"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

martedì 30 gennaio 2018

René Guénon, Considerazioni sull'Iniziazione - XVII - Miti, misteri e simboli

René Guénon
Considerazioni sull'Iniziazione

XVII - Miti, misteri e simboli

Le considerazioni finora esposte ci portano abbastanza naturalmente a esaminare un’altra questione a esse collegata, quella dei rapporti del simbolo con ciò che è chiamato «mito»; a tal proposito dobbiamo far subito osservare che ci è talvolta occorso di parlare di una certa degenerazione del simbolismo come causa dell’originarsi della «mitologia», prendendo questa parola nel senso che le viene abitualmente attribuito; ciò è di fatto esatto quando si tratti dell’antichità detta «classica», ma forse non troverebbe valida applicazione al di fuori di questo periodo delle civiltà greca e latina. 

Pensiamo quindi che negli altri casi convenga evitare l’impiego di tale termine, il quale può soltanto far sorgere equivoci inopportuni e dar luogo ad accostamenti ingiustificati; ma se l’uso impone una restrizione di questo genere, occorre dire tuttavia che la parola «mito», in se stessa e nel suo significato originario, non ha nulla che indichi una simile degenerazione, del resto abbastanza tarda e unicamente dovuta a una incomprensione più o meno completa di quanto sopravviveva di una tradizione molto antecedente. È opportuno aggiungere che, se si può parlare di «miti» con riferimento a tale tradizione, a condizione di ripristinare il significato vero della parola e di eliminare tutto quel che di «peggiorativo» troppo spesso le si attribuisce nel linguaggio corrente, in ogni caso non esisteva allora nulla che si potesse chiamare «mitologia», quest’ultima, così come la intendono i moderni, non essendo niente più di uno studio intrapreso «dall’esterno» e come tale implicante una incomprensione che si potrebbe dire di secondo grado.
La distinzione che si è talvolta voluto fare tra «miti» e «simboli», in realtà non ha fondamento: per certuni, mentre il mito è un racconto che presenta un altro senso rispetto a quello che esprimono direttamente e letteralmente le parole che lo compongono, il simbolo sarebbe essenzialmente una rappresentazione figurativa di determinate idee mediante un tracciato geometrico o un disegno qualsiasi; il simbolo sarebbe perciò propriamente un modo grafico di espressione, e il mito un modo verbale. Secondo quanto abbiamo spiegato prima, questa interpretazione contiene, per ciò che riguarda il significato attribuito al simbolo, una restrizione totalmente inaccettabile, giacché qualsiasi immagine che sia presa per rappresentare un’idea, per esprimerla o per suggerirla in un modo qualsiasi e a qualunque grado è per ciò stesso un segno o, che è la stessa cosa, un simbolo di tale idea; che si tratti di un’immagine visiva o di qualsiasi altro tipo di immagine non ha qui grande importanza, poiché non introduce nessuna differenza essenziale e non cambia assolutamente nulla al principio vero e proprio del simbolismo. Quest’ultimo, in ogni caso, si basa sempre su un rapporto di analogia o di corrispondenza tra l’idea che si tratta di esprimere e l’immagine, grafica, verbale o d’altro genere, con la quale la si esprime; da questo punto di vista del tutto generale, le parole stesse, come già abbiamo detto, non sono e non possono essere altro che simboli. Si potrebbe persino, invece di parlare, come abbiamo fatto, di un’idea e di un’immagine, parlare ancor più generalmente di due realtà qualsivogliano, di differente ordine, tra le quali esista una corrispondenza che ha il suo fondamento sia nella natura dell’una che dell’altra: in tali condizioni, una realtà di un certo ordine può essere rappresentata da una realtà di un altro ordine, e la seconda è allora un simbolo della prima.
Ricordato in tal modo il principio del simbolismo, vediamo che quest’ultimo è evidentemente capace di una molteplicità di modalità diverse; il mito ne è soltanto un semplice caso particolare, e costituisce una di queste modalità; si potrebbe dire che il simbolo è il genere e che il mito è una delle sue specie. In altri termini, si può prendere in considerazione come simbolico un racconto, così come si può considerare simbolico, alla stessa stregua, un disegno, o molte altre cose ancora che abbiano lo stesso carattere e adempiano alla stessa funzione; i miti sono dei racconti simbolici, così come racconti simbolici sono le «parabole», le quali in fondo non ne differiscono in modo essenziale[1]; ci sembra che si tratti di qualcosa che non possa dar luogo alla minima difficoltà, quando si sia ben capita la nozione generale e fondamentale del simbolismo.
