Il Serpente e la Corda
Indice I Parte
Introduzione
1. Attuale situazione delle forme tradizionali e delle organizzazioni iniziatiche
2. L’induismo contemporaneo e le sue organizzazioni iniziatiche
3. La Conoscenza o esperienza intuitiva del Brahman
4. L’Intuizione che sorge dall’osservazione dei tre stati
5. Gli strumenti di conoscenza che rimuovono l’ignoranza
6. Alcune considerazioni sul metodo vedāntico: śrāvaṆa
7. Alcune considerazioni sul metodo vedāntico: manana
8. Alcune considerazioni sul metodo vedāntico: nididhyāsana
9. Significato vedāntico di Yoga
10. Gradi di discriminazione tra Sé e non-Sé
11. Da manana a nididhyāsana
12. Superamento delle opinioni erronee e delle difficoltà
13. Significato vedāntico di alcuni termini ricorrenti nei testi
12. Superamento delle opinioni erronee e delle difficoltà
Questo capitolo è espressamente dedicato a coloro che sono
già discepoli di Advaita Vedānta o
che, perlomeno, siano dei mumukṣu[1] già iniziati che si trovino in una situazione spirituale di ricerca di un
maestro qualificato e realizzato. Queste note, tuttavia, possono anche essere
di un certo interesse per coloro che desiderino avere una informazione più
completa sulla via della conoscenza.
Colui che intraprende il jñāna mārga non deve coltivare opinioni erronee a proposito del fine di questo metodo diretto (sākṣāt sādhanā) poiché gli sarebbero di totale impedimento per la realizzazione finale. Tra queste le più frequenti sono:
Colui che intraprende il jñāna mārga non deve coltivare opinioni erronee a proposito del fine di questo metodo diretto (sākṣāt sādhanā) poiché gli sarebbero di totale impedimento per la realizzazione finale. Tra queste le più frequenti sono:
1. Credere che alla fine della cerca operata tramite Ādhyātmika yoga si entri nel nirvikalpa samādhi, vale a dire in
quello che lo Yoga darśana considera
come uno stato d’unione intima tra l’ego
e il Sé. In questo stato transitorio (anitya sthāna) o di transe, non
c’è alcuna esperienza immaginativa né alcun grado di coscienza, corrispondendo,
come s’è già detto, a una immersione temporanea in suṣupti.
2. Aspettarsi che, come risultato dell’Adhyātma, si fruirà di esperienze inusuali e straordinarie, come
udire musiche celestiali o godere di visioni divine.
3. Sperare che, alla fine della pratica dell’Ādhyātmika yoga, si possano acquisire
permanentemente le siddhi o, in altre parole, i poteri
miracolosi.
Queste siddhi sono
poteri che esercitano un’attrazione per taluni insuperabile e le loro
esperienze appaiono seducenti e gravide di potenza e affermazione nel mondo;
perciò molti vanno alla ricerca di queste siddhi
aspettandosi risultati che rafforzino il proprio aham ed estendano il proprio mama.
Ma deve essere chiaro che tutto ciò non ha nulla a che fare con nididhyāsana, perché tutto ciò che
s’inizia a intraprendere e che in seguito si porta a compimento non è eterno,
ma è cosa transitoria, limitata nel tempo. Ciò che si deve conoscere con la
contemplazione vedāntica è la propria eterna natura in quanto Brahman, che è al
di là dei concetti mentali di spazio e tempo. L’unico scopo è rimuovere la
dualità nella sua integralità per mezzo della conoscenza e perciò si deve arrivare
a capire che questo comporta, alla fine, anche la rimozione del proprio senso
dell’“io” e del “mio”, e non il loro
illusorio potenziamento.
