Il Serpente e la Corda
Indice I Parte
Introduzione
1. Attuale situazione delle forme tradizionali e delle organizzazioni iniziatiche
2. L’induismo contemporaneo e le sue organizzazioni iniziatiche
3. La Conoscenza o esperienza intuitiva del Brahman
4. L’Intuizione che sorge dall’osservazione dei tre stati
5. Gli strumenti di conoscenza che rimuovono l’ignoranza
6. Alcune considerazioni sul metodo vedāntico: śrāvaṆa
7. Alcune considerazioni sul metodo vedāntico: manana
8. Alcune considerazioni sul metodo vedāntico: nididhyāsana
9. Significato vedāntico di Yoga
10. Gradi di discriminazione tra Sé e non-Sé
11. Da manana a nididhyāsana
12. Superamento delle opinioni erronee e delle difficoltà
13. Significato vedāntico di alcuni termini ricorrenti nei testi
9. Significato vedāntico di Yoga
In generale si suole collegare, in prima battuta, la parola Yoga
alla dottrina di Patañjali e, in secondo luogo, al Rāja yoga, allo Haṭha
yoga, al Laya yoga e ad altre discipline che da quella dottrina
rilevano.
Tuttavia nelle Upanisad, nella Bhagavad Gītā e nei Brahma Sūtra, cioè nella prospettiva vedāntica dei Prasthāna Traya, il significato di Yoga è alquanto differente, come si è potuto leggere nel capitolo precedente in cui abbiamo descritto nididhyāsana in quanto adhyātmika yoga. Nel Brahma Sūtra Bhāṣya, infatti, Śaṃkara ha dichiarato che della dottrina degli Yoga Sūtra di Patañjali possono essere accettabili soltanto i primi cinque “membri” (aṅga) dello Yoga darśana. Il primo aṅga corrisponde alle istruzioni per controllare le facoltà di senso (jñānendriya), raggruppate in ciò che si denomina autocontrollo (yama). Il secondo membro è definito “freno” (niyama), che è l’insieme delle regole per raffrenare le facoltà d’azione (karmendriya). Āsana, posizione, è l’aṅga per mezzo del quale si deve scegliere per la pratica la postura del corpo più comoda, prevalentemente da seduto, quella che si può mantenere più a lungo senza provar dolore o cadere in assopimento. Il quarto membro corrisponde al prāṇāyāma, il rallentamento della respirazione, al fine di pacificare la mente. Infine il quinto aṅga è pratyāhāra che consiste nel distaccare e ritrarre la mente dal desiderio di fruire degli oggetti esterni, impedendo così anche l’attaccamento ai risultati delle azioni compiute. Anche se il modo con cui sono messi in pratica nell’ādhyātmika yoga è diverso[1], questi cinque aṅga del Pātañjala yoga possono essere considerati indispensabili anche per una certa categoria di discepoli del Vedānta che faticano a passare direttamente alle tecniche puramente conoscitive[2]. Per sviluppare le qualità che i cinque aṅga summenzionati procurano, può essere utile all’uomo comune praticare preliminarmente Karma yoga e varie tecniche di meditazione (upāsanā). Anche la Bhagavad Gītā sostiene qualcosa d’analogo quando afferma che il Karma yoga conduce al “Dhyāna yoga”. Lo stesso testo aggiunge che il Bhakti yoga, avviando al “Dhyāna yoga”, fa, alla fine, ottenere la conoscenza. È però necessario precisare che nel linguaggio della Gītā, “Dhyāna yoga” non ha il significato in uso negli Yoga Sūtra, ma è sinonimo di Adhyātman o nididhyāsana. Vale a dire che questo “Dhyāna yoga” della Bhagavad Gītā fa parte del metodo del Vedānta e non delle sādhanā basate sulla meditazione (upāsanā).