Ma, ciò detto, è il caso di precisare il significato specifico della parola «mito», la quale ci può portare a certe considerazioni che non sono prive di importanza e si ricollegano al carattere e alla funzione del simbolismo inteso nel senso più determinato in cui esso si distingue dal linguaggio ordinario e, sotto certi riguardi, addirittura gli si oppone. La parola «mito» è comunemente considerata come un sinonimo di «favola», intendendo con ciò, semplicemente, un qualsiasi racconto immaginario, nella maggior parte dei casi rivestito di un carattere più o meno poetico; è questo un effetto della degenerazione di cui dicevamo all’inizio, e i Greci, dalla cui lingua il termine è tratto, hanno certamente la loro parte di responsabilità in questa che, a dire il vero, è una profonda alterazione e una deviazione dal significato primitivo. In effetti, in essi la fantasia individuale incominciò piuttosto presto ad avere il sopravvento in tutte le forme dell’arte, e quest’ultima, invece di mantenersi propriamente ieratica e simbolica com’era presso gli Egizi e i popoli dell’Oriente, prese di buon’ora una direzione tutta differente, mirando a piacere più che a istruire, e portando a produzioni la cui maggior parte sono pressoché prive di ogni significato reale e profondo (a esclusione di ciò che poteva ancora sussistere in esse, magari inconsapevolmente, di elementi che erano appartenuti alla tradizione anteriore), e in cui, in ogni caso, non si trova più alcuna traccia di quella scienza eminentemente «esatta» che è il vero simbolismo; si tratta, in conclusione, dell’inizio di quella che si può chiamare l’arte profana, inizio che coincide con buona approssimazione anche con quello di quel pensiero, parimenti profano, che, imputabile all’esercizio della stessa fantasia individuale in altro ambito, doveva essere conosciuto sotto il nome di «filosofia». La fantasia in questione si esercitò in particolare sui miti preesistenti: i poeti, che, in conseguenza di ciò che abbiamo detto, non erano più scrittori sacri come all’origine e non possedevano più l’ispirazione «sovrumana», sviluppandoli e modificandoli a misura della propria immaginazione, sovrapponendo a essi ornamenti superflui e vani, li oscurarono e li denaturarono, al punto che spesso divenne molto difficile ritrovarne il senso ed estrarne gli elementi essenziali, se non forse per comparazione con i simboli simili che si possono incontrare da altre parti e non hanno subito la stessa deformazione; cosicché si può dire che alla fine il mito non fu più, almeno per la maggioranza, se non un simbolo incompreso, e tale è restato per i moderni, Ma dei miti questo è soltanto l’abuso, e, si potrebbe dire, la «profanazione» nel vero senso della parola; ciò che occorre tenere presente è che il mito, prima di tutte queste deformazioni, era essenzialmente un racconto simbolico, come abbiamo detto prima, ed era questa la sua unica ragion d’essere; e, già secondo tale punto di vista, «mito» non è totalmente sinonimo di «favola», giacché quest’ultima parola (in latino fabula, da fari, parlare) etimologicamente indica unicamente un racconto qualsiasi, senza specificarne assolutamente l’intenzione o il carattere; anche qui, del resto, il senso di «racconto di fantasia» è venuto a sovrapporlesi soltanto più tardi. Ma c’è di più: i due termini «mito» e «favola», che si è finito con l’assumere come equivalenti, sono derivati da radicali che in realtà hanno un significato del tutto opposto, poiché, mentre la radice di «favola» indica la parola, quella di «mito», per quanto strano ciò possa sembrare a prima vista quando si tratta di un racconto, indica al contrario il silenzio.
In effetti, la parola greca muthos[2], «mito», deriva dalla radice mu, e quest’ultima (che si ritrova nel latino mutus, muto) rappresenta la bocca chiusa, e di conseguenza il silenzio[3]; è il senso del verbo muein, chiudere la bocca, tacere (per estensione lo stesso verbo significa addirittura chiudere gli occhi, in modo proprio e figurato); l’esame di alcuni derivati di tale verbo sarà particolarmente istruttivo. È così che da muô (all’infinito muein) derivano immediatamente altri due verbi che da esso differiscono pochissimo nella forma, muaô e mueô; il primo ha le stesse accezioni di muô, e gli si deve aggiungere un altro derivato, mullô, che significa nuovamente chiudere le labbra, e anche mormorare senza aprire la bocca[4]. Quanto a mueô, ed è la cosa più importante, esso significa iniziare (ai «misteri», il cui nome e anch’esso derivato dallo stesso radicale come vedremo fra poco, e precisamente per l’intermediazione di mueô e mustês), e, conseguentemente, tanto istruire (ma prima di tutto istruire senza parole, come di fatto avveniva nei misteri) quanto consacrare; dovremmo anzi dire in primo luogo consacrare, se per «consacrazione», come normalmente si dovrebbe, si intende la trasmissione di un’influenza spirituale, o il rito mediante il quale quest’ultima è regolarmente trasmessa; è da quest’ultima accezione che è venuta più tardi, per la stessa parola, nel linguaggio ecclesiastico cristiano, quella di conferire l’ordinazione, la quale è in effetti anch’essa una «consacrazione» in questo senso, anche se in un ambito diverso da quello iniziatico.
