"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

mercoledì 17 gennaio 2018

Gian Giuseppe Filippi, Il Serpente e la Corda - I Parte - 9. Significato vedāntico di Yoga

Gian Giuseppe Filippi
Il Serpente e la Corda

Indice I Parte

Introduzione
1. Attuale situazione delle forme tradizionali e delle organizzazioni iniziatiche
2. L’induismo contemporaneo e le sue organizzazioni iniziatiche
3. La Conoscenza o esperienza intuitiva del Brahman
4. L’Intuizione che sorge dall’osservazione dei tre stati
5. Gli strumenti di conoscenza che rimuovono l’ignoranza
6. Alcune considerazioni sul metodo vedānticośrāvaṆa
7. Alcune considerazioni sul metodo vedānticomanana
8. Alcune considerazioni sul metodo vedānticonididhyāsana
9. Significato vedāntico di Yoga
10. Gradi di discriminazione tra Sé e non-Sé
11. Da manana a nididhyāsana
12. Superamento delle opinioni erronee e delle difficoltà
13. Significato vedāntico di alcuni termini ricorrenti nei testi


9. Significato vedāntico di Yoga

In generale si suole collegare, in prima battuta, la parola Yoga alla dottrina di Patañjali e, in secondo luogo, al Rāja yoga, allo Haṭha yoga, al Laya yoga e ad altre discipline che da quella dottrina rilevano.
Tuttavia nelle Upanisad, nella Bhagavad Gītā e nei Brahma Sūtra, cioè nella prospettiva vedāntica dei Prasthāna Traya, il significato di Yoga è alquanto differente, come si è potuto leggere nel capitolo precedente in cui abbiamo descritto nididhyāsana in quanto adhyātmika yoga. Nel Brahma Sūtra Bhāṣya, infatti, Śaṃkara ha dichiarato che della dottrina degli Yoga Sūtra di Patañjali possono essere accettabili soltanto i primi cinque “membri” (aṅga) dello Yoga darśana. Il primo aṅga corrisponde alle istruzioni per controllare le facoltà di senso (jñānendriya), raggruppate in ciò che si denomina autocontrollo (yama). Il secondo membro è definito “freno” (niyama), che è l’insieme delle regole per raffrenare le facoltà d’azione (karmendriya). Āsana, posizione, è l’aṅga per mezzo del quale si deve scegliere per la pratica la postura del corpo più comoda, prevalentemente da seduto, quella che si può mantenere più a lungo senza provar dolore o cadere in assopimento. Il quarto membro corrisponde al prāṇāyāma, il rallentamento della respirazione, al fine di pacificare la mente. Infine il quinto aṅga è pratyāhāra che consiste nel distaccare e ritrarre la mente dal desiderio di fruire degli oggetti esterni, impedendo così anche l’attaccamento ai risultati delle azioni compiute. Anche se il modo con cui sono messi in pratica nell’ādhyātmika yoga è diverso[1], questi cinque aṅga del Pātañjala yoga possono essere considerati indispensabili anche per una certa categoria di discepoli del Vedānta che faticano a passare direttamente alle tecniche puramente conoscitive[2]. Per sviluppare le qualità che i cinque aṅga summenzionati procurano, può essere utile all’uomo comune praticare preliminarmente Karma yoga e varie tecniche di meditazione (upāsanā). Anche la Bhagavad Gītā sostiene qualcosa d’analogo quando afferma che il Karma yoga conduce al “Dhyāna yoga”. Lo stesso testo aggiunge che il Bhakti yoga, avviando al “Dhyāna yoga”, fa, alla fine, ottenere la conoscenza. È però necessario precisare che nel linguaggio della Gītā, “Dhyāna yoga” non ha il significato in uso negli Yoga Sūtra, ma è sinonimo di Adhyātman o nididhyāsana. Vale a dire che questo “Dhyāna yoga” della Bhagavad Gītā fa parte del metodo del Vedānta e non delle sādhanā basate sulla meditazione (upāsanā).
