è un validissimo strumento conoscitivo per i sādhaka, una smṛti
di tale autorità dottrinale da essersi meritato il titolo di Quinto Veda.
La Gītā, tuttavia, ha anche un’altra caratteristica del tutto unica:
essa è un testo sacro valido non soltanto per il Vedānta vicāra, ma
anche come strumento di meditazione per tutte le numerosissime correnti
iniziatiche e non iniziatiche del Sanātana Dharma. Per questa ragione i
singoli termini del lessico della Gītā devono essere riportati ai
significati che le differenti correnti attribuiscono loro, significati che
possono variare anche nel corso dello sviluppo del medesimo testo. È nostro
impegno, dunque, spiegare questi termini nell’ottica vedāntica, seguendo
l’interpretazione fornita da Ādi Śaṃkarācārya in persona, e
distinguendone il senso da quello proprio di altri saṃpradāya.
Śaṃkara, nel suo commento a un
passaggio della Gītā, interpreta la parola samādhi nel modo
seguente:
Samādhi qui significa intelletto (buddhi) od organo interno (antaḥkāraṇa), verso cui convergono tutte le sensazioni provenienti dagli oggetti piacevoli al puruṣa individuale.[5]
Egli intende dire con ciò che samādhi
è la scelta dell’intelletto determinata dalla natura di quel puruṣa:
vale a dire la scelta sia a rivolgersi verso i piaceri mondani offerti dagli
oggetti esterni, sia a propendere per la Liberazione, scelte che dipendono
rispettivamente dall’inclinazione naturale o dalle qualifiche che hanno la loro
principale sede nell’intelletto (buddhi). Perciò in questo caso samādhi
sta per buddhi.
Nondimeno, in un altro passaggio
della Gītā, Śaṃkara attribuisce al termine samādhi un’interpretazione
diversa:
Quando la tua mente è disattivata dalla śruti [cioè śrāvaṇa], diventa incrollabile e fissata nel samādhi, allora raggiungi lo Yoga [l’ādhyātmika yoga] che segue la discriminazione.[6]
La mente e l’intelletto diventano
assolutamente stabili quando si conosce la vera natura del Sé a seguito della
discriminazione. In questo caso, dunque, samādhi significa il Sé. Dhī,
con cui termina la parola samādhi, significa conoscenza, cioè a dire, il
Sé. E non esiste alcun mezzo con cui equilibrare e pacificare la mente,
risolvendo tutte le sue antinomie, paragonabile alla conoscenza della vera
natura del Sé. Perciò nella strofe successiva con samādhi sthasya
s’indica colui che è già fissato nella sua vera natura di Sé:
O Keśava, come si può descrivere chi possiede la salda conoscenza, (samādhi sthasya) di chi è identificato al Sé?[7]
Rimanendo sempre ai significati
speciali che il Vedānta conferisce al termine samādhi, c’è da
citare anche il passaggio che segue:
Il Sé è libero da tutte le facoltà di sensazione e di azione, ed è al di là di tutti i sensi interni[8]. Esso è totalità di pace, luce eterna, assorbimento principiale (samādhi), immutabilità, assenza di timore (abhayaḥ).[9]
Qui, per Śaṃkara, l’unico termine samādhi
assume due significati. Il primo riguarda il punto di vista dell’approccio
dottrinale intellettuale (bodhaka vicāra) consistente nella ferma
convinzione che la reale natura del Sé deve essere raggiunta con mente e
intelletto tesi a quello scopo: in questo senso questa consapevolezza del Sé è
chiamata samādhi. Il secondo significato di samādhi in questo
stesso passo, invece, riguarda il Sé inteso nella sua realtà assoluta come
“punto” dove si superano tutte le antinomie.
Un altro termine che è passibile di
differenti interpretazioni è Yoga, come s’è già accennato in precedenza.
Nel passaggio della Gītā[10] citato qualche
riga sopra, Yoga è interpretato da Śaṃkara come quella coscienza della
vera natura del Sé che è il risultato della discriminazione “neti neti”.