Ma, si dirà, se la parola «mito» ha una simile origine, per quale ragione ha potuto servire a indicare un racconto di un certo genere? Il fatto è che l’idea di «silenzio» deve essere qui riferita a cose che, a causa della loro stessa natura, sono inesprimibili, per lo meno direttamente e attraverso il linguaggio ordinario; una delle funzioni generali del simbolismo è effettivamente quella di suggerire l’inesprimibile, di farlo presentire, o meglio «assentire», in virtù delle trasposizioni che permette di effettuare da un ordine all’altro, dall’inferiore al superiore, da ciò che è più immediatamente afferrabile a ciò che lo è solo molto più difficilmente; e questa è precisamente la destinazione principale dei miti. È del resto per tale ragione che, perfino nell’epoca «classica», Platone fa ancora ricorso all’uso dei miti quando vuole esporre concezioni che vanno al di là della portata dei mezzi dialettici abituali; e questi miti, che egli non ha certo «inventato», ma soltanto «adattato», giacché portano il segno incontestabile di un insegnamento tradizionale (così come lo portano certi procedimenti di cui si serve per l’interpretazione delle parole, e che sono accostabili a quelli del nirukta nella tradizione indù)[5], questi miti, dicevamo, sono ben lontani dall’essere solo gli ornamenti letterari più o meno trascurabili che troppo spesso i commentatori e i «critici» moderni credono che siano, critici e commentatori per i quali è certo più comodo trascurarli in tal modo senza esame ulteriore, che fornirne una spiegazione foss’anche approssimativa; questi miti corrispondono, ben al contrario, a quanto c’è di più profondo nel pensiero di Platone, di più svincolato dalle contingenze individuali, e che egli non può, proprio a causa di tale profondità, esprimere se non simbolicamente; in lui la dialettica contiene spesso una certa parte di «gioco», ciò che è ben conforme alla mentalità greca, ma quando la abbandona per il mito si può esser sicuri che il gioco è cessato e che si tratta di cose che hanno in qualche modo un carattere «sacro».
Nel «mito» quel che è detto è dunque altra cosa da quel che si vuol dire; possiamo osservare di sfuggita che questo è anche il significato etimologico della parola «allegoria» (da allo agoreuein, letteralmente «dire una cosa diversa»), parola che ci fornisce un ulteriore esempio delle deviazioni di senso dovute all’uso corrente, poiché, di fatto, essa non indica più attualmente se non una rappresentazione convenzionale e «letteraria», di intenzione unicamente morale o psicologica, e nella maggior parte dei casi rientra nella categoria di quelle che sono comunemente denominate «astrazioni personificate»; non vale quasi la pena di dire che nulla potrebbe essere più distante dal vero simbolismo. Ma, per tornare al mito, se esso non dice ciò che vuol dire, lo suggerisce attraverso quella corrispondenza analogica che è il fondamento e l’essenza stessa di ogni simbolismo; in questo modo, si potrebbe dire, si conserva il silenzio pur parlando, ed è da ciò che il mito ha ricevuto la sua denominazione[6].
Ci rimane da attirare l’attenzione sulla parentela esistente tra le parole «mito» e «mistero». provenienti entrambe dallo stesso radicale: la parola greca mustêrion, «mistero», si ricollega direttamente anch’essa all’idea di «silenzio»; e questo, del resto. si può interpretare in più sensi diversi, ma legati l’uno all’altro, e dei quali ognuno ha la propria ragion d’essere da un certo punto di vista. Osserviamo prima di tutto che, secondo la derivazione da noi indicata in precedenza (da mueô), il senso principale della parola è quello che si riferisce all’iniziazione, e in effetti è proprio in questo modo che bisogna intendere quelli che erano chiamati i «misteri» nell’antichità greca. D’altra parte, ciò che mostra nuovamente come il destino di certe parole sia veramente strano è che un altro termine che si apparenta strettamente con quelli da noi menzionati poco fa, come d’altronde abbiamo già indicato, è il termine «mistico», il quale si applica etimologicamente a tutto quel che concerne i misteri: mustikos, in effetti, è l’aggettivo che deriva da mustês, iniziato; esso equivale perciò originariamente a «iniziatico» e si applica a tutto ciò che ha rapporto con l’iniziazione, con la sua dottrina e con il suo oggetto stesso (però, in questo suo senso antico, esso non può mai essere applicato a persone); ora, per i moderni, questa stessa parola, «mistico», sola fra tutti questi termini di origine comune, è giunta a denominare esclusivamente qualcosa che, come abbiamo visto, non ha assolutamente niente in comune con l’iniziazione, e che, anzi, ha caratteri opposti a essa