In breve, upāsanā, dhyāna o cintana, che dir si voglia [ovvero la meditazione], è un’azione mentale, mentre jñāna è una idea mentale che insorge in quanto corrisponde a una cosa. [...] I termini upāsanā e dhyāna sono talvolta anche usati per nididhyāsana.[3]
Ciò significa che la meditazione è una azione mentale operata con sforzo e concentrazione su un unico oggetto, al fine di ottenere un risultato che, all’inizio di tale indagine, non esisteva. Al contrario, jñāna consiste nel riconoscere e nello sperimentare intuitivamente una verità che è tale per natura ed eternamente presente in chi contempla. Per questa ragione l’Adhyātma Śāstra respinge i tre ultimi “membri” dello Yoga darśana, vale a dire dhāraṇā, dhyāna, e samādhi, poiché, riconoscendo che la meditazione è una azione, la relega al mondo del divenire. Può accadere, in ogni caso, d’imbattersi in queste tre parole nei Prasthāna Traya Bhāṣya. Per esempio all’inizio del suo commento al nono capitolo della Bhagavad Gītā, Śaṃkara afferma:
Nell’ottavo discorso ho insegnato lo Yoga della concentrazione o dhāraṇā...[4]
Anche nel Taittirīya Upaniṣad Bhāṣya egli stabilisce che:
Certamente non è una regola per tutti che la conoscenza sorga dalla semplice eliminazione degli ostacoli senza l’aiuto della grazia del Signore e della pratica dell’ascesi (dhāraṇā). Perché il non nuocere (ahiṃsā), la castità (brahmacarya) ecc. possono essere di un qualche aiuto [all’inizo del procedere] all’illuminazione; ma śrāvaṇa, manana e nididhyāsana sono i mezzi indispensabili per raggiungerla.[5]
In questi passaggi particolari, il senso di dhyāna e di dhāraṇā corrisponde a quello che dà Patañjali, poiché Śaṃkara sta descrivendone l’uso in senso meditativo che è proprio dello Yoga darśana. Egli dunque, in questo caso, si riferisce alla ripetizione del monosillabo Oṃ come mantra e alla meditazione su di esso quale simbolo di Īśvara, com’è ingiunto dal Veda. Sulla base di tali caratteristiche, Śaṃkara afferma senza mezzi termini che il Pātañjala yoga è una dottrina dualistica, dacché Patañjali considera che i Sé sono molteplici ed eterni, accetta l’esistenza ab æterno della sostanza universale (prakṛti) che è caos primordiale (nirṛti), principio non cosciente (acetana) e ignoranza (avidyā), sostenendo, inoltre, l’eternità di Īśvara come loro Signore. Invece il Vedānta insegna che c’è solo il Brahman non duale che può apparire sotto quelle forme a causa dell’ignoranza. Ciò è quanto brevemente, ma inesorabilmente, afferma Śaṃkara:
I seguaci del Sāṃkhya e dello Yoga sono dei dualisti perché non comprendono che il Sé è unico.[6]
Perciò quando il Vedānta usa termini come Yoga e Sāṃkhya, non lo fa allo stesso modo del Pātañjala yoga o del Kāpila sāṃkhya; ma, in accordo con i suoi stessi principi, se ne serve per indicare i processi di discriminazione (viveka), e d’attenzione (nididhyāsana), basati sull’esperienza dell’Intuizione universale (sarvānubhāva) e sulla chiara comprensione dell’illusorietà del mondo.
L’ādhyātmika yoga è descritto nella Kaṭha Upaniṣad come l’attenzione nei confronti del Sé:
Il saggio rinuncia a piacere e dolore ponendosi in uno stato di attenzione sull’adhyātman, meditando sulla divinità principiale imperscrutabile...[7]
Poiché l’attenzione è comunque una funzione della mente, essa può essere anche definita meditazione, upāsanā, o contemplazione, dhyāna, tenendo sempre presente il significato upaniṣadico[8] di questi termini, ben distinto da quello in uso nei sūtra[9], com’è appena stato spiegato. In questa prospettiva Śaṃkara aggiunge:
L’attenzione della mente sul Sé, dopo averla distolta dagli oggetti esterni, è l’ādhyātmika yoga.[10]