Tuttavia nelle Upanisad, nella Bhagavad Gītā e nei Brahma Sūtra, cioè nella prospettiva vedāntica dei Prasthāna Traya, il significato di Yoga è alquanto differente, come si è potuto leggere nel capitolo precedente in cui abbiamo descritto nididhyāsana in quanto adhyātmika yoga. Nel Brahma Sūtra Bhāṣya, infatti, Śaṃkara ha dichiarato che della dottrina degli Yoga Sūtra di Patañjali possono essere accettabili soltanto i primi cinque “membri” (aṅga) dello Yoga darśana. Il primo aṅga corrisponde alle istruzioni per controllare le facoltà di senso (jñānendriya), raggruppate in ciò che si denomina autocontrollo (yama). Il secondo membro è definito “freno” (niyama), che è l’insieme delle regole per raffrenare le facoltà d’azione (karmendriya). Āsana, posizione, è l’aṅga per mezzo del quale si deve scegliere per la pratica la postura del corpo più comoda, prevalentemente da seduto, quella che si può mantenere più a lungo senza provar dolore o cadere in assopimento. Il quarto membro corrisponde al prāṇāyāma, il rallentamento della respirazione, al fine di pacificare la mente. Infine il quinto aṅga è pratyāhāra che consiste nel distaccare e ritrarre la mente dal desiderio di fruire degli oggetti esterni, impedendo così anche l’attaccamento ai risultati delle azioni compiute. Anche se il modo con cui sono messi in pratica nell’ādhyātmika yoga è diverso[1], questi cinque aṅga del Pātañjala yoga possono essere considerati indispensabili anche per una certa categoria di discepoli del Vedānta che faticano a passare direttamente alle tecniche puramente conoscitive[2]. Per sviluppare le qualità che i cinque aṅga summenzionati procurano, può essere utile all’uomo comune praticare preliminarmente Karma yoga e varie tecniche di meditazione (upāsanā). Anche la Bhagavad Gītā sostiene qualcosa d’analogo quando afferma che il Karma yoga conduce al “Dhyāna yoga”. Lo stesso testo aggiunge che il Bhakti yoga, avviando al “Dhyāna yoga”, fa, alla fine, ottenere la conoscenza. È però necessario precisare che nel linguaggio della Gītā, “Dhyāna yoga” non ha il significato in uso negli Yoga Sūtra, ma è sinonimo di Adhyātman o nididhyāsana. Vale a dire che questo “Dhyāna yoga” della Bhagavad Gītā fa parte del metodo del Vedānta e non delle sādhanā basate sulla meditazione (upāsanā).
In breve, upāsanā, dhyāna o cintana, che dir si voglia [ovvero la meditazione], è un’azione mentale, mentre jñāna è una idea mentale che insorge in quanto corrisponde a una cosa. [...] I termini upāsanā e dhyāna sono talvolta anche usati per nididhyāsana.[3]
Ciò significa che la meditazione è una azione mentale operata con
sforzo e concentrazione su un unico oggetto, al fine di ottenere un risultato
che, all’inizio di tale indagine, non esisteva. Al contrario, jñāna consiste
nel riconoscere e nello sperimentare intuitivamente una verità che è tale per
natura ed eternamente presente in chi contempla. Per questa ragione l’Adhyātma
Śāstra respinge i tre ultimi “membri” dello Yoga darśana, vale a
dire dhāraṇā, dhyāna, e samādhi, poiché, riconoscendo che
la meditazione è una azione, la relega al mondo del divenire. Può accadere, in
ogni caso, d’imbattersi in queste tre parole nei Prasthāna Traya Bhāṣya.