sotto certi riguardi. Ritorniamo ora ai differenti significati della parola «mistero»: nel senso più immediato, diremmo volentieri più grossolano, o per lo meno più esteriore, il mistero è ciò di cui non si deve parlare, ciò su cui è opportuno conservare il silenzio, o ciò che è proibito far conoscere all’esterno; è questo che si intende più comunemente, anche quando si tratti dei misteri antichi; e, nell’accezione più abituale che ha in seguito ricevuto, la parola non ha quasi più conservato altro senso. Tuttavia. questa proibizione di rivelare certi riti e certi insegnamenti deve in realtà, pur riservando una parte alle considerazioni di opportunità che hanno potuto sicuramente intervenire, ma hanno sempre avuto un carattere puramente contingente, essere considerata soprattutto in quanto avente, essa pure, un valore di simbolo; ci siamo già spiegati su questo punto quando abbiamo parlato della vera natura del segreto iniziatico. Come abbiamo detto a tal proposito, quella che è stata chiamata la «disciplina del segreto», la quale era di rigore tanto nella Chiesa cristiana primitiva quanto negli antichi misteri (e gli avversari religiosi dell’esoterismo dovrebbero pur ricordarsene), è ben lungi dal sembrarci interpretabile unicamente come una semplice precauzione contro l’ostilità, peraltro ben reale e spesso pericolosa, dovuta all’incomprensione del mondo profano; noi vediamo in essa altre ragioni di un ordine molto più profondo, ragioni che possono essere indicate dagli altri sensi contenuti nella parola «mistero». Possiamo del resto aggiungere che non è per una semplice coincidenza che esiste una stretta somiglianza tra le parole «sacro» (sacratum) e «segreto» (secretum); nell’uno e nell’altro caso si tratta di ciò che è messo a parte (secernere, mettere da parte, da cui il participio secretum), riservato, separato dall’ambito profano; allo stesso modo, il luogo consacrato è chiamato templum, la cui radice tem (che si ritrova nel greco temnô, tagliare, secare, separare, da cui temenos, recinto sacro) esprime anch’essa la medesima idea; e la «contemplazione», il cui nome deriva dalla stessa radice, si ricollega nuovamente a tale idea per il suo carattere prettamente «interiore»[7].
Conformemente al secondo senso della parola «mistero», senso che è già meno esteriore, essa indica ciò che si deve ricevere in silenzio[8], ciò riguardo a cui non è opportuno discutere; da questo punto di vista tutte le dottrine tradizionali, compresi i dogmi religiosi che ne costituiscono un caso particolare, possono essere detti misteri (l’accezione di questa parola si estende in tal caso ad ambiti diversi da quello iniziatico, nei quali si esercita però ugualmente un’influenza «non-umana»), perché sono verità che, in virtù della loro natura essenzialmente sovraindividuale e sovrarazionale, sono al di sopra di ogni discussione[9]. Ora si può dire, per ricollegare questo significato al precedente, che diffondere sconsideratamente fra i profani i misteri così intesi, significa inevitabilmente assoggettarli alla discussione, procedimento profano per eccellenza, con tutti gli inconvenienti che ne possono risultare e che sono riassunti perfettamente in quella parola, «profanazione», che già in precedenza usavamo ad altro proposito, parola che qui deve essere intesa nella sua accezione insieme più letterale e più completa; il lavoro distruttivo della «critica» moderna nei confronti di tutte le tradizioni è un esempio troppo eloquente di ciò che vogliamo dire perché sia necessario insistere ulteriormente sull’argomento[10].
Infine, esiste un terzo senso, il più profondo di tutti, secondo il quale il mistero è propriamente l’inesprimibile, che si può solo contemplare in silenzio (ed è il caso di ricordare qui quanto dicevamo poco fa dell’origine della parola «contemplazione»); e poiché l’inesprimibile è nello stesso tempo e con ciò stesso l’incomunicabile, la proibizione di rivelare l’insegnamento sacro simboleggia, da questo nuovo punto di vista, l’impossibilità di esprimere con parole il vero mistero, del quale tale insegnamento è per così dire soltanto il rivestimento, che lo manifesta e lo vela nello stesso tempo[11]. L’insegnamento che riguarda l’inesprimibile può evidentemente soltanto suggerirlo per mezzo di immagini appropriate, le quali saranno per così dire i supporti della contemplazione; secondo quanto abbiamo spiegato, ciò equivale a dire che un insegnamento simile assume necessariamente la forma simbolica. Questo fu sempre, e presso tutti i popoli, uno dei caratteri essenziali dell’iniziazione ai misteri, qualunque sia la parola con cui quest’ultima sia stata denominata; si può perciò dire che i simboli, e in particolare i miti quando questo insegnamento si tradusse in parole, costituiscano veramente, nella loro destinazione primitiva, il linguaggio stesso di tale iniziazione.