Invece in quest’altra strofe:
O Pārtha [Arjuna], questa dottrina intellettuale ti è stata insegnata nella prospettiva della realizzazione del Sé. Ma ora ascolta questa [altra] dottrina che riguarda il punto di vista dello Yoga, che ti libererà dalle limitazioni karmiche e che serve per arrivare [poi] a quella dottrina intellettuale.[11]
In questo contesto, Yoga chiaramente
allude ai mezzi preliminari usati per raggiungere la conoscenza, jñāna.
In altre parole, in questo caso lo Yoga della Gītā corrisponde a
ciò che il Vedānta definisce Karma yoga. Bisogna però precisare
che con Karma yoga qui non s’intende un preciso ramo ritualistico tra le
tante discipline yogiche, bensì in generale il compimento iniziatico dello svadharma[12]; esso ha lo scopo
di purificare la mente per renderla capace di uscire dai limiti delle dottrine
del non-Supremo e di stimolare nel sādhaka il desiderio di conoscenza (jijñāsā)[13]. Ed
è del tutto indifferente per il Vedānta se questa purificazione ottenuta
con il Karma yoga sia stata operata nella presente vita o in esistenze
precedenti.
Però, nell’introduzione al quarto
capitolo della Bhagavad Gītā, Śaṃkara descrive lo Yoga come
un’attività superiore a quello del Karma yoga:
Questo Yoga di cui s’è trattato negli ultimi due capitoli, e che è caratterizzato dall’impegno verso la conoscenza e la rinuncia, può essere ottenuto per mezzo del Karma yoga.[14]
Perciò un altro significato che la
parola Yoga può assumere è tutto l’insieme dell’ascolto (śrāvaṇa),
della riflessione (manana) e della contemplazione (nididhyāsana o
ādhyātmika yoga), ossia gli strumenti d’indagine conoscitiva e
coscienziale che costituiscono il metodo dell’Advaita Vedānta. Questo
metodo, nella terminologia della Gītā, è chiamato anche Sāṃkhya o
Sāṃkhya yoga[15]. Ciò ha provocato molteplici sviste nelle traduzioni dei sanscritisti
occidentali che, pur rendendosi conto che con quel termine nella Bhagavad
Gītā non si intendeva affatto il Sāṃkhya darśana di Kapila, non
hanno mai compreso esattamente di che cosa si trattava. Nella Gītā con Sāṃkhya
si intende la conoscenza metafisica, il jñāna o jñāna yoga.
Per completare questa panoramica di
significati della parola Yoga come sono spiegati da Śaṃkara, con la
prossima citazione forniremo un esempio alquanto raro, ma concettualmente il
più elevato:
[...] e nemmeno gli esseri dimorano in me. Contempla il mio divino Yoga. Io sono origine e substrato di tutti gli esseri, ma il mio Sé non è contenuto negli esseri.[16]
In questo śloka con Yoga s’intende
il divino mistero del Brahman, l’infinità dell’Ātman, l’identità non
duale di Brahman, Ātman, pura Coscienza ed totale esistenza. Il fatto
che esso sia il sostrato di tutti i fenomeni del mondo duale, che
simultaneamente appaia sotto forma della manifestazione esistenziale e che sia
libero totalmente da ogni fenomeno dualistico, è espresso dal termine Yoga,
sintesi del suo mistero.