Per esempio all’inizio del suo commento al nono capitolo della Bhagavad Gītā,
Śaṃkara afferma:
Nell’ottavo discorso ho insegnato lo Yoga della concentrazione o dhāraṇā...[4]
Anche nel Taittirīya Upaniṣad Bhāṣya egli stabilisce che:
Certamente non è una regola per tutti che la conoscenza sorga dalla semplice eliminazione degli ostacoli senza l’aiuto della grazia del Signore e della pratica dell’ascesi (dhāraṇā). Perché il non nuocere (ahiṃsā), la castità (brahmacarya) ecc. possono essere di un qualche aiuto [all’inizo del procedere] all’illuminazione; ma śrāvaṇa, manana e nididhyāsana sono i mezzi indispensabili per raggiungerla.[5]
In questi passaggi particolari, il senso di dhyāna e di dhāraṇā
corrisponde a quello che dà Patañjali, poiché Śaṃkara sta descrivendone
l’uso in senso meditativo che è proprio dello Yoga darśana. Egli dunque,
in questo caso, si riferisce alla ripetizione del monosillabo Oṃ come mantra
e alla meditazione su di esso quale simbolo di Īśvara, com’è ingiunto dal Veda.
Sulla base di tali caratteristiche, Śaṃkara afferma senza mezzi termini che il Pātañjala
yoga è una dottrina dualistica, dacché Patañjali considera che i Sé sono
molteplici ed eterni, accetta l’esistenza ab æterno della sostanza
universale (prakṛti) che è caos primordiale (nirṛti), principio
non cosciente (acetana) e ignoranza (avidyā), sostenendo,
inoltre, l’eternità di Īśvara come loro Signore. Invece il Vedānta insegna
che c’è solo il Brahman non duale che può apparire sotto quelle forme a causa
dell’ignoranza. Ciò è quanto brevemente, ma inesorabilmente, afferma Śaṃkara:
I seguaci del Sāṃkhya e dello Yoga sono dei dualisti perché non comprendono che il Sé è unico.[6]
Perciò quando il Vedānta usa termini come Yoga e Sāṃkhya,
non lo fa allo stesso modo del Pātañjala yoga o del Kāpila sāṃkhya;
ma, in accordo con i suoi stessi principi, se ne serve per indicare i processi
di discriminazione (viveka), e d’attenzione (nididhyāsana),
basati sull’esperienza dell’Intuizione universale (sarvānubhāva) e sulla
chiara comprensione dell’illusorietà del mondo.
L’ādhyātmika yoga è descritto nella Kaṭha Upaniṣad
come l’attenzione nei confronti del Sé:
Il saggio rinuncia a piacere e dolore ponendosi in uno stato di attenzione sull’adhyātman, meditando sulla divinità principiale imperscrutabile...[7]
Poiché l’attenzione è comunque una funzione della mente, essa può
essere anche definita meditazione, upāsanā, o contemplazione, dhyāna,
tenendo sempre presente il significato upaniṣadico[8] di
questi termini, ben distinto da quello in uso nei sūtra[9], com’è appena
stato spiegato. In questa prospettiva Śaṃkara aggiunge:
L’attenzione della mente sul Sé, dopo averla distolta dagli oggetti esterni, è l’ādhyātmika yoga.[10]
Sempre nella medesima Upaniṣad il fine dello Yoga vedāntico
è sintetizzato in modo chiarissimo:
Si deve conoscerLo per mezzo dell’identità dei due [Ātman-Brahman], affermando che Esso esiste. Chi Lo conosce affermando che Esso esiste avvera l’Identità.[11]
Queste ultime affermazioni della śruti devono essere
interpretate come segue: chi desidera ardentemente la Liberazione (mumukṣu)
deve partire dalla ferma consapevolezza dell’identità tra Ātman e
Brahman[12]. Userà, quindi, la discriminazione (viveka), ossia l’uso metodico del “neti
neti”, rinunciando a farsi coinvolgere dal mondo esterno, distaccandosi
dagli stimoli provenienti dagli oggetti visibili, udibili, tangibili ecc., che
gli si presentano per mezzo delle percezioni dei sensi (jñānendriya)[13]. Per fare un esempio, la vista percepisce un oggetto che appare “bello”: nell’uomo
ordinario questa percezione stimola la mente a godere del piacere di quella
visione. La mente, quindi, lo spingerà ad avvicinarsi a quell’oggetto
(condizionamento spaziale), e, per goderne più a lungo (condizionamento
temporale), desidererà impadronirsi di quell’oggetto (il “mio” usato per il
piacere dell’“io”). Al contrario, la percezione di un oggetto sgradevole farà
sì che la mente reagisca respingendo lontano quell’oggetto (condizionamento
spaziale), cercando di dimenticarlo relegandone la memoria in un passato
lontano (condizionamento temporale), rifiutandone così il possesso. Il “mio” (mama),
dunque, è difeso dall’intrusione dell’oggetto sgradevole, al fine di preservare
il piacere dell’“io” (aham). Il vedāntin, invece, rinuncia agli
stimoli piacevoli e spiacevoli provenienti dal mondo esterno per mezzo del
distacco discriminativo, che è il vero saṃnyāsa.