[1] Non è senza interesse far notare che quelle che in Massoneria sono chiamate le «leggende» dei diversi gradi rientrano in questa definizione dei miti, e che la «messa in azione» di tali «leggende» indica con evidenza che esse sono veramente incorporate ai riti stessi, dai quali è assolutamente impossibile separarle; quel che abbiamo detto a proposito dell’identità essenziale del rito e del simbolo si applica perciò nuovamente in modo nettissimo in questo caso.
[2] La trascrizione adottata dall’Autore per i termini greci utilizza la lettera u per il suono generalmente indicato con una y nei testi «classici» che comportano tale trascrizione, e ciò è probabilmente dovuto alla consonanza della pronuncia francese di tale lettera con il corrispondente suono della lettera greca. Abbiamo seguito la trascrizione dell’Autore. È ovvio che questa pronuncia non si applica ai termini di altre lingue, per esempio il latino, presenti nello stesso testo. [N.d.T.]
[3] Il mutus liber degli ermetisti è letteralmente il «libro muto», vale a dire senza commento verbale, ma è anche, nello stesso tempo, il libro dei simboli, in quanto il simbolismo può essere veramente considerato come il «linguaggio del silenzio».
[4] Il latino murmur non è d’altronde che la radice mu prolungata dalla lettera r ripetuta, in modo da rappresentare un suono sordo e continuo prodotto con la bocca chiusa.
[5] Per esempi di questo genere di interpretazione, si veda soprattutto il Cratilo.
[6] È da notare che questo è quel che significano anche le seguenti parole di Cristo, che confermano di fatto l’identità di fondo del «mito» e della «parabola» da noi prima segnalata: «Per coloro che sono al di fuori (espressione che equivale esattamente a quella di “profani”), lo parlo per parabole, di modo che vedendo non vedano, e sentendo non sentano» (San Matteo, XIII, 13; San Marco, IV, 11-12; San Luca, VII, 10). Qui si tratta di coloro che non intendono se non quel che è detto letteralmente, che non sono capaci di andare al di là per afferrare l’inesprimibile, e per i quali, di conseguenza, «non è stato dato di conoscere il mistero del Regno dei Cieli»; e l’uso della parola «mistero», in quest’ultima frase del testo evangelico, è da notare in modo speciale con riferimento alle considerazioni che seguiranno.
[7] È perciò etimologicamente assurdo parlare di «contemplare» un qualsiasi spettacolo esteriore, come fanno abitualmente i moderni, per i quali il vero senso della parola sembra, in così tanti casi, essersi completamente perduto.
[8] Qui si potrà anche ricordare la prescrizione del silenzio imposta un tempo in certe scuole iniziatiche, in particolare nella scuola pitagorica.
[9] Questa non è altro che l’infallibilità stessa inerente a ogni dottrina tradizionale.
[10] Questo senso della parola «mistero», il quale è parimenti legato anche alla parola «sacro» per le ragioni che abbiamo esposto prima, è molto chiaramente indicato in questo precetto evangelico: «Non date le cose sante ai cani, e non gettate le perle ai porci, per tema che essi le calpestino, e, rivoltandosi contro di voi, vi sbranino» (S. Matteo, VII, 6). Si noterà che i profani sono qui simbolicamente rappresentati dagli animali considerati «impuri», nel senso propriamente rituale della parola.
[11] La concezione comune dei «misteri», soprattutto quando è applicata all’ambito religioso, implica una confusione manifesta tra «inesprimibile» e «incomprensibile», confusione che è assolutamente ingiustificata, salvo se ci si riferisce alle limitazioni intellettuali di certe individualità.

Nessun commento:

Posta un commento