Il sādhaka deve,
quindi, indagare con l’Ādhyātmika yoga
fin quando, senza alcuno sforzo di facoltà individuali, non si stabilirà nella
pura Coscienza (śuddha caitanya)
dell’Ātman. Ciò è chiamato jñāna niṣṭhā, conclusione del desiderio
di conoscere (jijñāsā), e il mezzo
più diretto per raggiungerla è proprio l’attenzione contemplativa. Quando si
parla di questa conclusione del desiderio di conoscere si deve stare ben
attenti a distinguerlo dalla meditazione continuata e dallo sforzo per avere
“l’impressione di essere il Sé”. Infatti, jñāna niṣṭhā consiste nell’attenta
contemplazione della propria esistenza come un tutt'uno. Ciò vale a dire che le
singole esperienze della propria vita e di quelle dell’intera manifestazione non hanno più senso se non
vengono inglobate in una visione totalizzante sintetica (aiśvarya). A questo si giunge esercitandosi a essere cosciente del
Tutto, non come composto d’innumerevoli particolari, ma come un’unica esistenza
cosciente. Così, con la consapevolezza non duale di “essere” esattamente come
anche l'intera esistenza “è”, dopo aver portato a conclusione il processo di
discriminazione, bisogna arrivare a riconoscersi come il Testimone cosciente di
Tutto.
Oggi, a causa della decadenza generale, ci sono molti guru, anche di Vedānta, che raccomandano la meditazione, upāsanā, e le tecniche per indurre la meditazione, che sono in una
certa misura utilizzabili nella vita profana. Con upāsanā s’intende uno sforzo di concentrazione mentale su un unico
oggetto, sia esso un pensiero, una parola pronunciata o un’attività rituale.
Vale a dire che, in questo caso, si medita compiendo un’azione mentale (mānasa kriyā), verbale (śābdika kriyā) o corporea (daihika kriyā), impegnandosi per un
lasso di tempo più o meno lungo, azione che si deve ripetere regolarmente ogni
giorno a un orario stabilito. Per mantenere questa concentrazione sono anche
impartite da quei maestri alcune tecniche sussidiarie, al fine di non
permettere ai pensieri di andare e venire incontrollati, o di passare
inconsapevolmente dalla meditazione al torpore della sonno, nidrā. Queste istruzioni sono illustrate
dai guru dettagliatamente nel loro
funzionamento e nel modo corretto con cui si deve metterle in pratica. Ma non è
mai data una precisa spiegazione sul loro significato dottrinale, rimanendo un
tale insegnamento, tutt’al più, nell’ambito del simbolismo e del mito. Esse perciò
sono della natura delle ingiunzioni e non di quella dell’insegnamento della
conoscenza.
Nididhyāsana è del
tutto distinto da questi metodi. Infatti, l’insegnamento dell’Advaita Vedānta da parte del guru consiste nella dottrina metafisica
stessa basata sulle Upaniṣad. La
dottrina, attivata dalle parole del maestro[2],
risveglia l’attenzione del discepolo non su un singolo oggetto, ma
sull’esistenza universale presa nella sua totalità. In questo modo si giungerà
a non considerare più se stesso come una particella minuscola e transitoria di
questo immenso e perpetuo mondo in divenire. Si maturerà, invece, la coscienza
che è il mondo a esistere all’interno del proprio Sé. E una volta inghiottito[3] l’universo nel proprio Sé, la dualità scompare, come anche scompare la triade
composta da conoscitore, conoscenza e oggetto conosciuto. Infatti, una volta
raggiunta quella realtà, “Chi si potrebbe conoscere e con che cosa?”
In questa prospettiva, ogni azione mossa da desiderio deve
essere abbandonata. Ciò significa che persino le azioni operate con il
desiderio di raggiungere il più elevato dei cieli, il Brahma loka, devono essere evitate in quanto, seppure al sommo
livello, anche il Brahma loka è uno
stato saṃsārico, frutto del karma. Le
sole azioni che permangono sono quelle che si svolgono naturalmente senza
l’impulso del desiderio: respirare, nutrirsi, riposare, rispondere a domande[4], ecc. Tali azioni non costituiscono né producono karma.