Le citazioni tratte da Śaṃkara e
presentate in queste righe sono del tutto conformi all’uso della parola Yoga
da parte dell’Advaita Vedānta. Non sono, invece, mai tenuti in
considerazione gli stati transitori (samādhi) in quanto sinonimi di yoga
come sono descritti nei testi e insegnati dai guru di Pātañjala
yoga, Rājayoga, Dhyānayoga, Haṭayoga, Layayoga,
Sphoṭayoga (o Mantrayoga) e di altre mille varianti di Yoga e
di Vidyā. Quindi negli autentici insegnamenti advaita a commento
della Gītā che trattano della conoscenza del Sé, non si fa mai menzione
di centri sottili, ruote o fiori di loto (cakra o kamala) che dir
si voglia, d’arterie sottili (nāḍī), di potenza individualizzata (kuṇḍalinī),
di prodigi (adbhuta), di poteri (siddhi) ecc. Ogni tanto, ma
soltanto quando sono menzionati nelle Upaniṣad o in altre parti della
scrittura, si accenna ad alcuni tipi di meditazione, come la Oṃkāra upāsanā,
o la ahaṃgraha upāsanā. Talora sono citate le nāḍī, come Iḍā,
Piṅgalā, Suṣumṇā. Ma nei brani che sono dedicati esclusivamente
alla conoscenza del Sé non viene ricordata nessuna di queste cose.
Concludendo, qualcuno potrà
interrogarsi se l’Advaita Vedānta, dando una interpretazione dei termini
aderente alla sua dottrina e in contrasto con quella delle scuole di conoscenza
non-suprema, non è per caso che forzi il senso dei testi. La risposta è
negativa, in quanto il Bhagavad Gītā Śaṃkara Bhāṣya rimane ancor oggi il
commento principale riconosciuto e usato presso tutte le vie iniziatiche
dell’India, senza contestazione o riserva alcuna[17]. Gli
altri numerosi commenti sono riconosciuti e usati soltanto degli aderenti di un
singolo saṃpradāya.
Per gentile concessione del Comitato Redazionale Tridaṇḍa del sito Veda Vyāsa Maṇḍala e dell'Autore
Il testo si trova al link:
[1] La Pūrva Mīmāṃsā richiede perciò che gli
iniziati alle sue paramparā siano di casta brāhmaṇica o, perlomeno,
appartenenti alle tre caste superiori, poiché devono avere accesso ai riti
vedici. Questa è l’unica sādhanā preclusa ai non hindū. Non si
deve però pensare che un non hindū non possa assolutamente entrare nel Sanātana
Dharma ed essere aggregato a una casta anche dal punto di vista esteriore.
“Manu è dell’avviso che se un Re giusto conquista un regno straniero, anche la
popolazione di quel paese è abilitata a seguire i sāmānya dharma (le
regole generali di condotta) presctritte dai sūtra. In base a ciò, siamo
pronti a considerare hindū quegli stranieri che credono nella nostra
religione.” (Jagadguru Sri Abhinava Vidyatheertha Mahaswamigal, Exalting
Elucidations, Chennai, Sri Vidyatheertha Foundation, 2004, p. 66). Tale possibilità
è principalmente presa in considerazione per intere comunità o villaggi.
Tuttavia, perquanto rare, sono previste anche aggregazioni individuali a una
determinata casta, il che permette l’accesso anche all’iniziazione fondata sui
riti vedici. All’uopo esiste un rito chiamato hiraṇyagarbha, l’“embrione
d’oro”, che riproduce in forma sacrificale la rinascita nel Dharma.
Rinascita, perché l’Induismo, essendo la tradizione naturale dell’umanità
primordiale, considera che, in linea di principio, tutti siano nati hindū,
poi artificialmente convertiti dai genitori alle tradizioni o religioni
sorte nel corso della storia, a cui hanno aderito. Tuttavia queste conversioni
tramite rituali caratteristici di ogni tradizione, si sovrappongono alla
condizione originale ottenuta con la nascita umana, senza stravolgerne o
sradicarne la natura. Perciò: “Un hindū è sempre un hindū.
Nessuno può convertire un hindū.” (Ibid. p. 67) E, “... se costui
s’immerge nel sacro Gange e mantiene la sua adesione ai nostri śāstra, non
c’è alcuna obiezione per trattarlo di nuovo come un hindū.” (Ibid.
p. 65).
[2] Ciò ha permesso qualche sconfinamento indebito dei mīmāṃsāka nel terreno upaniṣadico, con il pretesto che, per esempio, la Bṛhadāraṇyaka appartiene sia al genere Āraṇyaka, sia a quello delle Upaniṣad. In realtà, le dieci maggiori Upaniṣad rappresentano il vero jñāna kāṇḍa, e tutto ciò che in esse appare ritualistico è menzionato all’unico scopo di dimostrarne la limitatezza in paragone con la visione conoscitiva.