Sempre nella medesima Upaniṣad il fine dello Yoga vedāntico è sintetizzato in modo chiarissimo:
Si deve conoscerLo per mezzo dell’identità dei due [Ātman-Brahman], affermando che Esso esiste. Chi Lo conosce affermando che Esso esiste avvera l’Identità.[11]
Queste ultime affermazioni della śruti devono essere interpretate come segue: chi desidera ardentemente la Liberazione (mumukṣu) deve partire dalla ferma consapevolezza dell’identità tra Ātman e Brahman[12]. Userà, quindi, la discriminazione (viveka), ossia l’uso metodico del “neti neti”, rinunciando a farsi coinvolgere dal mondo esterno, distaccandosi dagli stimoli provenienti dagli oggetti visibili, udibili, tangibili ecc., che gli si presentano per mezzo delle percezioni dei sensi (jñānendriya)[13]. Per fare un esempio, la vista percepisce un oggetto che appare “bello”: nell’uomo ordinario questa percezione stimola la mente a godere del piacere di quella visione. La mente, quindi, lo spingerà ad avvicinarsi a quell’oggetto (condizionamento spaziale), e, per goderne più a lungo (condizionamento temporale), desidererà impadronirsi di quell’oggetto (il “mio” usato per il piacere dell’“io”). Al contrario, la percezione di un oggetto sgradevole farà sì che la mente reagisca respingendo lontano quell’oggetto (condizionamento spaziale), cercando di dimenticarlo relegandone la memoria in un passato lontano (condizionamento temporale), rifiutandone così il possesso. Il “mio” (mama), dunque, è difeso dall’intrusione dell’oggetto sgradevole, al fine di preservare il piacere dell’“io” (aham). Il vedāntin, invece, rinuncia agli stimoli piacevoli e spiacevoli provenienti dal mondo esterno per mezzo del distacco discriminativo, che è il vero saṃnyāsa.
C’è ancora da precisare che le vie iniziatiche a tappe facenti parte della conoscenza del non-Supremo, ingiungono un metodo di meditazione che conduce al riassorbimento in successione delle facoltà individuali, quali sono i sensi, le facoltà d’azione, i prāṇa (che mettono in opera i karmendriya) e la mente che tutto coordina. In questo modo, la vista e gli altri sensi sono riportati ai prāṇa, i prāṇa al manas, il manas all’ahaṃkāra, l’ahaṃkāra alla buddhi, come effetti che rientrano nelle loro cause[14]. Operando così s’ottiene un isolamento progressivo dell’aham dal mondo esterno (dal “mio”) e dagli stimoli mentali che ne derivano (i “desideri”), per giungere a uno stato di concentrazione unificata dell’individualità integrale. Questa situazione dell’aham, isolato dai suoi naturali oggetti, è ciò che il Pātañjala yoga definisce samādhi[15].
Al contrario il metodo vedāntico consiste in una discriminazione di quelle medesime componenti dell’individualità dal vero Sé tramite il “neti neti”.
Io non sono il corpo, non sono i sensi, non sono la mente, non sono l’ego, non sono i prāṇa, non sono l’intelletto. Io sono quello che è lontano dalla moglie, dai figli, dal podere, dalla casa ecc. In verità io sono quello Śiva che è Testimone diretto, che è l’eterno e intimo Sé.[16]
Naturalmente la presa di coscienza d’essere eternamente il Brahmātman comporta a fortiori anche il riconoscimento che tutto quanto è stato discriminato altro non è che il medesimo Principio supremo, poiché nulla esiste al di fuori di Lui. Infatti:
Chi usa la discriminazione (viveka), riconduce la facoltà della parola (vac) alla mente (manas), il manas all’intelletto (buddhi), la buddhi al mahān Ātman [il jīvātman], e quest’ultimo all’immutabile Ātman [Śāntātman].[17]
Ciò differenzia definitivamente il samādhi ossia l’unione yogica com'è concepito da Patañjali, dalla Liberazione (mukti o mokṣa).