Dopo aver sentito di questo Adhyātma, alcuni possono pensare di averlo capito come se si
trattasse di una materia di studio che può essere compresa intellettualmente,
come se fosse qualcosa di filosofico e di libresco. Avendo verificato che, dopo
averlo capito, essi rimangono esattamente nella medesima condizione di prima,
allora si chiedono che cos’altro c’è da fare per realizzare, oltre a capire.
Questo dubbio indica che essi non hanno ancora acquisito le qualifiche
necessarie per avere l’intuizione che la loro propria natura è l’Ātman. Per loro il Vedānta si limita soltanto a essere argomento per esercizi di
noetica teorica. Alcuni di questi, desiderosi di passare dalla teoria
all’operatività, pensano che dopo essersi impadroniti della dottrina
speculativa si debbano praticare certi esercizi e discipline al fine di
raggiungere, nel corso di un certo periodo di tempo, certi risultati concreti e
persino tangibili. Essi distinguono la teoria dalla pratica per abitudine
mentale derivata dall’evidenza della vita ordinaria sotto la spinta di una
certa inerzia prodotta dagli studi scolastici. Tuttavia, qui abbiamo già
dichiarato che ciò che ha inizio, si sviluppa e si conclude, è necessariamente
qualcosa di non eterno e limitato nel tempo[5]. Questa loro dimenticanza rappresenta una vera e propria squalifica per la
conoscenza pura, poiché non arrivano a comprendere che tutto quello ch’è
sottoposto a limitazioni temporali è non-Sé. Soltanto ciò che è della natura
impermanente (anityā) dell'anātman può essere prima conosciuto
teoricamente o virtualmente, e successivamente effettuato o realizzato con una
pratica. Nel caso dell’Ātman, che è
il centro del proprio essere e la cui conoscenza è di natura immediata e
diretta, non può esistere alcuna distinzione tra teoria, virtualità ed
effettività, poiché il proprio Sé è la Realtà (Satya) delle realtà. In questo caso l’unico sforzo, se tale lo si
vuole considerare, che si deve affrontare è quello di cancellare con il “neti
neti” l’impulso naturale di
identificare se stessi con i non-Sé, a partire dal senso dell’“io”
fino ad arrivare al corpo grossolano. Su ciò Śaṃkara dichiara:
Pertanto, noi dobbiamo soltanto eliminare quello che l’ignoranza attribuisce al Brahman: non c’è alcun ulteriore sforzo da compiere per acquisire la conoscenza di Brahman che è per sua natura evidente.[6]
A conclusione di questa esposizione sulle opinioni erronee è
necessario prendere in esame per sommi capi quali possano essere le difficoltà
e gli ostacoli che talvolta si presentano al jijñāsu e quali siano gli accorgimenti per superarli, appoggiandoci
principalmente alle Kārikā che Gauḍapādācārya
aggiunse a commento della Māṇḍūkya Upaniṣad
e alla Bhagavad Gītā. Ovviamente
questa parte sarà trattata in poche righe al solo scopo illustrativo, visto che
l’affioramento d’un ostacolo appartiene all’esperienza iniziatica di ciascun sādhaka, e che perciò dovrà essere
sottoposto solo all’esame del guru al
fine di trovarne la soluzione caso per caso.
Gauḍapāda menziona i seguenti ostacoli: la distrazione (vikṣepa), l’assopimento (laya), l’ottundimento (sakaṣāya o kaṣāya) e, infine,
il compiacimento (rasāsvāda).
1. Vikṣepa,
la distrazione. Quando un sādhaka
inizia ad applicarsi all’Ādhyātmika yoga,
talvolta la sua mente divaga pensando a oggetti o situazioni mondane che lo
distraggono, spinto dal desiderio inconsapevole di godere dei piaceri prodotti
dagli oggetti esterni. Questo lo conduce ad aver una mente agitata e poco
controllata. Per vincere questo ostacolo, l’iniziato dovrà dedicarsi al vairāgya, ossia al distacco e alla
rinuncia. Il vairāgya è di due tipi.