C’è ancora da precisare che le vie iniziatiche a tappe facenti
parte della conoscenza del non-Supremo, ingiungono un metodo di meditazione che
conduce al riassorbimento in successione delle facoltà individuali, quali sono
i sensi, le facoltà d’azione, i prāṇa (che mettono in opera i karmendriya)
e la mente che tutto coordina. In questo modo, la vista e gli altri sensi sono
riportati ai prāṇa, i prāṇa al manas, il manas all’ahaṃkāra,
l’ahaṃkāra alla buddhi, come effetti che rientrano nelle loro
cause[14]. Operando così s’ottiene un isolamento progressivo dell’aham dal mondo
esterno (dal “mio”) e dagli stimoli mentali che ne derivano (i “desideri”), per
giungere a uno stato di concentrazione unificata dell’individualità integrale.
Questa situazione dell’aham, isolato dai suoi naturali oggetti, è ciò
che il Pātañjala yoga definisce samādhi[15].
Al contrario il metodo vedāntico consiste in una discriminazione
di quelle medesime componenti dell’individualità dal vero Sé tramite il “neti
neti”.
Io non sono il corpo, non sono i sensi, non sono la mente, non sono l’ego, non sono i prāṇa, non sono l’intelletto. Io sono quello che è lontano dalla moglie, dai figli, dal podere, dalla casa ecc. In verità io sono quello Śiva che è Testimone diretto, che è l’eterno e intimo Sé.[16]
Naturalmente la presa di coscienza d’essere eternamente il
Brahmātman comporta a fortiori anche il riconoscimento che tutto quanto
è stato discriminato altro non è che il medesimo Principio supremo, poiché
nulla esiste al di fuori di Lui. Infatti:
Chi usa la discriminazione (viveka), riconduce la facoltà della parola (vac) alla mente (manas), il manas all’intelletto (buddhi), la buddhi al mahān Ātman [il jīvātman], e quest’ultimo all’immutabile Ātman [Śāntātman].[17]
Ciò differenzia definitivamente il samādhi ossia l’unione yogica com'è
concepito da Patañjali, dalla Liberazione (mukti o mokṣa).
Per gentile concessione del Comitato Redazionale Tridaṇḍa del sito Veda Vyāsa Maṇḍala e dell'Autore
Il testo si trova al link:
[1] Nel Vedānta, yama, niyama e pratyāhāra sono attuati per mezzo della discriminazione intellettuale e non tramite uno sforzo di controllo psicologico.
[2] Gli aṅga che sono
considerati più elevati negli Yoga Sūtra, vale a
dire dhāraṇā, la concentrazione della mente, dhyāna, la meditazione e samādhi, la
“congiunzione” (che, per Patañjali è sinonimo di yoga, unione), sono
invece considerati ingannevoli. In particolare il concetto di samādhi che, per Patañjali, rappresenta la fusione
dell’anima individuale con il Signore, è considerato un errore grave, poiché
per il Vedānta ciò che è relativo non può unirsi, fondersi o
identificarsi all’Assoluto. Per questa ragione, al giorno d’oggi, i maestri vedāntin, al fine di ridimensionarne la portata,
definiscono il samādhi dello Yoga darśana con la parola trance (dal fr. transe), assunta dall’inglese, a causa
dell’annullamento della coscienza durante questa esperienza del tutto
paragonabile allo stato di sonno profondo. Infatti l’esperienza del samādhi è così descritta da Prakāśātman: “... durante
il samādhi, nello stato privo di coscienza, in quel
momento è ottenuta la visione dell’Ātman, ma in un
altro momento [negli stati di veglia e di sogno] è percepita la dualità, a
causa della coscienza empirica proiettata dal karma che continua a
produrre effetti.” Pañcapādikā Vivaraṇa, Madras, T. R.