Per gentile concessione del 
Comitato Redazionale Tridaṇḍa del sito Veda Vyāsa Maṇḍala e dell'Autore
Il testo si trova al link:


[1] Nel Vedānta, yama, niyama e pratyāhāra sono attuati per mezzo della discriminazione intellettuale e non tramite uno sforzo di controllo psicologico.

[2] Gli aṅga che sono considerati più elevati negli Yoga Sūtra, vale a dire dhāraṇā, la concentrazione della mente, dhyāna, la meditazione e samādhi, la “congiunzione” (che, per Patañjali è sinonimo di yoga, unione), sono invece considerati ingannevoli. In particolare il concetto di samādhi che, per Patañjali, rappresenta la fusione dell’anima individuale con il Signore, è considerato un errore grave, poiché per il Vedānta ciò che è relativo non può unirsi, fondersi o identificarsi all’Assoluto. Per questa ragione, al giorno d’oggi, i maestri vedāntin, al fine di ridimensionarne la portata, definiscono il samādhi dello Yoga darśana con la parola trance (dal fr. transe), assunta dall’inglese, a causa dell’annullamento della coscienza durante questa esperienza del tutto paragonabile allo stato di sonno profondo. Infatti l’esperienza del samādhi è così descritta da Prakāśātman: “... durante il samādhi, nello stato privo di coscienza, in quel momento è ottenuta la visione dell’Ātman, ma in un altro momento [negli stati di veglia e di sogno] è percepita la dualità, a causa della coscienza empirica proiettata dal karma che continua a produrre effetti.” Pañcapādikā Vivaraṇa, Madras, T. R. Chintamani, 1935-1939, II vol., p. 1240. A dimostrazione che il samādhi è solo uno stato transitorio da cui si ritorna dietro impulso del karma, sta il fatto che tale esperienza accade in forma naturale anche all’uomo ordinario quando ogni mattina si sveglia dal sonno profondo; o come accade ad ogni jīva in trasmigrazione che, dopo il pralaya, si rimanifesta in un altro corpo. Confondere il samādhi con il mokṣa è dovuto alla limitazione, all’ignoranza e all’illusorietà da cui le vie della conoscenza del non-Supremo non sono esenti.

[3] Svāmī Satcidānandendra, Dottrina e Metodo dell’Advaita Vedānta, cit., p. 170.
[4] BGŚB IX. 1.
[5] Taittirīya Upaniṣad Śaṃkara Bhāṣya (TUŚBh) I. 11. 4.
[6] BSŚBh II. 1. 4.
[7] KU I. 2. 12.
[8] Vale a dire śrauta, in quanto appartenente alla śruti.
[9] Vale a dire smarta, in quanto appartenente alla smṛti, come sono effettivamente i sūtra dello Yoga e del Sāṃkhya.
[10] Kaṭha Upaniṣad Śaṃkara Bhāṣya (KUŚBh) I. 2. 12. Effettivamente l’attenzione, pur essendo una funzione intellettuale, è uno stato non agente di adesione alla realtà e non uno sforzo mentale come la concentrazione meditativa. L’attenzione contemplativa può anche essere talora definita comprensione profonda.
[11] KU II. 3. 13.
[12] Come abbiamo fatto notare altrove, Michel Vâlsan arrivò a sostenere che il mahāvākya Ahaṃ Brahmāsmi” (io sono Brahman) è soltanto una formula metodica e che nessun discepolo di Vedānta si considera davvero identico a Brahman. Cfr. Ibn ‘Arabi, Livre de l’Extinction dans la Contemplation, a cura di M. Vâlsan, Paris, Éd. de l’Oeuvre, 1984, p. 14, n.1. Oltre al fatto che i mahāvākya non sono affatto delle formule mantriche, la verità è esattamente il contrario di quanto afferma Vâlsan: infatti la Liberazione è possibile soltanto se c’è la preliminare intuizione intellettuale della propria eterna identità con Brahman. Ma per comprendere questo è necessario un minimo di qualifiche e di conoscenza metafisica.
[13] I jñānendriya sono i recettori delle percezioni che provengono dagli oggetti; proprio perché non agiscono nel mondo esterno, ma svolgono in qualche modo una funzione “contemplativa”, che giustifica il loro nome di facoltà di conoscenza, jñāna indriya. Chi invece interviene attivamente sugli oggetti esterni, sono i karmendriya, attività (karma) da cui deriva la loro denominazione.
[14] In realtà questo punto di vista della conoscenza non-suprema non è del tutto esatto, poiché i prāṇa non sono affatto causa degli indriya.
[15] Vale a dire lo stato di sonno profondo (suṣupti avasthā) in cui l’individuo s’immerge come effetto nella sua causa. D’altronde questo stato di “transe” è reversibile con il ritorno naturale allo stato di veglia (jagrat avasthā). In termini sufici, le varie tappe sopra descritte rappresentano una serie di “estinzioni” (fanā) delle componenti individuali.
[16] Śaṃkara, Advaita Pañcaratnam, 1, in Svāmī Satcidānandendra Sarasvatī Mahārāja, Commento a “Le cinque Gemme dell’Advaita”, 0, introduzione, Maitreyī (tr.), www.vedavyasamandala.com.
[17] KU I. 3. 13.

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