Il primo consiste nell'osservare incessantemente che gli oggetti sono limitati
e che quindi i piaceri da loro provenienti sono scarsi e transeunti[7]. Allorché si osservano gli aspetti di scarsezza e transitorietà nella fruizione
delle cose mondane, l’attrattiva diminuisce e il desiderio viene a cadere. I
buddhisti e gli iniziati ad altri sampradāya
mettono in pratica soltanto questa tecnica di rinuncia. Ma questa è solo metà
della rinuncia. Invece, nel Vedānta
si prescrive ai discepoli la rinuncia completa. Questa rinuncia suprema può
essere descritta semplicemente nel modo seguente: il sādhaka deve ricordare che tutta l’apparenza di dualità è falsa.
Pur essendo il Sé la realtà dell’intero universo, si è portati dall'ignoranza a
confondere il Sé con il mondo. Il Sé è non duale, senza origine e assoluto
anche quando appare come questo mondo. Perciò la Realtà è sempre senza inizio (anādi).
Nella prospettiva della Realtà, anche adesso il mondo come appare non esiste.
Questo secondo tipo di vairāgya è
chiamato “ricordo della Verità senza inizio”. Quando il sādhaka contempla questa verità sulla stabile base di una visione
sintetica dell’esistenza, allora può raggiungere la completa rinuncia, il vero vairāgya [8].
2. Laya,
l’assopimento. Durante la cerca conoscitiva com’è indicata dall’Ādhyātmika yoga, alcune menti sono prese dalla noia e cadono in sonno
profondo. L’ostacolo è causato dall’inerzia, tamas. Per superarlo si deve allertare la mente impegnandola a
fondo nella discriminazione sia nei confronti del mondo esterno sia al proprio
interno. Si dovrà regolare la vita con una dieta appropriata, e disciplinare il
ritmo delle proprie attività naturali di veglia, di sogno e di sonno profondo.
In questo modo si potrà equilibrare tamas
con la corretta compresenza di sattva
e rajas.
3. Sakaṣāya o
kaṣāya, l’ottundimento.
Alcune volte capita che la riflessione della mente arrivi a un punto morto o
s’imbatta in qualche intoppo durante la discriminazione. Questa è la condizione
mentale in cui si è trovata Maitreyī[9], quando non riuscì a seguire il senso profondo dell’insegnamento trasmessole
oralmente da Yājñavalkya. Anche se in questa condizione d’ottusità della mente
non si cede al sonno, qualora non si trovi una pronta soluzione, si può essere
indotti al vikṣepa. Vale a dire che,
in tale situazione, la mente è pronta a rivolgersi verso l’esterno non appena
l’attenzione viene a cadere o s’allenta. Per vincere questo ostacolo si deve
ripetere manana sullo stesso punto da
cui è sorta la difficoltà, fino a riuscire a risolverla e a riprendere la
discriminazione interrotta.