[2] Ciò ha permesso qualche sconfinamento indebito dei mīmāṃsāka nel terreno upaniṣadico, con il pretesto che, per esempio, la Bṛhadāraṇyaka appartiene sia al genere Āraṇyaka, sia a quello delle Upaniṣad. In realtà, le dieci maggiori Upaniṣad rappresentano il vero jñāna kāṇḍa, e tutto ciò che in esse appare ritualistico è menzionato all’unico scopo di dimostrarne la limitatezza in paragone con la visione conoscitiva.
[3] Alcune vie iniziatiche più intellettuali, ma comunque
appartenenti alla conoscenza del non Supremo, poggiano la loro dottrina su
alcune Upaniṣad minori loro dedicate, come la Tripurarahasya o la
Bhāvana Upaniṣad per Śṛī Vidyā. Ciò le rende prossime alla
prospettiva vedāntica.
[4] Ovviamente, se le scuole di conoscenza non suprema
volessero interpretare le Upaniṣad attribuendo al lessico di quelle śruti
i significati propri alle loro dottrine, ne stravolgerebbero il senso
invadendo il dominio che la Tradizione assegna al Vedānta.
[5] BhGŚBh II. 44.
[6] BhG II. 53.
[7] BhG II. 54.
[8] Il senso interno in generale è il manas. In
questo caso, per estensione, questa determinazione al plurale comprende anche ahaṃkāra,
buddhi e citta, ovvero l’intero organo interno (antaḥkāraṇa).
[9] MāUGK III. 37.
[10] BhG II. 53.
[11] BhG II. 39.
[12] Nel caso della Gītā, il svadharma di
Arjuna (Pārtha) è quello del guerriero. Qualsiasi dharma di altra casta
è definito paradharma.
[13] Quello che qui è definita purificazione della mente,
in grado di avviare alla conoscenza suprema, consiste nel raggiungimento della
piena coscienza dell’intero stato di veglia preso come un tutt’uno. Ciò
significa includere nella totalità dello stato sia il soggetto sia l’oggetto,
cioè sia il propio jīva sia il mondo della veglia. In termini che sono
forse più familiari al lettore, si tratta dello stato di Uomo Universale (Viśvanara)
che corrisponde alla coscienza dell’intero stato di veglia. Dal raggiungimento
della coscienza dell’intero stato chiamato Vaiśvanara, ha inizio la conoscenza
del Supremo Brahman. Al contrario, la mente purificata che rimane collocata al
centro dello stato di veglia, quello che usualmente si definisce come stato
primordiale (ādya sthāna), non avendo ancora raggiungiunta la totale
universalità di quello stato, continua a mantenere una distinzione (viśeṣa)
tra soggetto (jñātā) e oggetto (jñeya). Questo è il massimo
livello di reintegrazione a cui arrivano i sādhaka per mezzo delle vie
della conoscenza non suprema. Non si deve però pensare che la conoscenza non
suprema sia qualcosa da sottovalutare, tanto meno da trascurare: senza questa
preparazione iniziatica compiuta in precedenti esistenze o nell’attuale, l’Advaita
Vedānta sarebbe irraggiungibile. Senza una approfondita conoscenza della
dottrina dei tre stati di coscienza, le nozioni esposte in questa nota possono
apparire complesse. Ci ripromettiamo perciò, in un prossimo futuro, di fornire
gli strumenti necessari per accedere a questa comprensione.
[14] BhG IV, Prasthāva.
[15] Soprattutto in BhG V. In BhG VI, il
metodo del Vedānta è preferibilmente definito Dhyāna yoga.
[16] BhG IX. 5.
[17] Forse qualche obiezione potrà essere mossa da qualche
indologo o sanscritista nato o formato in occidente. Ma il peso di tali
sciocchezze è assolutamente irrilevante.
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