Chintamani, 1935-1939, II vol., p. 1240. A dimostrazione che il samādhi è solo uno stato transitorio da cui si ritorna
dietro impulso del karma, sta il fatto che tale
esperienza accade in forma naturale anche all’uomo ordinario quando ogni
mattina si sveglia dal sonno profondo; o come accade ad ogni jīva in trasmigrazione che, dopo il pralaya, si rimanifesta in un altro corpo. Confondere
il samādhi con il mokṣa è dovuto alla
limitazione, all’ignoranza e all’illusorietà da cui le vie della conoscenza del
non-Supremo non sono esenti.
[3] Svāmī Satcidānandendra,
Dottrina e Metodo dell’Advaita Vedānta, cit., p. 170.
[4] BGŚB IX. 1.
[9] Vale a dire smarta, in quanto
appartenente alla smṛti, come sono effettivamente i sūtra dello Yoga e del Sāṃkhya.
[10] Kaṭha Upaniṣad Śaṃkara Bhāṣya
(KUŚBh) I. 2. 12. Effettivamente l’attenzione, pur
essendo una funzione intellettuale, è uno stato non agente di adesione alla
realtà e non uno sforzo mentale come la concentrazione meditativa. L’attenzione
contemplativa può anche essere talora definita comprensione profonda.
[12] Come abbiamo fatto notare altrove, Michel
Vâlsan arrivò a sostenere che il mahāvākya “Ahaṃ Brahmāsmi” (io sono Brahman) è soltanto una
formula metodica e che nessun discepolo di Vedānta si considera
davvero identico a Brahman. Cfr. Ibn
‘Arabi, Livre de l’Extinction dans la Contemplation, a cura di
M. Vâlsan, Paris, Éd. de l’Oeuvre, 1984, p. 14, n.1. Oltre al fatto che i mahāvākya non sono affatto delle formule mantriche, la
verità è esattamente il contrario di quanto afferma Vâlsan: infatti la
Liberazione è possibile soltanto se c’è la preliminare intuizione intellettuale
della propria eterna identità con Brahman. Ma per comprendere questo è
necessario un minimo di qualifiche e di conoscenza metafisica.
[13] I jñānendriya sono i recettori
delle percezioni che provengono dagli oggetti; proprio perché non agiscono nel
mondo esterno, ma svolgono in qualche modo una funzione “contemplativa”, che
giustifica il loro nome di facoltà di conoscenza, jñāna indriya. Chi
invece interviene attivamente sugli oggetti esterni, sono i karmendriya, attività (karma) da cui deriva
la loro denominazione.
[14] In realtà questo punto di vista della
conoscenza non-suprema non è del tutto esatto, poiché i prāṇa non sono affatto causa degli indriya.
[15] Vale a dire lo stato di sonno profondo (suṣupti avasthā) in cui l’individuo s’immerge come
effetto nella sua causa. D’altronde questo stato di “transe”
è reversibile con il ritorno naturale allo stato di veglia (jagrat avasthā). In termini sufici, le varie tappe sopra
descritte rappresentano una serie di “estinzioni” (fanā) delle
componenti individuali.
[16] Śaṃkara, Advaita Pañcaratnam,
1, in Svāmī Satcidānandendra
Sarasvatī Mahārāja, Commento a “Le cinque Gemme dell’Advaita”, 0,
introduzione, Maitreyī (tr.), www.vedavyasamandala.com.
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