4. Rasāsvāda,
il compiacimento. Quando la mente (antaḥkāraṇ)
s’è riavvolta durante il processo di discriminazione, si può provare un senso
di benessere e di godimento derivato dalla comprensione folgorante d’un singolo
passaggio di viveka, a seguito
dell’attenzione contemplativa. Benessere e godimento sono un impedimento allo
stabilirsi nella reale natura del Sé. La parola rasāsvāda è composta da rasa
che significa gusto, piacere e da āsvāda,
assaporare. Per superare questo ostacolo ci si deve dedicare a un attento
processo di discriminazione nel modo seguente:
Questo compiacimento è un riflesso del Sé nella mente, prodotto dalla contemplazione. Poiché io sono il Sé, io sono il Testimone di questa sensazione di compiacimento. Ma, poiché io sono il Sé non duale, non può esistere la triplice idea di godimento, gaudente e goduto. Io sono della natura della beatitudine (ānanda), che è permanente nello stato di sonno profondo. Invece, questo godimento è un concetto che appare e che scompare, quindi nella sua vera essenza è soltanto una falsa apparenza.[10]
Solamente riflettendo in questo modo si può superare
l’ostacolo. Tutta l’argomentazione che riguarda il superamento degli ostacoli è
riscontrabile nella Bhagavad Gītā[11], che suddivide i rimedi in due gruppi. Il primo gruppo corrisponde ad abhyāsa, l’intensificazione del metodo
atto a purificare la mente. Esso consiste nella pratica dell’umiltà,
considerando che la mente, pur essendo lo strumento della discriminazione, è
una falsa apparenza sovrapposta al Testimone come l’immagine del serpente sulla
corda; in questo modo la mente purificata ritorna a essere un prezioso mezzo di
discriminazione interiore tra Ātman e
anātman. Il secondo gruppo di rimedi
è rappresentato dalla rinuncia (vairāgya), che, oltre a essere trattata nei
medesimi passaggi della Gītā testé
menzionati, è anche un argomento importante delle Kārikā di Gauḍapāda[12]. Seguendo i consigli di questi due testi si può vincere qualsiasi ostacolo
s’opponga all’Adhyātma yoga.
Inoltre, per penetrare i misteri degli insegnamenti
vedāntici si deve forzatamente realizzare questi quattro punti fondamentali:
- Si deve
avere l’intuizione del Sé come Testimone eterno dell’“io”;
- Si deve
mettere in pratica il metodo adhyāropāpavāda:
in altre parole accettare intenzionalmente la sovrapposizione di false
apparenze su ciò che è reale, per poi in seguito confutarne la veridicità
tramite discriminazione;
- Si deve
distinguere con certezza tra questo metodo dell’attenzione od osservazione
della realtà (vastutantra)
e i metodi che si basano sullo sforzo per raggiungere una meta (kratutantra), utilizzati dalle
vie iniziatiche che fanno parte del dominio della conoscenza non suprema, e
capire la differenza tra i loro risultati;
- Infine si
deve comprendere con chiarezza la differenza tra la vera visione metafisica (paramārta dṛṣṭi) e il punto di vista diveniristico dell’esperienza empirica (vyavahāra dṛṣṭi).
La tecnica adhyāropāpavāda
dovrà essere impiegata su qualsiasi argomento metafisico presente nelle Upaniṣad. La discriminazione che
riguarda gli stati di veglia, sogno e sonno profondo e l’accertamento di quale
sia la causa dell’universo, si basano prevalentemente su questa tecnica. Per
esempio, gli stati della manifestazione sono cose apparenti sovrapposte alla
reale natura del Sé come il serpente alla corda; questa sovrapposizione (adhyāsa) è imputabile all’ignoranza di
chi immagina che sia così. Questa fase iniziale d’ignoranza (avidyā), che è naturale nell’uomo ordinario,
per l’iniziato vedāntin è il punto di partenza per la cerca conoscitiva:
cio è quanto costituisce l’adhyāropa.
A conclusione dell’indagine spirituale, il sādhaka
conosce che tutto nella sua essenza è il Brahman. In virtù di questo
accertamento, allorché alla fine, l’insieme delle false nozioni è stato
rimosso, questa distruzione delle false cognizioni è chiamata apavāda. All’inizio dell’insegnamento,
tutte le cose sono accettate come reali, perché la via della conoscenza
comincia da quello stato nel quale si è nati come esseri umani, in cui la
sovrapposizione dovuta all'ignoranza (avidyā)
nasconde la verità. Questo stato, che è sempre quello di veglia, è definito
visione empirica (vyāvahārika dṛṣṭi) del mondo in quanto sottoposto
all’azione e ad altri condizionamenti, quali il tempo, lo spazio, la causalità,
il numero ecc. Invece, a conclusione dell’insegnamento del guru ed, eventualmente, anche a seguito di manana e nididhyāsana,
tutte le convinzioni erronee precedenti sono eliminate dal raggiungimento della
visione dell’Assoluto. Questa negazione di tutte le sovrapposizioni (adhyāsa), raggiunta per mezzo del “neti
neti”, è chiamata visione assoluta, metafisica (paramārta dṛṣṭi). Aggiungeremo, infine, che quest’ultima non è affatto un
semplice “punto di vista” (dṛṣṭi),
come lo è la vyāvahārika dṛṣṭi, ma è l’unica e incomparabile
visione dell’Assoluto.
Per gentile concessione del Comitato Redazionale Tridaṇḍa del sito Veda Vyāsa Maṇḍala e dell'Autore
Il testo si trova al link:
https://www.vedavyasamandala.com/il-serpente-e-la-corda
Per gentile concessione del Comitato Redazionale Tridaṇḍa del sito Veda Vyāsa Maṇḍala e dell'Autore
Il testo si trova al link:
https://www.vedavyasamandala.com/il-serpente-e-la-corda
[1] A proposito di superamento di opinioni erronee, cogliamo l’occasione
per specificare che mumukṣā, il
desiderio ardente del mokṣa, non è
affatto un desiderio (kāma) che
spinge a una azione (karma) volta a
ottenere un risultato (phala). Si
tratta, al contrario, dell’intuizione intellettuale che il “proprio” Sé è
eternamente il Brahman, pura Coscienza, unica Esistenza. Ciò induce il mumukṣu a rimuovere qualsiasi altro
desiderio che coinvolge fatalmente gli individui nella ricerca di risultati
contingenti.
[2] Ciò implica, ovviamente, che la
sola lettura testuale della dottrina metafisica upaniṣadica è insufficiente per
far superare il livello dell’apprendimento teorico. L’ascolto dell’insegnamento
orale da parte del guru, come si è
ripetuto varie volte, è già contemplazione e ha il potere di mettere in diretto
contatto con Īśvara, il maestro interiore.
[3] Abbiamo volutamente impiegato
questo termine in luogo di quello più in uso di ‘riassorbito’, alludendo
all’episodio mitico in cui Yaśodā, guardando nella bocca di Kṛṣṇa bambino, vi
scorge l’intera esistenza universale.
[4] Ciò comporta una notevole
differenza tra la funzione di un maestro di Vedānta
e quella di qualsiasi altro guru.
[5] Quante volte ci si è imbattuti
in persone, anche iniziate, che apparivano come se dominassero le dottrine
tradizionali e che, alla fine, hanno imboccato una strada diversa, se non
opposta? Tale conoscenza non era altro che il risultato di una azione
conoscitiva paragonabile a qualsiasi altra investigazione profana, filosofica,
teologica o scientifica: l’azione che ha inizio fatalmente finisce.
[6] BhGŚBh XVIII. 50. Ricordiamo, a questo proposito, quanto abbiamo
scritto sopra sull’Ātmā pratyaya.
[7] Per esempio, per ridurre
l’attrazione della gola, basta considerare che il piacere derivante
dall’ingestione del cibo si limita, in spazio e tempo, soltanto al suo
passaggio sulla superfice della lingua. Il risultato sarà un distacco dal
piacere e, perciò, da allora si mangerà soltanto per nutrirsi.
[8] Il vero vairāgya è la povertà interiore, che può portare anche
spontaneamente all’assunzione del saṃnyāsa.
Tuttavia diventare saṃnyāsin non sarà
altro che il segno esteriore di aver già raggiunto il vairāgya. E qui con saṃnyāsin
intendiamo il vero rinunciante, che non deve essere confuso con colui che entra
nel quarto stadio della vita (āśrama). Per la medesima ragione,
quest’ultimo tipo di saṃnyāsin non
può essere considerato del tutto al di là delle caste e degli stadi della vita,
(ativarṇāśrami).
[9] BU II.4.13.
[10] MUGK III.
44-47.
[11] BhG
XIII. 7-11; XVIII. 51.
[12] MUGK III.
38-43.
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